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Il concordato preventivo in continuità nell'era del cram down

di Giorgio Orano
sostituto procuratore, procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma

Il "superamento" dell'insolvenza e il "tradimento" della tempestività

1. Premessa

Il tratto più significativo dell’evoluzione legislativa in materia concorsuale è sicuramente il favor per le procedure che regolano la crisi/insolvenza delle imprese in un contesto di prosecuzione dell’attività commerciale e, fra esse,  in primo luogo il concordato preventivo in continuità, al quale il nuovo codice assegna un ruolo centrale, assistito da una serie di disposizioni che rendono la procedura di facile accesso e di maggiore convenienza economica per l’impresa debitrice rispetto al concordato liquidatorio.

In questo quadro, il legislatore ha previsto addirittura (cd. cram down fiscale) che il giudice civile possa, in sede di omologa, superare il motivato dissenso della Agenzia delle Entrate e degli Enti Previdenziali sul concordato, con ciò prefigurando peraltro una contrapposizione di rilievo costituzionale fra le determinazioni di organi dello Stato appartenenti a poteri diversi[1].

Più in generale, a prescindere dal ruolo e dal “peso” dei creditori pubblici nella singola procedura, l’attuale codice attribuisce al giudice il potere, a determinate condizioni, di omologare il piano proposto dal debitore anche se lo stesso ha ricevuto l’approvazione solo da parte della minoranza dei creditori. Capita dunque che la maggioranza dei creditori, dissenziente, veda l’impresa debitrice autorizzata dal Tribunale alla prosecuzione dell’attività, subendo la definitiva falcidia delle proprie spettanze (cd ristrutturazione forzata del passivo). E ciò, quasi sempre, non in un’ottica di prevenzione dell’insolvenza, bensì in una logica diversa: quella del superamento dell’insolvenza. 

L’esperienza giudiziaria recente insegna infatti che la maggioranza delle imprese accedono al concordato in continuità in stato di dissesto (e non di mera crisi) e solitamente per bloccare iniziative esecutive individuali, e dunque propongono quello che chiameremo, a costo di coniare un goffo neologismo, il “concordato superativo dell’insolvenza”, la cui permanenza nel nostro sistema concorsuale costituisce un vero e proprio tradimento del principio di tempestività dell’emersione della crisi e nell’accesso alle procedure.

 

2. L’incidenza del “superamento dell’insolvenza” sulle dinamiche del mercato e sul contrasto all’operatività delle cd. imprese criminali

Le norme che regolano la crisi d’impresa nell’ottica della continuità aziendale hanno un impatto diretto sul funzionamento del mercato e sulle scelte strategiche delle imprese. Il nuovo codice era nato per fronteggiare le profonde criticità del nostro sistema economico, “invaso” da imprese insolventi ma operative, per lo più destinate a diventare “bare fiscali”, ossia società che giungono al fallimento con un debito tributario e contributivo ingente, stratificatosi negli anni e del tutto sproporzionato alla loro consistenza economico-patrimoniale. 

È noto che il cd “autofinanziamento”, cioè l’omissione del versamento di imposte e contributi, è la prima reazione dell’imprenditore a una crisi di liquidità, ma anche lo strumento per approvvigionarsi senza oneri bancari di un surplus di risorse economiche da utilizzare per scopi personali e comunque estranei agli scopi dell’impresa.

Negli ultimi anni, purtroppo, la “programmazione” della sistematica omissione di versamenti tributari e contributivi è diventata la base di strategie competitive illegali, finalizzate ad abbattere “a monte” i costi di produzione e quindi a presentarsi sul mercato praticando prezzi vantaggiosi per la committenza, con la conseguenza di sbaragliare con facilità la concorrenza dei competitors virtuosi. Non a caso, i crediti di Erario ed Enti Previdenziali costituiscono da anni la parte maggioritaria del passivo delle procedure concorsuali, da cui – pur essendo privilegiati - ricavano percentuali di soddisfacimento irrisorie.

Tradotto in termini pratici: le imprese criminali – chiameremo così le imprese che utilizzano l’autofinanziamento come strategia competitiva illecita - dominano larghe fette di mercato, e accumulano verso i Creditori Pubblici debiti solitamente impossibili da recuperare.  

L’evidenza di tale fenomeno ha determinato la riscoperta da parte delle Procure della Repubblica di un reato fallimentare rimasto per decenni ai margini dell’applicazione giurisprudenziale, ossia il cagionamento del fallimento con dolo e per effetto di operazioni dolose, previsto dall’art. 223 comma secondo n. 2 della Legge Fallimentare, oggi trascritto nell’art. 329 comma secondo n. 2 del codice della crisi d’impresa, e dunque vigente. 

Quella norma penale, a seguito del suo consolidarsi nella giurisprudenza della Corte di cassazione[2], riveste oggi un ruolo centrale nel contrasto penalistico al crimine economico, proprio perché consente di applicare sanzioni severe all’omissione fiscale e contributiva per così dire “strategica”, quando la stessa abbia condotto l’impresa al dissesto.

Il nuovo codice, peraltro, chiama giudici e pubblici ministeri a vigilare sulle situazioni di crisi imprenditoriale, chiedendo loro di intervenire tempestivamente, in caso di rilevata insolvenza, mediante il potere/dovere di promuovere la dichiarazione di liquidazione giudiziale, così da togliere dal mercato le imprese in dissesto e soprattutto le imprese criminali. 

Nell’attuale assetto normativo, tuttavia, le medesime imprese criminali hanno la concreta possibilità di accedere al concordato preventivo o, meglio, al concordato “superativo”, e ottenere attraverso la procedura un’immeritata continuità per via giudiziaria, e per di più restituendo all’erario solo una minima parte del loro illecito risparmio fiscale.

Le riforme operate nei primi anni 2000 hanno infatti espunto dalla disciplina del concordato ogni riferimento a forme di “meritevolezza”: non vi è oggi alcuna norma che attribuisca a fatti illeciti di natura gestionale, patrimoniale o documentale, un rilievo tout court ostativo alla prosecuzione della procedura; eventuali reati commessi dall’imprenditore, individuabili con una lettura attenta dei documenti prodotti dalla società, non incidono di norma sulle decisioni relative all’ammissibilità del concordato né sulla successiva omologa, qualora la proposta abbia ottenuto i voti dei creditori nelle maggioranze previste. 

La giurisprudenza ha sempre ritenuto la norma relativa agli atti in frode[3] posta a tutela della corretta informazione dei creditori su ogni aspetto rilevante della vita dell’impresa. In questo quadro, pertanto, il fatto illecito – o addirittura penalmente rilevante - può essere causa di revoca dell’ammissibilità o impedire l’omologa, solo se sia stato occultato dal debitore, evenienza impossibile in caso di autofinanziamento, i cui effetti sono ben evidenti nel passivo concorsuale e nelle richieste creditorie avanzate dall’Erario e dagli Enti previdenziali. 

Non vi sono ostacoli normativi all’accesso al concordato preventivo in continuità da parte di una impresa criminale, che ha dunque la possibilità, come le altre, di allegare al suo piano di concordato la “proposta di trattamento dei crediti tributari e contributivi”[4], con cui si obbliga a pagare per l’intero i suoi debiti verso i creditori privilegiati pubblici solo nei limiti della capienza del suo patrimonio, potendo per il resto pagare il debito fiscale degradato al rango chirografario nelle percentuali minime ammesse per il medesimo[5]

Ovviamente, l’omologa di un concordato in continuità presentato da un’impresa criminale, non può che essere considerata un premio alle sottostanti strategie illecite, e soprattutto una beffa per i competitors virtuosi, i quali vedono tornare sul mercato la loro concorrente, “mondata” dai debiti che loro invece hanno faticosamente cercato di pagare. 

Eppure, in corso di procedura, nemmeno il Pubblico Ministero ha argomenti validi per opporsi all’omologa, essendo le valutazioni del Tribunale e dei creditori confinate alla mera convenienza rebus sic stantibus del piano, convenienza spesso derivante da modesti afflussi di finanza esterna, di certo assenti nello scenario di liquidazione giudiziale, e d’ineludibile evidenza matematica. 

 

3. Il cram down quale estremo baluardo della continuità aziendale

Il tentativo da parte di imprese indebitate verso i creditori pubblici, di ottenere l’omologa di un concordato preventivo in continuità, può incontrare l’ostacolo della mancata adesione al piano da parte della Agenzia delle Entrate e degli Enti Previdenziali, soggetti spesso titolari della maggioranza dei crediti insinuati al passivo. Un numero significativo di concordati, nel recente passato, è quindi abortito per il fatto che i creditori pubblici non hanno espresso il proprio voto, o hanno espresso parere – più o meno motivato - contrario all’omologa.

Come si accennava in premessa, il nuovo codice ha delineato, con riferimento ai concordati in continuità, un’articolata disciplina sul voto, che ha l’evidente finalità di “liberare” il giudice dell’omologa dalla necessità del voto favorevole della maggioranza dei crediti, e comunque di ampliare la possibilità di omologare piani in continuità a prescindere dall’adesione dell’Agenzia dell’Entrate. Le nuove regole hanno avuto immediata esecuzione già nel vigore della legge fallimentare, a dispetto del dibattito, ancora vivo in dottrina, sulla possibilità di applicazione delle norme sul cram down nel caso che il creditore pubblico abbia presentato un esplicito e motivato dissenso al concordato[6].

Il codice esprime, in tema di maggioranze, la regola generale per cui “Il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore” (art. 109 comma 5); il successivo art. 112 comma 2, nel disciplinare il giudizio di omologa, inserisce tuttavia una deroga al principio di cui sopra, prevedendo che – nel ricorrere di alcuni presupposti – l’omologa possa intervenire, in caso di dissenso di una o più classi, anche a seguito di approvazione da parte della maggioranza delle classi (a prescindere dalla consistenza dei crediti in essa rappresentati) o addirittura da parte di una sola delle classi, e dunque anche con il parere contrario dei creditori privilegiati pubblici.[7]

Se uno dei creditori dissenzienti eccepisce il difetto di convenienza della proposta, il comma 3 dell’art. 112 stabilisce che il Tribunale omologhi quando “secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”.

Appare dunque evidente che, nel disegno del legislatore, l’intervento del Tribunale, non è a salvaguardia di eventuali vantaggi che la proposta concordataria in continuità offre ai creditori aderenti, ma sembra piuttosto tutelare le aspettative del debitore, stabilendo il principio che, a parità di prospettive di soddisfazione dei creditori, la continuità debba senz’altro prevalere sulla liquidazione.

Si discute se possa o debba applicarsi ai concordati preventivi in continuità, come detto, regolati dall’art. 112, anche la norma sul cram down fiscale di cui al comma 2 bis dell’art. 88[8], dubbio derivante dal fatto che l’art. 88 comincia con la frase “Fermo restando quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale dall’art. 112 comma secondo” e che il richiamo all’art. 109 comma 1 fa riferimento alle regole di maggioranza per l’approvazione del solo concordato liquidatorio. È evidente che, se il cram down fiscale fosse ritenuto applicabile anche ai concordati in continuità aziendale[9], le possibilità di omologa degli stessi, ne risulterebbero ulteriormente ampliate.

 

4. La continuità aziendale come bene assoluto e il raffronto con il modello europeo della direttiva Insolvency

Come si è visto, l’estremo favor legislativo per la continuità aziendale, che da ultimo ha ispirato le norme sul cram down, ha portato il nuovo codice a modificare nel profondo la struttura e i presupposti logici del concordato preventivo, togliendo centralità a quello che per anni è stato rappresentato come il cardine e la principale legittimazione dell’istituto, ossia l’accordo fra i creditori (rectius, la maggioranza di essi) e il debitore. 

Oggi il concordato antepone la continuità aziendale anche agli interessi economici dei creditori, e non a caso l’art. 84 comma secondo del ccii lapidariamente afferma: “La continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva nella misura possibile i posti di lavoro”, sancendo la trasformazione della continuità-strumento (di maggiore soddisfazione dei creditori) in continuità-fine, nel presupposto indimostrato e logicamente insostenibile che la continuità costituisca sempre un vantaggio per i creditori. 

Credo si possa convenire sul fatto che la continuità costituisce un valore aggiunto, nella prospettiva del soddisfacimento dei creditori, e per il sistema economico nel suo complesso, soltanto in presenza di condizioni che, tuttavia, l’attuale assetto normativo non esige e non verifica, e la cui sussistenza dunque non garantisce. 

Per chiarire tale concetto, è utile effettuare un raffronto fra il modello di continuità elaborato in sede europea – nell’ambito della cosiddetta direttiva Insolvency – e quello introdotto nel nostro sistema di diritto concorsuale dalle novellate norme del codice.

Il decreto legislativo 17 giugno 2022 n. 83, quello che ha ridisegnato l’attuale versione del codice, dichiara infatti nelle sue premesse di aver operato le modifiche “in attuazione della direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20.06.2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione…”.

In realtà la normativa italiana, più che dare attuazione ai principi comunitari, li richiama nella forma e nelle enunciazioni, ma finisce per tradirne lo spirito. 

Per convincersene, è sufficiente richiamare il considerando n. 2 della direttiva Insolvency che così si esprime: “i quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero innanzitutto permettere ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l’insolvenza e quindi evitare la liquidazione di imprese sane. Tali quadri dovrebbero impedire la perdita di posti di lavoro nonché la perdita di conoscenze e competenze e massimizzare il valore totale per i creditori, rispetto a quanto avrebbero ricevuto in caso di liquidazione degli attivi della società o nel caso del migliore scenario alternativo possibile in mancanza di un piano, così come per i proprietari e per l’economia nel suo complesso.”

La prima osservazione che s’impone è che le procedure di ristrutturazione di elaborazione comunitaria sono rivolte agli imprenditori onesti[10] e alle imprese sane. Può sembrare una banalità, eppure vale la pena di sottolinearlo. La continuità prefigurata e auspicata dalla direttiva Insolvency, dunque, è quella dell’impresa sana (ossia capace di essere competitiva e produrre reddito, rispettando le regole del mercato), che sia gestita lecitamente.

La seconda considerazione è che il legislatore comunitario promuove gli interventi di ristrutturazione precoce, dunque quelli tempestivi, e quindi in grado di prevenire l’insolvenza.

Se queste due condizioni (che l’impresa sia sana e che l’intervento sia precoce) sono soddisfatte, la continuità può e deve essere preferita alla liquidazione, sia perché porta verosimilmente al salvataggio di posti di lavoro sia perché il futuro reddito dell’impresa può generare a beneficio dei creditori risorse maggiori di quelle che deriverebbero dalla mera cessione degli assets aziendali[11]

Ora, non può negarsi che, in termini astratti, il nostro concordato preventivo in continuità corrisponda appieno al modello europeo. 

Le riforme del 2005-2010 hanno inserito lo “stato di crisi” quale presupposto oggettivo dell’istituto, e quindi lo hanno reso infatti disponibile per interventi di ristrutturazione precoce (dunque tempestiva) che abbiano lo scopo portare al risanamento dell’azienda, così da prevenire l’insolvenza. Né può sostenersi, ovviamente, che tale strumento sia in qualche modo precluso alle imprese sane e agli imprenditori onesti. 

Peccato che presupposto alternativo del nostro concordato preventivo sia l’insolvenza. E ciò comporta uno strano paradosso: lo strumento concordatario può essere attivato in presenza di un presupposto (l’insolvenza) che il medesimo istituto (quando attivato in stato di crisi) avrebbe la finalità di prevenire. E dunque la meta ultima, ossia la continuità aziendale, può essere raggiunta dall’impresa sia con un intervento tempestivo di risanamento, che di norma limita l’erosione del patrimonio e conseguentemente i danni per i creditori, sia con un intervento tardivo, peraltro senza una vera dead line, e di solito in assenza pressoché totale di risorse disponibili, che si propone di soddisfare i creditori (in percentuali minime) con i redditi futuri dell’impresa (i cd flussi di continuità) e con la immissione di capitali da parte di soggetti terzi (cd finanza esterna). 

Per dare dignità concettuale a questo secondo tipo di percorso, il legislatore del codice ha per la prima volta introdotto il concetto di superamento dell’insolvenza – assente nella direttiva Insolvency – che, tradendo il tenore letterale dell’espressione, non si basa sul pagamento dei debiti pregressi, ma sulla loro definitiva cancellazione (in percentuale elevatissima). 

Il superamento dell’insolvenza garantisce all’impresa debitrice gli stessi benefici (misure protettive, eventuale supporto finanziario alla continuità aziendale, ristrutturazione del passivo con percentuali di soddisfacimento minime per i creditori, eccetera) previsti in caso di accesso alla procedura in stato di crisi, e dunque nell’ottica preventiva dell’insolvenza. 

Va evidenziata, pertanto, una profonda anomalia di sistema. 

Il legislatore, infatti, ha delineato un complesso di norme che esprimono in maniera chiara il suo favor per le procedure concorsuali che prevedono la continuità aziendale (in primis il concordato preventivo), ritenute preferibili rispetto a quelle liquidatorie, ma non ha predisposto alcun incentivo per far sì che le imprese scelgano, come i principi generali espressi dal codice imporrebbero, la continuità basata sulla prevenzione dell’insolvenza, né ha creato alcun disincentivo alla scelta opposta, quella disfuzionale, basata sull’insolvenza e sul suo tardivo ed equivoco superamento.   

Invero, nella prima versione del codice della crisi, ante Covid-19, era presente un’articolata normativa che tendeva a ricompensare l’accesso tempestivo dell’imprenditore alle procedure di regolazione della crisi, anche con significative limitazioni in termini di responsabilità penale; tale disciplina[12] è stata accantonata nella versione definitiva, unitamente a quella relativa agli strumenti di allerta[13]. Quindi ad oggi la scelta della prevenzione dell’insolvenza, etica e in linea con i principi del codice, non è incentivata e non presenta alcuna convenienza economica per l’imprenditore.

Anzi, vale il contrario: all’impresa conviene, e di gran lunga, il superamento dell’insolvenza.

In mancanza di alcuna penalizzazione per l’intempestività dell’accesso al concordato, infatti, le imprese non possono che giovarsi dell’effetto combinato del meccanismo del degrado del credito privilegiato a chirografo[14] per “incapienza” e dell’assenza di una percentuale minima di soddisfazione dei crediti chirografari (art. 84 comma 3 ccii in nota n. 2). 

Quando infatti l’impresa raggiunge un’esposizione debitoria superiore al valore del suo patrimonio, che dunque diviene incapiente,  ulteriori debiti contratti – di qualunque natura essi siano, e quindi anche privilegiati – possono essere soddisfatti in sede concordataria, per l’effetto combinato delle norme sopra richiamate, in una percentuale minima, rendendo quindi conveniente ritardare l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi, così da mettere in atto una lucrosa strategia di accumulo del debito, magari accompagnata, o meglio ancora preceduta, da atti di dismissione degli assets dotati di rilevante valore di liquidazione (ad esempio: gli immobili). 

 

5. I dilemmi di giudici e Pubblici Ministeri

Come abbiamo visto, l’attuale disciplina del concordato preventivo in continuità, nel contemplare il superamento dell’insolvenza, risulta incoerente con il principio della tempestiva emersione della crisi, e con l’invito all’imprenditore, contenuto nel comma 1 dell’art. 3 ccii (quello che inaugura il Capo II dedicato ai principi generali) di “assumere senza indugio le iniziative necessari” a far fronte alla crisi.

Per altro verso, il legislatore del codice appare del tutto inconsapevole del fatto che disciplinare le sorti di una impresa insolvente in una prospettiva di continuità aziendale, vuol dire incidere sulle dinamiche del mercato di riferimento, impattando in maniera più o meno diretta sulle regole che presidiano la competizione fra le imprese. E non va dimenticato che il corretto funzionamento dei meccanismi della concorrenza, come rilevato dalla Corte costituzionale, contribuisce a rendere effettivo il diritto a un’iniziativa economica libera e socialmente orientata[15]

S’impone dunque un’attenta riflessione sull’opportunità di mantenere a sistema una procedura che possa costituire agevolazione e/o premio di condotte gravemente distorsive della concorrenza come quelle basate sull’ autofinanziamento o, meglio, sulla “programmazione” a scopi strategico-competitivi dell’omissione nel versamento di tasse e contributi previdenziali. 

Non può che evidenziarsi, inoltre, un certo “effetto disorientamento” nell’applicazione di norme penali fallimentari, peraltro trasfuse pedissequamente dalla legge fallimentare al nuovo codice, costruite per reprimere condotte che invece, sul piano civilistico, risultano tollerate e anzi “premiate” da provvedimenti giurisdizionali. 

Il percorso imprenditoriale causativo del dissesto, basato sull’accumulo del debito erariale e previdenziale come strategia competitiva e sul quanto più prolungato occultamento del dissesto mediante trucchi di bilancio, è ormai diffuso e “dominante” nell’economia del nostro Paese, e oggetto di centinaia di processi che si concludono per lo più con la condanna.

Nelle procedure concorsuali, invece le medesime condotte, a volte addirittura obtorto collo “confessate” dalla società proponente, non costituiscono ostacolo al placet del Tribunale, né in sede di ammissione alla procedura di continuità, né in sede di omologa. Per non parlare delle già commentate disposizioni che tendono a sterilizzare e a rendere ininfluente lo stesso dissenso da parte dell’Agenzia delle Entrate e degli Enti previdenziali in sede di omologa di concordati, nonché di accordi di ristrutturazione[16]

Le contraddizioni e le ambiguità, sistematiche e concettuali, sopra evidenziate, risultano particolarmente evidenti allo sguardo del Pubblico Ministero che si occupa di criminalità economica. Il nuovo codice ne ha infatti confermato e ampliato obblighi e prerogative, assegnandogli il compito di rilevare tempestivamente l’insolvenza delle imprese e di promuovere l’iniziativa per la dichiarazione di liquidazione giudiziale. 

Quando un Pubblico Ministero, tuttavia, partecipa alle udienze di concordato preventivo, ha a volte la sensazione di entrare in una sorta di “mondo parallelo” in cui imprese gestite con modalità illecite chiedono e ottengono dal Tribunale l’autorizzazione a proseguire la loro attività, e in più una “maxi riduzione” sui debiti fraudolentemente contratti e accumulati e in cui, ad essere superata, è persino l’opposizione dell’Agenzia delle Entrate. 

Ciò nonostante, in sede civile, è compito del Pubblico Ministero – in supporto al Tribunale - esaminare il piano di concordato, da qualunque tipologia di impresa provenga, al fine di valutare con competenza e buon senso, se lo stesso presenti ai creditori soluzioni credibili che offrano maggiori percentuali di soddisfacimento rispetto alla mera liquidazione del patrimonio residuo. 

Va rimarcata, ad ogni buon conto, l’importanza nell’attuale assetto normativo della presenza del Pubblico Ministero nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza. 

Può accadere, infatti, che il Pubblico Ministero detenga, e metta a disposizione del Tribunale dati, notizie e documenti sulla società proponente, rivenienti dalle sue attività investigative, e che disponga anche di informazioni rilevanti sulla vita pregressa della società, magari occultate ai giudici e ai creditori, e dunque qualificabili come atti in frode ai sensi del già citato art. 106 ccii. 

La partecipazione consapevole e attiva del Pubblico Ministero alla procedura di concordato, anzi, rappresenta l’unico vero antidoto contro l’utilizzo e l’abuso dell’istituto da parte di imprese criminali.  

La presentazione di un piano di concordato costituisce infatti un momento ineludibile di discovery, quanto meno parziale, dei dati concernenti il dissesto dell’impresa e delle cause che lo hanno determinato. Spesso, inoltre, il lavoro del professionista indipendente[17] (anche detto nella prassi attestatore) volto a determinare con esattezza i dati contabili (attivo e passivo) del piano, finisce spesso per evidenziare le criticità nella rappresentazione contabile operata dall’impresa debitrice nei bilanci precedenti. 

La presenza vigile e competente del Pubblico Ministero, dunque, è un concreto deterrente all’utilizzo dello strumento concordatario da parte di imprese gestite in maniera illecita, posto che la procedura impone l’ostensione di dati e documenti fatalmente “compromettenti” sulla cui base può e deve essere aperto un procedimento penale, possibilità che ovviamente preoccupa l’imprenditore. 

I pubblici ministeri, oggi, devono tenersi pronti a monitorare, oltre a concordati e liquidazioni giudiziali, anche le altre procedure che, ai sensi dell’art. 341 comma secondo ccii, hanno un equiparato rilievo penalistico, come gli accordi di ristrutturazione a efficacia estesa[18], gli accordi di ristrutturazione omologati mediante cram down ex art. 63 comma 2 bis ccii, nonché le convenzioni di moratoria[19], muovendosi dunque in contesti in cui l’eventuale esercizio dell’azione penale per il reato di bancarotta troverà l’impresa coinvolta in piena attività, e per giunta sulla base di un provvedimento del giudice civile.  

È di contro facile prevedere che, laddove l’Ufficio di Procura si disinteressi delle procedure concorsuali sopra richiamate, le stesse possano diventare una corsia preferenziale per imprese, anche quelle che abbiamo definito “criminali”, che intendono rimanere sul mercato pur senza essere realmente competitive e che hanno interesse a cristallizzare a proprio favore gli effetti di pregresse strategie illecite.  

Se il Pubblico Ministero è chiamato a giocare su due tavoli, con il problema di gestire nei due ambiti, come si è visto, norme di non univoca ispirazione o addirittura confliggenti, il giudice civile opera solo nella procedura concorsuale, la cui disciplina detta le finalità e i limiti del suo intervento. 

Nel vigore della Legge Fallimentare abrogata, e prima della introduzione nel 2020 delle norme sul cram down, il Tribunale doveva limitarsi a valutare la fattibilità del piano, la sua credibilità, assicurarsi che i creditori fossero correttamente informati sulle condizioni economiche e patrimoniali della società, e su ogni altro aspetto rilevante della sua vita pregressa, e poi prendere atto con l’omologa del raggiungimento delle maggioranze previste per l’approvazione. 

Per quanto potesse essere penetrante il controllo del giudice sul piano, il “successo” dello stesso dipendeva dunque dalla volontà maggioritaria dei creditori. 

Ora, come abbiamo visto, i poteri del Tribunale sono stati ampliati perché può omologare un concordato in continuità anche in presenza di dissenso da parte dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti, e persino in contrasto con le determinazioni dell’Agenzia delle Entrate e degli Enti Previdenziali. 

Va rilevato che nell’affidare al giudice civile il nuovo compito, il legislatore gli ha concesso una ridotta discrezionalità, confinata in sostanza alla valutazione della “convenienza” della proposta in continuità rispetto all’alternativo scenario liquidatorio. 

Nella maggioranza dei casi, peraltro, le valutazioni sulla convenienza sono praticamente scontate, posto che quasi sempre il debitore prevede il supporto al piano di finanza esterna - dunque risorse economiche di soggetti terzi che non ci sarebbero in caso di liquidazione giudiziale - e che comunque l’omologa deve intervenire se “secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.”[20]

Come si vede, dunque, la discrezionalità del giudice è limitata sia nell’oggetto, la mera convenienza, sia nel riferimento alle fonti della sua valutazione, posto che la norma fa riferimento esclusivo alla prospettazione del debitore, contenuta nel piano e nella proposta. 

La convenienza finisce dunque per essere per il giudice una sorta di paraocchi normativo, perfetto per limitarne l’orizzonte visivo, così da non “vedere” altri rilevanti profili e interessi sui quali la decisione va ad incidere, primo fra tutti l’evidente danno al funzionamento dei meccanismi concorrenziali del mercato, quando l’omologa finisca suo malgrado per premiare illecite strategie di accumulo del debito.

 

6. Conclusioni

Il confronto fra il testo originario del decreto legislativo n. 14 del 2019 e quello risultante dalle modifiche operate dal decreto legislativo 17 giugno 2022 n. 83, ossia il nuovo codice oggi in vigore, palesa il fatto che negli ultimi tre anni – fortemente caratterizzati, anche sul piano economico, dall’emergenza pandemica – il legislatore ha compiuto un netto dietro front in tema di tempestività (nell’emersione dell’insolvenza e nell’accesso alle procedure) perseguendo l’obiettivo prioritario di un generale e indiscriminato salvataggio di imprese indebitate, per lo più nei confronti dell’Erario, a tale scopo elevando a valore unico, indiscusso e assoluto, quello della continuità. 

È del tutto comprensibile, ovviamente, che in un periodo eccezionale e drammatico come quello dell’epidemia da Covid-19, il legislatore abbia voluto introdurre risorse e strumenti normativi per evitare che le misure di distanziamento sociale imposte dal Governo facessero collassare diversi settori della nostra economia. 

È tuttavia criticabile che le legittime finalità assistenzialistiche a beneficio delle imprese si siano tradotte nello stravolgimento – peraltro, a quanto sembra, permanente - di un corpo normativo che, anche alla luce della elaborazione normativa di marca comunitaria, aveva trovato un delicato punto di equilibrio fra gli interessi in gioco e individuato, finalmente, nella tempestività della gestione della crisi da parte dell’imprenditore, la chiave di volta per il superamento di radicate patologie di sistema, fin qui ampiamente descritte. 

Non ha alcun senso logico, in una chiave di coerenza di sistema, elevare la tempestività nella rilevazione della crisi, e nell’adozione delle misure idonee a fronteggiarla, a valori fondamentali, per poi scegliere come procedura “privilegiata” un concordato che cerchi di tenere insieme insolvenza e continuità e che rischia di funzionare, concretamente, come meccanismo stabile di condono fiscale per mano giudiziaria.  

L’attuale assetto normativo, in altri termini, non può certo portare alcun positivo contributo a quell’auspicata rivoluzione culturale che il nuovo codice, nella sua prima versione, aveva il chiaro scopo di favorire. 

L’unica strada da percorrere, dunque, è quella del ritorno, stavolta convinto e non formale, all’elaborazione europea dei concetti di continuità e ristrutturazione precoce, che suggerirebbe di ridisegnare le norme dell’attuale concordato nostrano, quanto meno per “orientarlo” verso la prevenzione dell’insolvenza. 

Nulla di strano vi sarebbe, infatti, nel costruire finalmente un concordato in continuità realmente alternativo alla liquidazione giudiziale, basato su un concetto ampio di crisi, comprensivo anche di situazioni di iniziale insolvenza, ma caratterizzato da una selezione reale dei percorsi imprenditoriali meritevoli di continuità, da un obbligo per l’impresa di tempestività di accesso alla procedura, e da percentuali obbligatorie di soddisfazione per i creditori chirografari ben più gratificanti di quelle attuali. 

Un istituto che meriti una considerazione penalistica differenziata e che, al tempo stesso, mandi alle imprese un messaggio chiaro, ossia che la continuazione dell’attività supportata dal sacrificio delle ragioni creditorie è un beneficio da guadagnare con i fatti, e prima che sia troppo tardi.  

 


 
[1] Vedi sul punto Cram down: cos’è, normativa di riferimento e interpretazione di Giovambattista Palumbo, in Informazione Fiscale, 22 gennaio 2023, nel quale si critica l’interpretazione estensiva secondo cui l’omologa con cram down può essere disposta dal Tribunale anche in presenza di un dissenso esplicito e motivato del creditore pubblico all’approvazione del concordato; l’autore ritiene che tale interpretazione non sarebbe compatibile con il principio costituzionale di separazione dei poteri dello Stato e renderebbe la norma suscettibile di rinvio alla Corte Costituzionale.

[2] Le prime sentenze sono del 2014. Vedi fra le altre Cassazione Sezione V n. 24752 del 19.02.2018: “In tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fallimentare, possono consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali".

[3] L’art. 106 ccii stabilisce che: “Il commissario giudiziale, se accerta che il debitore ha occultato o dissimulato parte dell’attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività inesistenti o commesso altri atti di frode, deve riferirne immediatamente al Tribunale, che provvede ai sensi dell’art. 44 comma 2, dandone comunicazione al Pubblico Ministero e ai creditori. (…) All’esito del procedimento, il tribunale, revocato il decreto di cui all’art. 47, su istanza del creditore o su richiesta del Pubblico Ministero, apre la procedura di liquidazione giudiziale dei beni del debitore.”

[4] La cui disciplina è prevista dall’art. 88 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

[5] Non esiste nei concordati in continuità una soglia minima di soddisfazione dei creditori. Il comma 3 dell’art. 84 stabilisce che “Nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità diretta o indiretta. La proposta di concordato prevede per ciascun creditore un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile, che può consistere anche nella prosecuzione e nella rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con i suoi aventi causa.”

[6] Vedi sul punto Cram down: cos’è, normativa di riferimento e interpretazione di Giovambattista Palumbo, in Informazione Fiscale, 22 gennaio 2023, nel quale si critica l’interpretazione estensiva secondo cui l’omologa con cram down può essere disposta dal Tribunale anche in presenza di un dissenso esplicito e motivato del creditore pubblico all’approvazione del concordato; l’autore ritiene che tale interpretazione non sarebbe compatibile con il principio costituzionale di separazione dei poteri dello Stato e renderebbe la norma suscettibile di rinvio alla Corte Costituzionale.

[7] Stabilisce infatti il comma secondo dell’art. 112 ccii: “Nel concordato in continuità aziendale, se una o più classi sono dissenzienti, il tribunale, su richiesta del debitore o con il consenso del debitore in caso di proposte concorrenti, omologa altresì se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; b) il valore eccedente quello di liquidazione è distribuito in modo tale che i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto alle classi di grado inferiore (…); c) nessun creditore riceve più dell’importo del proprio credito; d) la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, la proposta è approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione.”

[8] Secondo il citato articolo: “Il Tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie, quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all’art. 109 comma 1, e anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento (…) è conveniente o non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria.”

[9] Per una soluzione positiva in dottrina vedi l’articolo “Cram down” fiscale anche nel concordato in continuità, di Giulio Andreani e Filippo D’Aquino in NT+Fisco del 25 luglio 2023.

[10] Si legge nel considerando n. 1 della direttiva: “ (…) La presente direttiva mira a rimuovere tali ostacoli garantendo alle imprese e agli imprenditori sani che sono in difficoltà finanziarie la possibilità di accedere a quadri nazionali efficaci in materia di ristrutturazione preventiva che consentano loro di continuare a operare, agli imprenditori onesti insolventi o sovraindebitati di potr beneficiare di una seconda possibilità mediante l’esdebitazione (…)”.

[11] Si legge nel considerando n. 49 della direttiva Insolvency: “Qualora gli Stati membri scelgano di procedere a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, il valore di continuità aziendale dovrebbe prendere in considerazione il valore a lungo termine dell’impresa del debitore, contrariamente al valore di liquidazione. Il valore della continuità aziendale è di norma superiore al valore di liquidazione, poiché si basa sull’ipotesi che l’impresa continua la sua attività con il minimo di perturbazioni, ha la fiducia dei creditori finanziari, degli azionisti e dei clienti, continua a generare reddito e limita l’impatto sui lavoratori.”

[12] Si trattava del Capo IV “Misure premiali” del D. L.vo 12 gennaio 2019 n. 14, articolato nell’art. 24 “Tempestività dell’iniziativa” e nell’art. 25 “Misure premiali”.

[13] È stato infatti del tutto eliminato il capo I “Strumenti di allerta” composto dagli artt. 12, 13, 14,15 D. L.vo 12 gennaio 2019 n. 14.

[14] Stabilisce l’art. 88 ccii con riferimento al trattamento dei crediti tributari e contributivi che con il piano di concordato il debitore può proporre il pagamento parziale o dilazionato degli stessi “se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni e ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.” La norma prevede inoltre che “Se il credito tributario o contributivo ha natura chirografaria, anche a seguito di degradazione per incapienza, il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri crediti chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei crediti rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole.”

[15] Vedi sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 1982 nella quale si afferma: “ La libertà di concorrenza tra imprese ha, come noto, una duplice finalità: da un lato integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e dall’altro è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza fra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenere i prezzi.”

[16] Stabilisce l’art. 63 comma 2 bis ccii “Il tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria e degli enti gestori di forme di assistenza e previdenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui agli artt. 57 comma 1 e 60 comma 1 e, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di assistenza e previdenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.”

[17] Il comma 3 dell’art. 87 ccii prevede che: Il debitore deposita, con la domanda (di concordato n.d.r.) la relazione di un professionista indipendente, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano e, in caso di continuità aziendale, che il piano è atto a impedire o superare l’insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale.”

[18] Disciplinati dall’art. 61 ccii e caratterizzati dalla estensione degli accordi di ristrutturazione “anche ai creditori non aderenti che appartengono alla medesima categoria, individuata tenuto conto dell’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici.”

[19] Disciplinate dall’art. 62 ccii, consistono in accordi fra il debitore e i suoi creditori diretti a “disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi” e aventi come oggetto “la dilazione delle scadenze dei crediti, la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive o conservative e ogni altra misura che non comporti rinuncia al credito.”

[20] Il comma 3 dell’art. 112 ccii stabilisce: “Nel concordato in continuità aziendale, se con l’opposizione un creditore dissenziente eccepisce il difetto di convenienza della proposta, il tribunale omologa il concordato quando, secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.”

08/02/2024
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06/09/2022