1. Il problema
Il tema della certezza del diritto accompagna da sempre, come un’ombra, la problematica della giurisdizione per clausole generali. L’interrogativo che viene posto a questo proposito è il seguente: se affidiamo alla tecnica della fattispecie legale la prevedibilità e calcolabilità del diritto, come possono disposizioni elastiche, affidate alla concretizzazione giudiziale, garantire uniformità e certezza dei rapporti giuridici? La clausola generale sembra entrare in contraddizione con il principio di certezza del diritto, baluardo del diritto moderno, non solo nel settore penale, ma anche in quello civile.
2. Regolare i confini fra clausola generale e fattispecie legale
Muoviamo da una preliminare indicazione di metodo. La certezza dei rapporti giuridici in materia di clausole generali dipende in primo luogo dalla corretta regolamentazione dei confini fra fattispecie legale e clausola generale. Bisogna qui evitare che si abusi delle clausole generali nella risoluzione delle controversie. In un sistema dominato dalla forma di legge, quale è il nostro in cui il giudice è soggetto alla legge, il giudice può fare applicazione della clausola generale, provvedendo alla sua concretizzazione, solo in mancanza della fattispecie legale. La clausola generale interviene solo dove non c’è la fattispecie legale, dove cioè il legislatore non abbia lui provveduto a concretizzare il valore che la clausola generale esprime.
Clausola generale e norma a fattispecie sono schemi normativi destinati a intervenire su territori diversi. La scelta della tecnica normativa da parte del legislatore, fattispecie o clausola generale, risponde anch’essa a un’esigenza di certezza perché, se il legislatore ha reputato rilevante provvedere mediante fattispecie, ha evidentemente dato un particolare peso in quella materia all’esigenza che il diritto sia calcolabile. Particolarmente istruttiva per la delimitazione dei confini fra clausola generale e fattispecie è la materia del contratto.
I presupposti affinché un fatto o atto produca effetti giuridici, sia cioè da considerare come valido (quando si tratti di un atto), o i presupposti affinché l’atto non produca effetti e sia dunque nullo, sono affidati alle fattispecie, che appunto prevedono fatti e vi collegano effetti giuridici. Può accadere che all’interno della fattispecie taluni elementi siano rappresentati da una clausola generale, come nel caso dell’art. 33 del codice del consumo, dove il carattere abusivo della previsione contrattuale, e dunque la sua nullità, dipende non solo dal significativo squilibrio di diritti ed obblighi che caratterizza la previsione, ma anche da un comportamento contrario a buona fede del professionista. La clausola generale è qui, tuttavia, un elemento interno alla fattispecie legale. Se la fattispecie condiziona l’efficienza giuridica degli atti o fatti, allora vuol dire che la sede d’intervento della clausola generale non è quella della produzione degli effetti giuridici dell’atto, ma è la disciplina del comportamento dei cives o delle parti contraenti quando si tratta di un contratto. L’effetto giuridico rilevante in materia di clausole generali è relativo non agli atti o ai fatti in genere, ma ai comportamenti.
Per restare al contratto, la clausola generale non riguarda il complesso di effetti giuridici che l’atto contrattuale produce, perché al collegamento di questi provvede in via astratta e generale la fattispecie legale in funzione di certezza dei rapporti giuridici, come risulta evidente nelle vicende circolatorie dei beni e nella posizione dei terzi rispetto al contratto. La validità del titolo per le esigenze del traffico giuridico deve essere predeterminata per legge. La clausola generale riguarda invece il rapporto fra le parti, che s’instaura a seguito di quell’atto, o prima di esso nel caso della responsabilità precontrattuale. Si tratta di una vicenda individuale, relativa al caso concreto, alla cui disciplina il giudice provvede concretizzando la clausola generale. Buona fede, diligenza rinviano pertanto a regole di comportamento all’interno di un concreto rapporto giuridico, mentre alla disciplina degli effetti dell’atto contrattuale provvede il legislatore in via generale e astratta.
In generale, quindi, il giudice dirime la controversia identificando una regola del caso concreto sulla base della clausola generale solo se quella vicenda non abbia già trovato la sua disciplina astratta e generale in una fattispecie. Se così fosse, ciò che spetterebbe al giudice sarebbe soltanto sussumere il caso concreto nella previsione astratta e generale. Chiarita la premessa metodologica, entriamo nel merito di cosa consiste una giurisdizione per clausole generali.
3. L’aporia della clausola generale quale recezione di norme sociali
Partiamo da un interrogativo: risponde a verità che la concretizzazione della clausola generale sia espressione di mera discrezionalità del giudice e sia dunque per definizione imprevedibile? Non pochi sostengono che, quando il giudice dirime una controversia facendo applicazione delle clausole generali, emerge un diretto collegamento fra il caso e i valori soggettivi del singolo giudice. Questi sarebbe guidato nella decisione dal demone che tiene i fili della sua vita, per dirla con Max Weber. L’idea che la decisione giudiziale sia diretta espressione del background culturale del giudice, senza la mediazione che offre la fattispecie legale, discende dalla dominante configurazione della clausola generale.
Secondo questa visione, la clausola generale è organo di respirazione dell’ordinamento, che consente la penetrazione in quest’ultimo dei valori presenti in un determinato ambiente sociale. Nell’applicazione della clausola generale si riflettono gli standard valutativi del contesto storico-sociale. Le norme vaghe o elastiche rinviano così a criteri esterni di integrazione, a norme sociali o metagiuridiche. Siccome poi viviamo in società pluralistiche rette dal politeismo dei valori, per dirla ancora con Weber, la clausola generale sarà interpretata in base a quel valore cui aderisce il singolo giudice. Già Luigi Mengoni ammoniva sulla contraddizione che si annida in questa recezione della norma sociale da parte della norma giuridica: al giudice, diceva Mengoni, deve essere data la possibilità, avvalendosi della clausola generale, di definire regole di comportamento più avanzate rispetto alle vedute correnti, pena la ricaduta del diritto in una funzione meramente conservativa dell’esistente e non di direttiva dell’assetto sociale. Il completamento della norma elastica mediante il recepimento del criterio meta-giuridico entra in contraddizione con l’eccedenza deontica che il diritto deve conservare rispetto al modo di essere della realtà. Il diritto, se vuole assolvere il proprio compito di dover essere, deve marcare un’autonomia ed indipendenza rispetto alla realtà.
Dobbiamo allora guardare alle clausole generali sulla base di un diverso punto di vista, e per far questo dobbiamo aprire una parentesi nel nostro discorso e fare una riflessione di carattere generale.
4. La clausola generale come ideale di norma
Il diritto moderno sorge per reazione all’antico ordine giuridico medievale. Quest’ultimo era connotato non solo dalla frammentazione del diritto a seconda dei ceti e dei territori, ma anche dalla consustanzialità dei criteri di giustizia alla realtà pratica, era un diritto del caso concreto nel senso dell’immanenza della regola al caso, regola che era a sua volta però espressione di un ordine ontologico più vasto. Il diritto moderno è un artificio, è una creazione artificiale, ma che tuttavia risponde a un ideale regolativo. Il diritto moderno persegue ideali normativi, che corrispondono a ideali di ragione, secondo la grande lezione illuministica. Si tratta di ideali che sono programmaticamente astratti dalla realtà pratica, e che dunque non rispecchiano un ordine ontologico che sarebbe nelle cose, perché il loro compito è la trasformazione della realtà, la conformazione di quest’ultima a principi regolativi. La normatività del diritto moderno risiede proprio nella sua astrattezza rispetto al reale. Il punto di avvio del sistema è dunque l’enunciazione di un insieme di ideali. Le norme giuridiche sono la risultante dell’incontro di quegli ideali con i fatti da regolare. Dall’incontro di questi ideali con classi astratte e generali di fatti nascono le fattispecie legali. Il diritto nella modernità è dato dal reciproco adeguamento di forme ideali e stati di fatto.
Le fattispecie legali sono perciò la risultante della convergenza di forme ideali e circostanze fattuali. Si faccia il caso dell’ideale della correttezza. Quest’ultima può essere contemplata dalla disposizione in quanto tale e nasce la clausola generale di buona fede, che troviamo negli artt. 1337 e 1375 cc. La concretizzazione dell’ideale della correttezza è qui affidata al giudice nella singola controversia: la forma ideale (il dovere di comportarsi secondo buona fede) acquista significato in relazione alle circostanze del caso grazie all’opera del giudice. La buona fede non resta però soltanto una forma ideale di comportamento, ma al cospetto di classi astratte e generali di fatti, quali le ipotesi di invalidità del contratto (art. 1338), i vizi della cosa locata (art. 1578), comodata (art. 1812) o mutuata (art. 1821), si materializza come obbligo di comunicazione e diventa fattispecie legale. Non è più una clausola generale, che spetta al giudice di concretizzare in base alle circostanze del caso, ma è diventata un fattispecie rispetto alla quale fare la classica operazione di sussunzione. Quella fattispecie è il risultato dell’articolazione della forma ideale a una classe di fatti. Alla concretizzazione dell’ideale ha provveduto qui il legislatore, con riferimento non al caso concreto, come fa il giudice, ma al fatto astratto e generale. All’ideale che si ripercuote in una pluralità di fattispecie diamo poi il nome di “principio generale” (di correttezza, per restare all’esempio della buona fede).
Fattispecie e clausola generale rinvengono perciò la comune origine in un ideale. Quell’ideale si deforma al cospetto di fatti astratti e generali (nella fattispecie) o del fatto concreto (nella clausola generale) perché l’ideale acquista consistenza e concreta fisionomia soltanto in relazione alle circostanze. Non c’è la buona fede in generale, ma un comportamento conforme a buona fede date determinate circostanze e, dunque, una specifica regola di condotta da seguire. Concentriamo allora l’attenzione sulla clausola generale perché essa, in quanto diretta manifestazione della forma ideale, esprime al meglio la fenomenologia del rapporto fra ideale e fatti.
La clausola generale non è la regolazione del caso, ma è la regolazione ideale cui la regolazione di ciascun caso deve attenersi. La possiamo perciò definire “ideale di norma”. La clausola generale non fissa il contenuto della regola giuridica, in via generale e astratta, secondo la tecnica della norma a fattispecie, ma fissa il criterio di identificazione della regola giuridica relativa al caso concreto. Se fissasse direttamente il contenuto della regola giuridica, la sua applicazione implicherebbe l’operazione della sussunzione del caso concreto nella previsione astratta e generale. Non è questa l’operazione che si compie perché sta al giudice porre, sulla base del criterio offerto dalla clausola generale, la regola giuridica del caso concreto.
La disposizione che contempla una clausola generale non enuncia così una norma in senso proprio, ma un ideale di norma cui attingere per l’identificazione di quella che possiamo chiamare la “norma individuale”. La clausola generale è l’idea-limite che deve essere presunta a ogni disciplina del caso concreto, è il principio di ragione postulato in ogni regolazione. Come scrive Joseph Esser, il quale definisce la clausola generale «forma-limite», al giudice viene tolta l’illusione di una fattispecie fissa e già preparata e gli viene palesato l’impegno di disciplinare il caso in modo giusto. Ciò che si esige dal giudice è l’appello a un ideale di regolazione. Identificare la norma individuale corrisponde per l’interprete all’assunzione di un impegno normativo nella direzione del parametro costituito dall’idea-limite. Egli deve uniformarsi all’imperativo della liberazione dagli orientamenti soggettivi di valore e del perseguimento della forma ideale. Concretizzando la clausola generale, il giudice assume il dovere di indipendenza da se stesso e si appella a un ideale.
La clausola generale non è dunque la sede di recezione da parte dell’ordinamento dei valori correnti nella società, ma è il punto in cui il diritto aspira al massimo di normatività rispetto alla società perché è la sede in cui gli ideali normativi si manifestano nella loro immediatezza. È dunque un grande impegno di responsabilità per il giudice quello della concretizzazione della forma ideale. Siamo ben lungi dal dare sfogo ai propri orientamenti di valore. Si tratta di ritrovare nel caso concreto l’ideale di normazione che la legge ha fissato mediante la clausola generale.
5. La norma del caso concreto
Torniamo, a questo punto, al nostro problema di partenza: attraverso quali vie possiamo cogliere una prevedibilità, anche tendenziale, nel campo dell’applicazione delle clausole generali e rispondere all’esigenza di certezza del diritto?
La clausola generale è un ideale di norma perché indica solo l’astratto criterio di valutazione. La norma a fattispecie consta dell’elemento materiale, il fatto astratto e generale, e dell’elemento formale, che corrisponde all’effetto giuridico collegato al fatto sulla base del criterio di valutazione. La clausola generale contempla invece solo il criterio di valutazione. Sta al giudice scrivere la norma del caso: identificare il fatto della controversia e collegarvi un determinato effetto giuridico, dando attuazione al criterio di valutazione previsto dalla clausola generale. La norma in senso tecnico che trova applicazione è questa norma individuale che il giudice pone. Si tratta di una norma giuridica a tutti gli effetti, e non di una mera puntualizzazione interpretativa della clausola generale, perché quest’ultima non dice nulla né sul fatto né sull’effetto giuridico, fornisce solo il criterio in base al quale il giudice dovrà collegare a un determinato fatto una determinata conseguenza giuridica. Il giudice farà, cioè, quello che il legislatore fa in via astratta e generale: collegare effetti giuridici a fatti in base a un determinato criterio.
Il giudice non è, dal punto di vista tecnico, creatore di diritto. Ha forza di norma giuridica in senso tecnico soltanto il giudicato perché questo, una volta formatosi, si sostituisce alla legge generale e astratta quale norma di diritto sostanziale del rapporto. E però perfino il giudicato in base all’art. 2909 cc corrisponde a una dichiarazione: come da tempo ha spiegato la migliore dottrina processualista, e come risulta del resto dalla stessa lettera della norma, ciò che fa stato fra le parti ai sensi dell’art. 2909 non è la sentenza passata in giudicato ma l’accertamento in essa contenuto, e dunque la dichiarazione sullo stato di diritto.
Anche quando concretizza una clausola generale il giudice dichiara il diritto, ma l’associazione di fatto e diritto che la sentenza enuncia non rinviene nell’ordinamento positivo una disposizione corrispondente, come accade quando si sussume la fattispecie concreta in quella legale, perché la legge si limita a prescrivere il criterio di valutazione, affidando al giudice il compito di identificare il fatto rilevante e l’effetto giuridico conseguente. La disciplina del rapporto dedotto in giudizio non riposa, pertanto, sulla norma generale e astratta, ma sul diritto del caso concreto che spetta al giudice dichiarare. Discendono da qui tre conseguenze.
6. Un diritto casistico
In primo luogo, la giurisdizione per clausole generali corrisponde a un diritto pienamente casistico, retto da norme di carattere individuale. Possiamo immaginare che in parallelo alla giurisdizione per fattispecie legali, che rappresenta la forma dominante in un sistema legalistico, si dispieghi una giurisdizione retta dal diritto del caso concreto, nel quale la controversia è risolta non per via di sussunzione, ma per via di identificazione di una norma individuale. Queste due giurisdizioni corrono in modo parallelo, ma non separato. L’elemento di giuntura è dato dal fatto che il criterio di valutazione che presiede al diritto casistico è fornito dalla legge ed è un criterio comune alle fattispecie legali e alle clausole generali, come abbiamo visto per la buona fede. Nel diritto casistico permane la supremazia, in ultima istanza, della legge perché il criterio che regge la norma individuale è sempre fornito dalla legge.
Risiede qui la differenza fra l’applicazione della clausola generale e la decisione della causa secondo equità. Nella pronuncia secondo equità, il giudice non identifica la norma del caso concreto attingendo a un ideale normativo, ma recepisce esclusivamente le circostanze fattuali desumendone a posteriori, secondo una logica perfettamente aderente alle circostanze del caso, la risoluzione della controversia. La decisione in base alla clausola generale deriva, invece, dall’adeguamento alle circostanze del caso di una forma ideale prevista dalla legge. Il giudice decide qui la controversia in base a una norma di diritto non solo perché applica la clausola generale prevista dalla legge, ma anche perché la decisione è la risultante dell’adeguamento della forma ideale alle circostanze fattuali, coerentemente a ciò che per la modernità significa norma di diritto, adeguamento che manca nella decisione secondo equità, in cui tutto dipende dalle circostanze del caso.
7. Quale sindacato della Corte di cassazione
La seconda conseguenza attiene alle caratteristiche del sindacato della Corte di cassazione nel caso di controversia risolta mediante l’applicazione di clausole generali. Fino a una ventina di anni fa, si riteneva che per questo genere di controversie fosse possibile solo il sindacato sul vizio motivazionale. Grazie alla giurisprudenza – soprattutto della sezione lavoro – si è pervenuti al sindacato per violazione della norma di diritto, dove per norma violata si intende, come è evidente, la clausola generale. Questo sindacato viene concepito come sindacato sul giudizio di valore espresso dal giudice di merito. Si afferma che tale giudizio di valore deve essere conforme, per quanto concerne ad esempio le norme elastiche nella materia del diritto del lavoro, ai principi propri dell’ordinamento lavoristico così come compendiato dai principi espressi dalla giurisdizione di legittimità e dagli standard valutativi del contesto storico-sociale, i quali devono restare coerenti al diritto vivente del lavoro.
Il sindacato che così viene svolto rinvia a un parametro generale e astratto e dunque, in definitiva, al controllo di legittimità tradizionalmente svolto in relazione alle norme a fattispecie. Si tratta di un modello di sindacato basato sulla rigorosa separazione di giudizio di diritto e giudizio di fatto, che con riferimento alla giurisdizione per clausole generali non ha ragion d’essere.
Nel caso della clausola generale, il fatto non è il bruto fatto che deve essere qualificato mediante sussunzione nella fattispecie generale e astratta, ma è l’elemento materiale della norma individuale che il giudice ha individuato. Il fatto concreto è parte della norma. Nel caso della norma a fattispecie, l’attitudine del fatto a produrre effetti giuridici è stata già valutata sul piano astratto e generale dal legislatore. La questione di diritto resta come errata individuazione della norma regolatrice o come applicazione della norma in difformità dal suo contenuto precettivo. Nella norma concreta di diritto non c’è invece distinzione fra il fatto astratto e il fatto concreto. Ciò che entra nella norma non è la classe di fatti, ma il fatto concreto: accertare il fatto vuol dire, sotto quest’aspetto, accertare la norma. La valutazione del fatto, sotto il profilo ad esempio della ricorrenza della giusta causa di licenziamento o del comportamento contrario a buona fede, è oggetto del sindacato di legittimità ai sensi dell’art. 360, n. 3, cpc per violazione di diritto. Si tratta di un giudizio di terzo tipo, non meramente fattuale né soltanto giuridico, ma risultante dalla combinazione di giudizio di fatto e giudizio di diritto. Il parametro di legittimità della sentenza di merito non è però la clausola generale, ma la norma concreta di diritto risultante dalla corretta concretizzazione della clausola generale. Il principio di diritto che a questo punto verrebbe a enunciare la Corte di cassazione non sarebbe separabile dal caso concreto, alla stessa stregua di quanto accade con la casistica della giurisprudenza anglosassone.
Quando, però, in questione è il regolamento di confini fra fattispecie e clausola generale, riappare il paradigma tradizionale del controllo di cassazione, perché la clausola generale viene in rilievo in quanto tale quale parametro di legittimità della sentenza di merito. La violazione denunciata attiene ora all’esistenza stessa dei presupposti per l’applicazione di una norma concreta da identificare mediante l’ideale normativo contenuto nella clausola generale. In discussione non è qui l’identificazione della norma individuale, ma se si debba accedere a una giurisdizione per clausole generali. È la stessa possibilità di applicare una norma concreta di diritto che viene in gioco. La quaestio iuris qui è se debba trovare applicazione la norma a fattispecie o la norma concreta identificabile grazie alla clausola generale. Se, ad esempio, la nullità di un contratto possa dipendere dalla violazione della regola di comportamento della buona fede o sia riconducibile esclusivamente alle regole di validità è questione che concerne non l’osservanza della norma concreta di diritto, risultante dalla concretizzazione della clausola generale, ma se debba trovare applicazione la norma a fattispecie o se debba darsi avvio al procedimento di individuazione della norma individuale mediante la clausola generale.
8. Il nuovo scenario: lo stare decisis nel civil law
La terza conseguenza attiene più propriamente alla questione della certezza del diritto. Dobbiamo registrare che la giurisdizione per clausole generali possiede tutti i requisiti per poter configurare una forma di stare decisis. Una volta che si acceda alla visione di un diritto pienamente casistico, la prevedibilità e certezza del diritto può essere affidata nel territorio delle clausole generali, sia pure in via soltanto tendenziale, solo a tecniche giurisprudenziali affini a quelle adoperate dal giudice anglosassone e dunque a una forma di stare decisis. Non ricorre l’ostacolo della soggezione del giudice alla legge ai fini dell’applicabilità di una forma di vincolatività del precedente giudiziale, perché la disciplina del caso risiede qui non nella norma generale e astratta, ma nella norma individuale risultante dalla concretizzazione della clausola generale. La questione del precedente giudiziale viene in rilievo perché, trattandosi del diritto del caso concreto, termine di riferimento per il giudice che debba dirimere la controversia in base alla clausola generale non può essere solo l’ideale di regolazione che la clausola generale illustra, ma anche la concretizzazione di quell’ideale in analoghi casi giurisprudenziali.
Il giudice non ha innanzi a sé una fattispecie generale e astratta, definita da una serie di elementi determinati e tutti necessari, nella quale riportare il caso concreto attraverso la selezione degli elementi corrispondenti all’ipotesi astratta. Ha di fronte un altro caso concreto, e il confronto ora non è fra astratto e concreto ma fra concreto e concreto. Lo stile di ragionamento operante non è qui sussuntivo e deduttivo, ma analogico e induttivo. Trattandosi di un confronto fra concreti si dovrebbe ragionare per analogia, riconducendo il nuovo caso al primo sulla base degli elementi in comune fra i due casi e che hanno rilevanza ai fini dell’identificazione della regola di giudizio. La corrispondenza fra i casi potrà essere più o meno intensa. Stante le diverse graduazioni di somiglianza che possono ricorrere, il rapporto fra i casi andrebbe regolato secondo le raffinate tecniche del distinguishing e del limiting elaborate dal giudice anglosassone. Il precedente andrebbe applicato fino a una certa soglia mediante il gioco dell’uniformazione e distinzione, modellando e rimodellando la regola del caso concreto attraverso l’adeguamento del precedente al nuovo episodio di vita.
In questa dinamica di confronto fra casi concreti dovrebbe essere assegnata la forza dello stare decisis al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione in forma di norma individuale, coerentemente al paradigma del sindacato di legittimità che abbiamo individuato in materia di applicazione di clausole generali. L’assegnazione della forza della vincolatività al precedente di legittimità non dovrebbe discendere da una norma legislativa che per ipotesi lo introduca, ma dalla natura casistica del fenomeno giuridico che qui viene in rilievo e, dunque, da una qualità ontologica dello stesso precedente giudiziale. È la circostanza dell’applicazione del diritto del caso concreto, e non di una disposizione generale e astratta, ad essere il fondamento della vincolatività del precedente di legittimità. Quest’ultimo non è fonte del diritto, nel senso di fatto produttivo di norme, ma è la sede in cui si manifesta, mediante un fatto dichiarativo, la norma concreta di diritto quale corretta – perché resa in sede di legittimità – concretizzazione della clausola generale.
È un nuovo scenario che le clausole generali sono in grado di prospettare per l’ambiente di civil law. Si tratta, in conclusione, di prendere sul serio questo “nuovo modo di pensare giuridico”, per riprendere l’espressione di un Autore non sospetto di simpatie per il potere giudiziario quale Carl Schmitt, e ricavarne tutte le conseguenze che esso dischiude.
Relazione presentata al corso organizzato dalla Scuola superiore della magistratura su «Il sistema delle fonti», 31 gennaio - 2 febbraio 2022.
Per ulteriori approfondimenti, rinvio a miei precedenti scritti: Concretizzare ideali di norma. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in G. D’Amico (a cura di), Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 167 ss.; Non solo forma: fenomenologia giudiziaria del diritto, in Pensiero, n. 2/2019, pp. 127 ss.; Il giudice ed il dovere di indipendenza da se stesso, in Foro it., 2020, V, cc. 217 ss.
Si vedano anche i contributi contenuti nel n. 1/2020 di Questione giustizia trimestrale, dedicato al tema «Eguaglianza e diritto civile».