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Crisi economica, solidarietà e diritto finanziario: per una nuova centralità del giurista

di Alberto Marcheselli
Professore Diritto Finanziario e tributario Università Genova e Torino
Il giurista deve tornare protagonista del diritto finanziario. In questa ottica si devono affrontare questioni tributarie complesse, come la tassazione delle rendite finanziarie e dell'abuso del diritto
Crisi economica, solidarietà e diritto finanziario: per una nuova centralità del giurista

La crisi economica in corso ha, per certi versi meritoriamente, attirato l’attenzione sulla delicatezza, fragilità (e, spesso, illusorietà) di un sistema economico fortemente sbilanciato sugli elementi finanziari.

Al di fuori delle contrapposizioni, che pertengono al campo di valori e ideologie, tra fautori della austerità o delle politiche di spesa, qualcosa, anzi molto, resta da dire anche al giurista puro, e qualcosa di importante, specie in prospettiva futura, anche nel limitato recinto della materia della finanza pubblica.

Non sembra improbabile che il futuro ci riservi lo scoppio di altre “bolle” (da quella tuttora non disinnescata del mercato dei derivati, a quella della esposizione dei sistemi bancari, allo sbilancio, pericolosamente sottaciuto, dei sistemi pensionistici e assistenziali, ecc.). Si riproporrà, e verosimilmente in modo più virulento che non in questa prima fase, il problema della individuazione di vie di uscita e correzione del sistema, e la scomoda alternativa tra il taglio del welfare o l’aumento del prelievo (o, più probabilmente, entrambe le cose, in una comunque dolorosa proporzione da definire).

Se sarà impossibile evitare i sacrifici, sarà, invece, possibile, e anzi doveroso, cercare di non ripetere gli errori. Evitare di tentare di uscire dalla crisi con le stesse modalità con le quali vi si è entrati, e cioè in base a una modellistica economica astratta, ovvero in esito alla soluzione di rapporti di forza ideologico/elettorale, ma senza un progetto e il rispetto di principi basilari della convivenza sociale, quali equità, solidarietà e ponderazione.

Concetti basilari che cadono tutti nello strumentario culturale e professionale del giurista. Per troppo tempo, il Diritto Finanziario è stato, in effetti, molto… finanziario e poco diritto.

E’ tempo quindi che tornino al centro della attenzione le regole necessarie per assicurare Giustizia e Garanzie e nessun ceto professionale, se non quello dei giuristi, può maneggiare adeguatamente i tools necessari per la costruzione di un sistema in grado di reggersi e funzionare in uno scenario di scarsità di risorse.

Ceto dei giuristi cui si chiede, comunque, un salto di qualità: non più notai di malfermi assetti determinati altrimenti, né addetti agli effetti speciali di una finanza creativa, ma neppure confinati nei territori delle fumisterie astratte di una dogmatica poco utile.

Il fenomeno della finanza pubblica si muove in un campo compreso dai due assi cartesiani della equità e della efficienza, della giustizia o del gettito.

E nessun punto di equilibrio, stabile e funzionale può trovarsi, se non ci si (ri)appropria dei concetti di proporzionalità e ragionevolezza, come ponderazione equa di tendenze diverse.

Nella crisi siamo entrati per difetto di proporzionalità (nella ricerca del punto di equilibrio tra regolazione e laissez faire delle attività economiche, nella definizione degli standard di misurazione dei risultati del mercato e dell’efficienza dei servizi pubblici, nella meccanica dell’accertamento tributario, sbilanciato tra giugulatori adempimenti e draconiane imposizioni, per i contribuenti visibili, e larga impunità per la categoria degli invisibili, ecc.).

Ma dalla crisi non si può uscire senza proporzionalità: il rischio è una mattanza dell’economia reale nella quale, a furia di menare fendenti al buio, si corre il rischio di raggiungere il risultato di colpire, ancora una volta, sproporzionatamente e soltanto, il ceto di coloro che non possono sottrarsi ai colpi.

Il diritto finanziario si regge su alcuni concetti strutturali e simmetrie sue proprie: forse non complessi, ma sicuramente differenti da quelli propri di altri campi: meccanismi da approcciare con cautela e laicità.

Nel diritto tributario, specie se progettato in modo atomistico e localistico, esiste ad esempio un’area di crudele frizione tra equità ed efficienza, tale che la ricerca della equità assoluta e immediata rischia di tradursi in un pericoloso boomerang.

Esempio calzante in tema è la vexata quaestio della tassazione delle rendite finanziarie, oggetto di regimi talvolta squilibratamente favorevoli.

L’applicazione dello stesso regime fiscale del lavoro (o, auspicabilmente, di un regime più severo) appare, a tutta prima, desiderabile senza riserve.

Ma nel diritto finanziario spesso ciò che pare non è (o non è semplice come sembra).

Sotto un primo aspetto, la rendita è spesso frutto di risparmio di redditi già tassati e, spesso, di risparmio generato dal lavoro, di tal che la sua tassazione è, in qualche modo, una doppia imposizione.

Ma c’è qualcosa di più importante ancora: il capitale delle moderne economie è una ricchezza volatile e immediatamente delocalizzabile, tale che una manovra di incremento delle aliquote isolata, pur ispirata alle migliori intenzioni, corre il rischio, paradossale e crudele, di diminuire la ricchezza imponibile, e quindi il gettito, e quindi la possibile spesa pubblica nei confronti di coloro che, a differenza del capitale, non possono emigrare, né far emigrare i loro redditi: i salariati e pensionati, coloro, cioè, che sono i più bisognosi del welfare che si tratta di finanziare (e che sono coloro l’aumento delle aliquote sugli altri redditi vorrebbe tutelare).

È quindi necessario un approccio meditato e globale, dove la ponderazione del giurista è irrinunciabile.

Ancora più pressante appare poi il tema, delicato e cardinale, nel prossimo futuro, della certezza del diritto.

Su questo andranno a impattare ad esempio, le questioni, già all’orizzonte, della ridiscussione dei diritti acquisiti nel sistema assistenziale e pensionistico, ecc. Ma già se ne vedono avvisaglie in altri campi, e i primi segnali impongono molta attenzione.

Si veda ad esempio il tema, che costituisce un ottimo banco di prova, dell’abuso del diritto e della elusione fiscale.

Per lungo tempo la tenaglia di una legislazione esasperatamente casistica e di una certa insipienza tecnica hanno consentito al principio di certezza di far scudo a operazioni eccessivamente disinvolte, alla sottrazione di materia imponibile in modo contrario a principi di solidarietà e al sistema.

Si tratta di un grave fenomeno, comune a tutte le economie avanzate, che va affrontato e risolto.

Ma con lo strumentario adeguato.

Anche in questo campo, nella crisi si è entrati per mancanza di proporzionalità. Ma anche in questo campo si rischia di passare da una crisi a una crisi peggiore, se la politica e la amministrazione non sarà assistita dal giurista.

Per limitarsi ai profili più evidenti, almeno 3 sono le criticità.

La prima è nella stessa nozione di elusione e abuso: essa consiste nel risparmio fiscale ottenuto in modo constrastante con lo spirito del sistema, abusando della lettera della legge.

La prassi della Amministrazione finanziaria, non sempre adeguatamente frenata dalla giurisprudenza, tende a confondere il risparmio fiscale ottenuto indebitamente, con il risparmio ottenuto appositamente: non tutto ciò che si fa per risparmiare tributi va disconosciuto, anche se fatto apposta: il diritto tributario colpisce la ricchezza, non l’intenzione di sottrarsi alla tassazione.

E’ diversa, per esemplificare, la posizione di chi prende la statale per non pagare il pedaggio autostradale e quella di chi usa le ambulanze per fare trasporti di merci in autostrada. Solo il secondo risparmia il pedaggio usando l’autostrada e commettendo un abuso (delle norme che esentano i veicoli di soccorso).

La seconda criticità è correlata al tema della sanzionabilità delle condotte di abuso.

Ciò che si rimprovera a chi elude o abusa del diritto è, sostanzialmente, di non attivarsi per integrare norme tributarie incomplete: chi abusa, per definizione, è “protetto” dalla legge: la sua condotta è legittima anche a fronte della interpretazione più lata possibile delle norma tributaria (altrimenti si tratterebbe di evasione).

Se può ritenersi proporzionato richiedere, a posteriori, di pagare un tributo anche a chi non lo doveva in base alla legge, ma solo in base a una applicazione analogica, maggiori dubbi sorgono quanto alla possibilità di punire. Quand’anche sia prevista una norma che estenda la tassazione a tutti i casi non previsti, estendendo analogicamente le fattispecie imponibili, applicare la sanzione in questi casi (analoghi) significa punire per condotte comunque non previste tassativamente. E, su un piano più generale, significa che, tra una legge che non formula precetti correttamente (visto che la formulazione consente abusi) e un contribuente che approfitta dei difetti di wording, prevale il dovere del soggetto di integrare la legge.

L’interrogativo da meditare è se la tassatività sia un valore derogabile, non solo per l’applicazione di tributi, ma anche per le violazioni.

La terza criticità concerne il rilievo processuale delle condotte di abuso.

La tesi della Agenzia delle Entrate è che l’abuso potrebbe rilevarsi sempre e comunque anche d’ufficio e anche in grado di cassazione, atteso che si tratterebbe di attuare l’art. 53 Cost.

Questa tesi appare sicuramente corretta se il rilievo d’ufficio attiene la qualificazione giuridica dei fatti oggetto del giudizio (iura novit curia).

Appare da meditare attentamente, invece, quando implichi la valorizzazione di fatti diversi (e non allegati o non allegati prima).

L’argomento che ciò sarebbe consentito per il fatto che si tratta di attuare un precetto costituzionale pare provare troppo. Intanto, anche la tutela dei valori costituzionali deve calarsi nel rispetto delle regole processuali, di tal che è fortemente dubbio che possano aggirarsi preclusioni, decadenze e simili (e garanzie processuali e procedimentali), per il solo fatto che il diritto sostanziale azionato sia conforme al dettato costituzionale.

La repressione del crimine mafioso o terrorista, per esempio, attua sicuramente interessi di rilievo altissimo, tra quelli di rango costituzionale, ma non risulta abbia mai giustificato la deroga, non prevista dalla legge, di precetti, garanzie e limiti previsti dalla legge.

E, soprattutto, se la attuazione dell’art. 53 Cost. consentisse, come talvolta sostiene l’Agenzia delle Entrate, il superamento delle ordinarie regole processuali, andrebbe rilevato che tale articolo non dovrebbe funzionare a senso unico (nel solo interesse dell’Erario, come pretenderebbe la tesi) ma impone, sempre e comunque, la attuazione del tributo “giusto”.

Se fosse possibile superare decadenze e preclusioni e regole processuali ordinarie quando vi è abuso, perché l’abuso mortifica il principio di capacità contributiva, che è un valore costituzionale, la clausola del giusto processo e la parità delle parti implicherebbero di far saltare i limiti procedimentali e processuali (e consentire un rilievo di ufficio senza limiti temporali) anche quando il tributo è ingiusto perché eccessivo (anche in tal caso è violato l’art. 53 Cost.).

Non solo, ma le ordinarie regole processuali diventerebbero derogabili e superabili tutte le volte che è in gioco un valore costituzionale.

Si andrebbe, insomma, verso un diritto processuale “d’autore”, non regolato dalla legge, che susciterebbe qualche perplessità che non sembra di poco momento.

 

22/11/2013
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