1. L'imparzialità quale valore fondante dell'amministrazione della giustizia in common law: enunciazioni generali e di principio
L'indagine comparatistica sempre più spesso esibisce la capacità di indirizzare ogni studio nel campo giuridico sul terreno del confronto tra diverse situazioni ordinamentali non soltanto nel perseguimento del tradizionale insegnamento gorliano rivolto alla misurazione di differenze ed analogie ma anche nel più progredito cammino, per effetto di tale rilevazione, verso nuove soluzioni a problemi interni: il presente saggio si ispira a questa linea.
I repertori giurisprudenziali inglesi sono affollati di massime che riflettono un pensiero diffuso e condiviso anche in dottrina circa i requisiti strutturali atti a preservare le pronunce giudiziali dal sospetto di aver tradito le aspettative di imparzialità cui l'intera collettività fondatamente aspira. In effetti, i principii coniati al riguardo, pur non doviziosi quanto alla puntuale definizione del valore in questione, la cui nozione è più facile rinvenire attraverso la descrizione del suo contrario, nel trattare il tema mostrano particolare attenzione all'antagonismo tra i benefici sociali ed istituzionali che il rispetto dell'imparzialità conferisce e le pesanti perdite che nello stesso tessuto vengono causati dalla sua lesione o anche dalla sua messa in pericolo. Grande e costante è stata l'affezione riservata al connubio tra la realtà effettuale in cui l'imparzialità stessa deve incarnarsi e la semplice impressione che tale compenetrazione si sia effettivamente realizzata o possa, comunque, realizzarsi. Lo stipite di questa posizione, negli stessi termini letterali in cui è comunemente tramandata, può ritrovarsi in un caso del 1924[1] nel quale fu resa esplicita la doppia esigenza che in ogni processo si facesse giustizia e che, comunque, ciò apparisse senza incertezze. Ben può dirsi che questa dissociazione (in realtà una congiunzione indivisibile) tra l'effettività e l'apparenza dell'amministrazione della giustizia non è mai stata abbandonata nella storia giurisprudenziale inglese in quanto si continua a reputare di estremo pericolo per la stabilità del sistema ed il mantenimento della fiducia da parte dei cittadini l'apprensione o il sospetto che una persona di mente obiettiva possa nutrire sull'operato di un giudice ed in particolare di chi si possa temere essere portatore di un atteggiamento preconcetto (“bias”) nei confronti di una delle parti processuali[2]. Il timore di ingenerare dubbi sulla serenità di giudizio di chi appartiene alla qualificata categoria professionale ha sempre attraversato le sentenze di common law, inducendo l'introduzione di misure tali da imporre l'obbligo dell'astensione da parte del giudice che fosse portatore non solo di un “bias” attuale ma anche soltanto apparente o potenziale. Fu così che in un caso scozzese (riflettente principii simmetrici a quelli sempre fatti propri dalla giurisprudenza inglese ) del 1919[3] si affermò il principio secondo cui la ricorrenza di circostanze relative alla persona di un Giudice tali da rivelarsi idonee a destare in una persona ragionevole sospetti circa la sua imparzialità è di per sé sufficiente a provocarne l'astensione (o la successiva ricusazione) seppure non sia riscontrabile in concreto alcun pregiudizio (“bias”). Completa questa posizione la successiva affermazione per la quale l'esercizio di funzioni giurisdizionali comporta per chi la esercita l'obbligo di adempierle con un atteggiamento mentale imparziale e lontano da posizioni precostituite[4]. Sempre nel solco della prevenzione di possibili, non necessariamente effettive, situazioni generatrici di sospetto sulla libertà del Giudice da contaminazioni sorgenti da pregiudizi (come sempre si parla al riguardo di “bias”, termine inglobante in sé ogni condizione psicologica affetta da mancanza di imparzialità) si inserì una pronuncia del 1960 della House of Lords che sottolineò (sulla base di una mera congettura psicologica, va aggiunto) come, per quanto un Giudice sia in buona fede convinto di agire imparzialmente, la sua mente potrebbe essere, tuttavia, a livello inconscio affetta da un “bias” inficiante[5].
Una sentenza più recente della House of Lords è tornata ad occuparsi del tema delle indagini commesse ad una corte di giustizia investita della denuncia di pregiudizio albergante nella mente di un giudice. Si è, infatti, affermato che, all'infuori dei rari casi in cui venga dedotto l'effettiva presenza di un “bias”, il compito dei Giudici chiamati a pronunciarsi sulla questione non è quello di accertarlo, quanto di verificarne la semplice possibilità, indossando le vesti di una persona ragionevole, avendo riguardo all'eventualità che la sua mente possa essere stata distorta da un atteggiamento pregiudizialmente favorevole o contrario ad una delle parti, sì da viziare la decisione[6]. Il punto riveste una speciale rilevanza nell'economia di questa ricerca, come apparirà chiaro nel prosieguo.
2. L'ipotesi tipica di carenza di imparzialità nell'ordinamento inglese: la sussistenza di un interesse diretto o indiretto del giudice all'esito del processo
Quando, come è necessario in una prospettiva di utile connessione interordinamentale, si trascorre dal momento astrattamente definitorio dell'imparzialità, o del suo opposto, poggiante sulla base della ricognizione del suo valore sociale a quello ,di non minore utilità a fini anche di bruciante attualità, della concreta individuazione in common law delle cause produttive della relativa lesione ci si accorge che la realtà giurisprudenziale si rivela circoscritta ad un'ipotesi tipica la cui verifica presenta ridottissimi margini di difficoltà in ragione del relativo carattere nominato ed obiettivo: il che mette da canto le incertezze che una trattazione del tema in termini puramente o prevalentemente psicologici (l'introspezione della mente del Giudice e delle sue pulsioni anche in termini di vissuto biografico) indubbiamente incoraggerebbe.
Ancora una volta il metodo euristico destinato a guidare lo studio deve rimanere fedele allo schema contraddistintivo di quel sistema e del relativo apparato di fonti di produzione, ancorato ai precedenti giurisprudenziali, comuni all'intero corpo sociale, del quale ambiscono a divenire espressione, e per questo divenendo capaci di assurgere a fondamento dell'ordinamento.
Ancora una volta, è cogente la necessità che queste riflessioni non si lascino imbrigliare dalla tentazione di dipingere il quadro ordinamentale alla stregua delle pure declamazioni (che, ricordando l'intramontabile, acutissima lezione di Rodolfo Sacco, si prestano a convertirsi in involontari strumenti “mentitori” rispetto alla realtà fenomenica che trasuda dalle singole fattispecie[7]) ed optino per necessità metodologica all'osservazione del fenomeno giuridico nel suo dispiegarsi storico-fattuale.
Aderendo a questo modello di ricerca scientifica, peculiarmente consigliato con riguardo ad un sistema di judge-made law, si scopre innanzitutto che la situazione da cui ha tratto origine l'intera teoria antagonista delle cadute dell'imparzialità muove dall'allarmante ipotesi della rilevabilità di un interesse, diretto o indiretto, economico o di altra natura, del Giudice rispetto al risultato processuale. Già in un caso del 1852, infatti, si scolpì il tralaticio principio proibitivo della possibilità di giudicare in un caso nel quale si possano rinvenire ragioni riferibili alla persona del Giudice, cui è precluso di esercitare le funzioni “in causa propria”, la quale descrive sia l'ipotesi che egli sia parte del processo sia quella in cui egli in esso abbia interesse[8].
Proprio attorno a questa ipotesi ruota il complessivo discorso giudiziale inglese in materia di difetto di imparzialità. Essa, infatti, visibilmente rappresenta la massima estensione della compromissione dell'immagine di distacco del Giudice dagli interessi in conflitto (penale o civile) e di conseguente, immancabile incrinatura della fiducia della collettività nel suo operato e, per giurisprudenza pacifica, importa l'obbligo di astensione “automatica”, non preceduta, cioè, da una previa indagine circa la concreta lesione dell'imparzialità.
A questo tipo di situazione si affianca, nell'opinione di Lord Goff of Chiveley nel caso Pinochet del 1999 di cui alla nota 4, quella, di rilevanza teorica nella diretta misura in cui non è stato possibile rinvenire precedenti in termini nelle corti di ultima istanza (House of Lords e Supreme Court), relativa al caso in cui il Giudice, pur non rivestendo la qualità di parte processuale o non essendo portatore di una qualche forma di interesse nella causa, susciti con la propria condotta sospetti circa la propria imparzialità (in quanto, ad esempio, amico di una delle parti)[9].
Proprio il contesto riferibile alla sentenza in questione fornisce suffragio alla tesi qui sostenuta, e cioè che in effetti a dominare la scena della obbligatoria astensione per difetto di imparzialità sia la circostanza che il giudice sia portatore di interesse nella causa (anche nella massima estensione di una possibile legittimazione processuale o sostanziale). Ed infatti, l'unanime decisione della House of Lords fu nel senso che ricorresse proprio questa ipotesi con riguardo alla posizione di un componente del medesimo collegio, Lord Hoffmann, che aveva concorso con voto decisivo alla definizione del giudizio tra le stesse parti fu, pertanto, accolto il ricorso straordinario proposto dalla difesa contro la precedente sentenza dello stesso organo in quanto viziata da un evidente pregiudizio classificabile alla luce della prima delle situazioni descritte da Lord Goff.
Il caso, del tutto unico nella storia giurisprudenziale inglese, si riferiva alla richiesta di estradizione in Spagna, richiesta da quel Paese, di Pinochet per delitti rientranti nel paradigma della tortura commessi quando, dopo il tragico rovesciamento dell'assetto democratico compiuto nel settembre del 1973, aveva assunto la guida del governo del Cile. Allorché il procedimento fu esaminato da un collegio della House of Lords di cui faceva parte proprio Lord Hoffmann si pervenne alla conclusione (con la stretta maggioranza, di cui faceva parte il menzionato Giudice, di 3 a 2) dell'accoglibilità della domanda di estradizione. A distanza di qualche giorno la difesa del dittatore propose istanza straordinaria (tale perché non assistita dal conforto di analoghi precedenti) di annullamento della sentenza di ultima istanza sulla base della scoperta che la moglie di quel giudice prestava servizio con funzioni amministrative presso la sede inglese di Amnesty International che era intervenuta nel procedimento a sostegno della domanda del governo spagnolo. Si scoprì anche che il Giudice era uno dei due direttori di un'associazione, l'Amnesty International Charity Limited, che agiva nell'interesse di Amnesty International nel territorio britannico curandone le attività di carattere non volontaristico, pur non percependo alcun emolumento e non avendo concorso alla determinazione di intervenire nel giudizio contro Pinochet.
Un grappolo di problemi veniva posto dinanzi al nuovo Collegio, che avrebbe potuto risolverli pervenendo alla conclusione che la precedente sentenza fosse affetta da “bias” del secondo tipo, quello privo di automatismo e da determinare volta per volta.
In primo luogo, la House of Lords avrebbe potuto porre con priorità logica la questione afferente alla moglie di Lord Hoffmann e pervenire in ipotesi alla conclusione assorbente della riconducibilità della relativa posizione al novero di quelle legittimanti l'astensione per così dire facoltativa. In secondo luogo, andava affrontato il tema della estensibilità alla fattispecie del citato principio del 1852 secondo cui l'unica forma fino ad allora nota di interesse impositivo dell'obbligo di astensione in omaggio al principio “nemo iudex in causa propria” dovesse essere di natura economica: e ciò a differenza del caso in esame. Ed infine, anche la posizione di Lord Hoffmann avrebbe potuto essere riguardata dall'angolo visuale dell'opportunità dell'astensione secondo il modello disegnato dalla seconda delle categorie descritte da Lord Goff.
L'impostazione seguita dalla House of Lords fu di tutt'altro segno. Essa preferì concentrare la propria analisi sui rapporti tra l'ente di cui Lord Hoffmann era condirettore e la parte in giudizio, pur labili e non configurabili in termini di interesse economico, e concludere non senza un'accelerazione argomentativa che anche interessi di natura diversa da quelli patrimoniali potevano dar vita ad una situazione di diretta partecipazione del Giudice alla lite, come era in concreto accaduto. Ciò consentì al Collegio di accogliere il ricorso dell'estradando e di dichiarare assorbito il motivo riguardante la posizione della moglie di Lord Hoffmann. Il concorso di queste circostanze sembra denunciare una netta propensione per il modello automatico di astensione a preferenza di quello discrezionale che invece comporta un'opinabile analisi delle circostanze reagenti sul piano dell'opportunità e ricadenti sotto la lente del sospetto: strada evidentemente, e per nulla incongruentemente, giudicata incerta e sfuggente.
Ulteriore e non meno eloquente asseverazione di questa tendenza è stata data dalla stessa House of Lords in un seminale caso del 2005 nel quale si controverteva dell'ammissibilità in un processo penale inglese di prove ottenute mediante tortura da un governo straniero[10]. Il collegio fu unanime nel riformare la sentenza della Court of Appeal ed affermare la assoluta contrarietà al diritto internazionale consuetudinario e convenzionale ed allo stesso common law la pratica della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti: memorabile rimane l'opinione base del compianto Lord Bingham of Cornhill. Quel che ai presenti fini rileva è che, senza che la circostanza abbia assunto alcuna rilevanza ostativa né sia stata dedotta come preclusione o vizio, del Collegio facesse parte un Giudice, Lord Hope of Stanhope, autore di un'opinione concorrente, che solo l'anno prima in un articolo dottrinario aveva scritto a proposito della tortura che essa può essere utilizzata su larga scala quale strumento ed espressione di un governo totalitario e come mezzo di esercizio del potere[11].
Ancora una volta la giurisprudenza di ultima istanza si è rivelata aliena dal dar peso ad aleatorie ipotesi di scalfittura dell'immagine di imparzialità giudiziale, nel caso di specie affidate alla semplice espressione di opinioni generali di politica del diritto e si è apprezzabilmente tenuta fedele ai paradigmi definitori che subordinano l'obbligo di astensione e la conseguente “disqualification” in caso di renitenza alle ipotesi di diretta connessione dei comportamenti e delle condizioni soggettivi del Giudice allo specifico processo alla stregua della loro diretta ed accertata influenza sul possibile esito dello stesso. Nessuna indulgenza è stata, in sostanza, praticata verso fattispecie in cui tale collegamento mancasse, fosse inafferrabile o si limitasse a riflettere espressioni della personalità, della sensibilità, della cultura, dei sentimenti, delle inclinazioni ideali del Giudice. Lezione, questa, doverosamente fruibile anche nell'ordinamento interno italiano, come si sta per dire.
3. L'imprescindibile nesso tra condizione personale del giudice ed oggetto e soggetti del giudizio ai fini della tutela della sua imparzialità: il viatico della giurisprudenza italiana costituzionale di legittimità
Se il frutto della comparazione giuridica quale metodo scientifico applicato alla conoscenza dei fenomeni circolanti nel mondo globale del diritto è da cogliersi anche nella fase successiva a quella critico-ricognitiva del dato offerto dall'esperienza e dai suoi fattori formativi, quello che discende dalle precedenti ricerche nel diritto inglese sembra procedere in direzione univoca: non mancano, come si vedrà, argomenti perché anche l'ordinamento italiano imbocchi il medesimo itinerario di marcia.
Si è infatti visto quanta sostanziale indifferenza il common law britannico abbia esibito rispetto a circostanze che non ridondino sulla capacità del Giudice di tenersi fuori dalla contesa giudicanda, ossia di non ricoprire rispetto ad essa ruoli che ne sottolineino qualsiasi possibile forma di interesse, diretto o indiretto, economico o non. Gli stati d'animo, quale che ne sia la provenienza, i quali non si siano tradotti in esplicite dichiarazioni di pregiudizio rispetto alle parti in causa o alla materia oggetto del giudizio vengono spiegabilmente relegati ai margini della rilevanza giuridica e reputati inidonei a costituire motivo di legittimo turbamento della fiducia collettiva nell'amministrazione della giustizia. Sintomatica è la incontrastata compatibilità tra l'attività pubblicistica, e quindi appartenente al regno della cultura e delle idee, del Giudice anche su materie successivamente sottoposte al suo vaglio e la futura attività giurisdizionale che, pur rimanendo attratta nell'ambito tematico già trattato, non riguardi direttamente le persone o le posizioni delle parti del giudizio. Nulla vi è di casuale in questo orientamento: esso non costituisce che la manifestazione della regola operativa ed istituzionale al tempo stesso per cui solo la contaminazione in termini di interesse tra la funzione giurisdizionale e la posizione delle parti processuali può prevenire la dichiarazione di insussistenza di cause che pregiudichino l'imparzialità. E questo a differenza delle varie declinazioni che può assumere la conformazione culturale, ideale, morale in senso lato politica del Giudice. Del resto la disciplina codicistica del processo civile e di quello penale si allinea perfettamente alla concezione dell'inquadramento degli istituti dell'astensione e della ricusazione in un preciso alveo di tipicità e concretezza, lasciando la clausola generica delle “gravi ragioni di convenienza” prevista, ad esempio, dall'art.51 comma 2 del codice di procedura civile in una sfera di indeterminatezza solo superabile dalla concreta, e rarissima, verifica della sussistenza di una condizione soggettiva del Giudice di tale gravità da troncare il rapporto di indifferenza rispetto all'esito della lite che ne deve connotare l'attività. In questo senso l'estrema limitatezza del fruttuoso ricorso a tale clausola in sede di discussione delle istanze di astensione o ricusazione rafforza l'omogeneità di vedute tra ordinamento italiano ed ordinamento inglese: entrambi, infatti, restringono il campo applicativo dei due istituti, evitando accuratamente di riconoscere possibilità di ingresso in materia ad apprezzamenti del tutto soggettivi ed esterni alla rigida tipologia normativa dai quali si pretendesse di desumere indici ostativi all'imparzialità del Giudice. La (vana) invocazione di generiche ed impalpabili ragioni pretensive dell'astensione si sottrae, pertanto, alla logica del sistema (dei sistemi qui considerati), tutta incentrata sull'obiettivo di impedire la diretta immedesimazione del giudice negli interessi e nelle aspettative delle singole parti processuali e nelle loro posizioni ideali. Perché queste ultime, sia che appartengano alla sfera del Giudice sia a quella delle parti, non possono mai divenire né parametro di valutazione censoria dell'operato del Giudice avulso dall'esame delle ragioni del suo provvedimento né, se riferite alle parti, polo di attrazione in un senso o nell'altro della decisione.
Perfettamente combaciante con questo modo di intendere l'ininfluenza rispetto al parametro dell'imparzialità di fattori esterni alle previsioni normative è il preciso indirizzo delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, formatasi in tema di disciplina dei magistrati, che ha affermato che «Il principio dell'indipendenza è volto a garantire l'imparzialità del Giudice, assicurandogli una posizione “super partes” che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere»[12]. La Corte Costituzionale aveva felicemente inaugurato la stagione della preservazione, in chiave di tutela e non punitiva, delle fondamentali prerogative giudiziali stabilendo come equilibrato contrappeso la necessità dell'esercizio della funzione «libero da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il Giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza»[13]. Ed il nesso tra attività giurisdizionale e concreto interesse all'esito del processo è scultoreamente sancito sempre dalla Corte Costituzionale quando ha statuito che i magistrati sono tenuti «ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell'adempimento delle proprie funzioni»[14].
In conclusione, questo breve accostamento tra sistemi autorizza la conclusione che il vero nemico da neutralizzare per non vedere scosse l'indipendenza e l'imparzialità giudiziale (anche in termini di apparenza) è il diretto ed attuale interesse del Giudice alla decisione ed agli interessi di una delle parti ,mentre nessun pericolo può essere addebitato alle convinzioni personali del Giudice che non vengano indebitamente esternate nel provvedimento, l'unico metro di giudizio applicabile al quale deve rimanere quello discendente dalla motivazione, in quanto obbligo costituzionalmente sancito (art.111 comma 6) a garanzia della trasparenza e controllabilità esterna della decisione[15].
[1] Rex v Sussex Justices, Ex parte Mc Carthy (1924) KB 259, in cui Lord Hewart scrisse le famose parole: «It is of fundamental importance that justice should not only be done,but should manifestly be seen to be done».
[2] Principio riaffermato nel caso australiano Webb v The Queen (1994) 181 CLR 4.
[3] Law v Chartered Institute of Patent Agents (1919) 2 Ch 279: l'opinione che si cita nel testo fu espressa dal Giudice Eve.
[4] Così si espresse Lord Hope of Craighead nel caso seminale deciso dalla House of Lords nel 1999, di cui si parlerà ulteriormente nel testo, Pinochet, In Re (1999) UKHL 1.
[5] Questa l'opinione di Lord Devlin in Reg v Barnsley Licensing Justices, Ex parte Barnsley and District Licensed Victuallers' Association (1960) 2 QB 187.
[6] Si tratta del passaggio maggiormente caratterizzante dell'opinione principale della stessa House of Lords espressa da Lord Goff of Chieveley in Reg v Gough AC 1993, 646, in cui si controverteva sulla affidabilità di una sentenza di condanna penale emessa da una giuria di cui faceva parte una vicina di casa dell'imputato. Ovviamente l'impugnazione di quest'ultimo fu rigettata sotto il profilo dell'assoluta carenza di cause induttive dell'obbligo di astensione.
[7] Sacco, Le massime mentitorie, in La giurisprudenza per massime e il valore del precedente - con particolare riguardo alla responsabilità civile, a cura di Giovanna Visintini, Padova, 1988.
[8] E' celebre l'opinione di Lord Campbell in Dimes v Grand Junction Canal (1852) 3 H.L.C. 793 (relativo ad una lite in cui il Giudice competente era azionista di una società di capitali convenuta in giudizio). Essa fu ripresa da Lord Goff of Chieveley in Re Pinochet, citato a nota 4, nei seguenti termini: «The principle that a man shall not be a judge in his own case is not confined to a cause to which the judge is a party, but also when he has an interest».
[9] «Where a judge...in some other way (NdA through) his conduct may give rise to a suspicion that he is not impartial, i.e., because of his friendship with a party».
[10] A v Secretary of State (2005) UKHL 71.
[11] Hope, Torture, International Comparative & Law Quarterly Review, 2004, pag.807 ss: «Torture may be used on a large scale as an instrument of blatant expression of totalitarian government...torture is an instrument of power».
[12] Cass. SS.UU. civili sentenza 8906 del 2020.
[13] Corte Costituzionale sentenza 18 del 1989.
[14] Corte Costituzionale, ordinanza 81 del 1995.
[15] Alla stregua del sempre attuale pensiero di Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975.