Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Verso una nuova circolare del CSM sull’organizzazione degli Uffici di Procura *

di Piero Gaeta
avvocato generale presso la Corte di cassazione

1. Il mio breve intervento introduttivo serve ad un duplice scopo.

Il primo, è quello di una preliminare avvertenza di metodo, che è anche, più in generale, una precisazione di tipo teorico e culturale: essenziale, tuttavia, per raggiungere quel “punto di equilibrio” auspicato dagli organizzatori di questo convegno sul problema del pubblico ministero. 

Il secondo scopo è di fare una licitazione, una semplice enunciazione dei “problemi sul tappeto”: vale a dire, dei punti ordinamentali che, involti dalla riforma Cartabia, possono essere interessati da una modifica della circolare in materia di organizzazione degli uffici requirenti e sui quali, presumibilmente, il Consiglio Superiore si accinge ad intervenire.

 

2. La preliminare notazione di metodo è un po' un richiamo a guardare alla figura del pubblico ministero senza idealismi e senza fraintendimenti, ma con adeguato senso di realismo. Accettando, cioè, alcuni dati normativi – innanzitutto quelli costituzionali – la cui lettura “manipolata” o edulcorata o idealizzata finirebbe, per una sorta di eterogenesi dei fini, con il rendere un pessimo servizio alle problematiche ordinamentali su cui andiamo a confrontarci: paradossalmente, favorendo gli ideologismi contro l’organo dell’accusa.

Occorre, insomma, piena contezza dell’ordito costituzionale sul pubblico ministero, al fine di comprendere quali siano i reali limiti entro cui, in ambito ordinamentale, si è mossa la normativa di fonte primaria e si potrà muovere quella di fonte secondaria o la para-normazione del Consiglio Superiore. 

Serve quindi – con grande maturità culturale - spogliarsi dell’idea che lo statuto costituzionale del p.m. sia in tutto assimilabile a quello del giudice o che esso sia esente da ambiguità e contraddizioni, viceversa rilevate con puntualità da giuristi di vera fede democratica. Solo per fare due esempi, di «normativa costituzionale innegabilmente ambigua» sul p.m. parlava Massimo Nobili e di «elementi di contraddittorietà [sul pubblico ministero] insiti nello stesso testo della Costituzione» ha ragionato, sapientemente e in vari saggi, Alessandro Pizzorusso. 

In breve: ragionare un po' nel disincanto. 

Capire, cioè, quello che indubbiamente vi è, in Costituzione, ma riconoscere anche ciò che non vi è e che si farebbe pessimo servizio a fabbricare idealmente. 

Essere consapevoli innanzitutto di quello che c’è, in Costituzione, sul pubblico ministero.

Vale a dire, sapere che, nella tessitura costituzionale non mancano certo «disposizioni precise - sia pure indirette - relative alla posizione endoprocessuale del pubblico ministero» (Nobili); che, quindi, per differenziare i ruoli all’interno del processo, non occorre certamente – con una drammatizzazione strumentale - valorizzare, sempre a livello costituzionale, la crasi delle garanzie con il giudice, tanto da sottrarre il pubblico ministero «a quelle tipiche (ed indiscusse) del primo, pur di distinguere efficacemente anche i rispettivi ruoli interni al rapporto giuridico processuale» (Nobili); che, certamente, non vi è solo il buio oltre la siepe del quarto comma dell’art. 107 cost., vale a dire l’assenza di norme idonee a fondare la garanzia di indipendenza dell’organo di accusa; ancora: che, sebbene lettera e logica dell’art. 101, secondo comma, leghino il proprio costrutto alla funzione di giudizio, ciò non significa certo - frettolosamente, superficialmente - che il pubblico ministero non sia interamente soggetto alla legge e ad essa soltanto, dovendosi piuttosto verificare se tale qualità dell’organo, che si traduce anche nella garanzia della sua indipendenza totale, sia prevista aliunde, sulla scorta cioè di altri riferimenti normativi della Carta fondamentale.

Negare tutto ciò - che è ben presente in Costituzione - appartiene agli ideologismi sul pubblico ministero.

 

3. Ma per non ricadere, dalla parte opposta, nei medesimi errori di metodo (e, dunque, in una sorta di ideologismo di ritorno), occorre parimente riconoscere anche quello che, in Costituzione, non c’è per la garanzia del pubblico ministero. 

Il problema riguarda essenzialmente il già citato ultimo comma dell’art. 107 cost., là dove la «sorte del p.m. è rinviata [...] alle scelte del legislatore ordinario» (Zanon). La disposizione attua indubbiamente un degrado di fonte: “de-costituzionalizza” la materia delle garanzie del pubblico ministero, ponendo un vincolo del mezzo normativo (la legge sull’ordinamento giudiziario, appunto) che diviene «legge costituzionalmente obbligatoria» riguardo alle garanzie stesse, ancorché, all’apparenza, senza contenuto costituzionalmente vincolato. 

Stabilisce, insomma, che al pubblico ministero debbano essere per legge (di ordinamento giudiziario) assicurate garanzie, «ma non dice quali» (Zanon). O, perlomeno, non lo dice interamente ed espressamente. 

Ciò significa che, in qualche modo, il legislatore ordinario è legittimato a disciplinare le garanzie per il pubblico ministero a prescindere da contenuti e vincoli stabiliti nei commi precedenti dell’art. 107 cost., riferibili ai soli magistrati giudicanti. 

Da ciò discenderebbe la possibilità di ricorrere al principio di gerarchia per configurare l’ufficio di Procura, non costituendo un ostacolo, quanto al requirente pubblico, il principio della distinzione solo per funzione dei magistrati (art. 107 comma 3 cost.), fondamento della cosiddetta indipendenza interna. 

Lettura, questa, che parrebbe avallata, sotto diversa via, dalla Corte costituzionale (fin da C. cost. 16 marzo 1976, n. 52), secondo cui «a differenza delle garanzie previste dall’art. 101 cost. presidio del singolo giudice, quelle che riguardano il pubblico ministero si riferiscono all’ufficio unitariamente inteso e non ai singoli componenti di esso». 

Più in generale, a prospettarsi è il problema della soglia incomprimibile di garanzia per l’indipendenza del singolo magistrato inquirente: detto altrimenti, i “livelli essenziali” di autonomia da riconoscergli e quindi del limite — invalicabile ed esistente, ancorché non scritto — ai contenuti della legge di ordinamento giudiziario. 

 

4. Qui hanno inizio i problemi, di cui tuttavia va operata una cernita intelligente. 

Come dire: nessun problema per la garanzia di status, non suscettibile di frazionamento rispetto a quelle del giudice, per il reticolo degli art. 104 e 105 cost. che avvolge entrambi.

Nessun problema, neppure, per la garanzia dell’indipendenza funzionale. 

La “riserva” di ordinamento giudiziario, infatti, se per un verso de-costituzionalizza le garanzie del pubblico ministero, per altro verso ‘compensa’ questa degradazione di fonte restituendo unitarietà ordinamentale: l’ordinamento giudiziario, cioè, ‘tiene assieme’ necessariamente le figure del giudice e del pubblico ministero. Da qui, l’inconsistenza teorica dei discorsi sulla separazione delle carriere a Costituzione invariata (ma di questo non c’è il tempo di parlare oggi), poiché il pubblico ministero, collocato per Costituzione all’interno dell’ordine giudiziario, in esso deve comunque permanere, non potendo la legge ordinaria estrometterlo, sì da ridurlo «al rango di funzionario amministrativo». Il pubblico ministero quale “avvocato della polizia” è, dunque, un acuto stridio costituzionale, al pari di un p.m. immaginato ‘separato’, se con separazione si intende la fuoriuscita dall’ordine giudiziario. D’altra parte, difficile immaginare il p.m. inserito in altra “legge di ordinamento giudiziario”, diversa cioè ed “a specchio” rispetto a quella dei giudici: immaginare insomma una doppia legge di ordinamento giudiziario. 

Ciò ulteriormente significa che una struttura di gerarchia “esterna” dell’ufficio del pubblico ministero — immaginato, cioè, dipendente, secondo una linea gerarchica più o meno diretta, dal Ministro della giustizia o sottoposto comunque alla sua vigilanza — troverebbe ostacolo costituzionale insuperabile, a tacer del molto altro, nella stessa previsione costituzionale solitamente invocata quale architrave delle differenze tra inquirente e giudicante. La disposizione costituzionale che formalmente separa è anche quella che sostanzialmente unisce, con una funzionalità cangiante: legittima sì differenze, ma, al contempo, le autorizza in limiti assai precisi.

È questa la meravigliosa architettura della Carta fondamentale, se solo si è capaci di osservarla e disposti davvero a studiarla.

 

5. Se, dunque, sotto il profilo funzionale e personale, la garanzia di indipendenza del pubblico ministero è omologa e speculare a quella del giudice (ed esclude, per ciò stesso, modelli di organizzazione degli uffici inquirenti soggetti a forme di controllo/condizionamento “esterni”), medesima univocità e cogenza non è manifestata dalla disciplina costituzionale con riferimento all’organizzazione “interna” dell’ufficio del pubblico ministero.

Ed è questa la ragione per la quale siamo qui oggi.

Qui dovrei innestare il discorso dell’obbligatorietà dell’azione e del tentativo di sponda dottrinale (mi riferisco, in particolare, alle riflessioni di Gaetano Silvestri e di Guido Neppi Modona), attraverso tale obbligatorietà, di parificare, quanto a garanzie di “indipendenza interna”, l’ufficio giudicante e quello requirente. Cerco di darne conto in una sintesi davvero estrema, che non rende giustizia ovviamente alla ricchezza argomentativa di questa tesi. 

Questa ricostruzione muove dall’idea che l’obbligatorietà dell’azione altro non sia che l’applicazione del principio di legalità alla funzione d’accusa; afferma, in conseguenza, che proprio detto principio fonda e legittima quello della personalizzazione e della diffusività dell’attività dell’inquirente; perviene, infine, alla conclusione che ogni gerarchia impedisce la diffusività dell’azione e, dunque, contraddice lo stesso principio di legalità dell’azione.   

Se, in breve, quest’ultima è garanzia dell’esercizio di una attribuzione in capo al pubblico ministero, ne discende che essa non soltanto presidia l’organo da improprie dipendenze “esterne” (dunque, status e collocazione istituzionale), ma innesta più ampi contenuti che valgono a preservarlo da qualsivoglia intervento “interno”, che sia perturbatore dell’esercizio dell’attribuzione stessa. 

In questa prospettiva, l’obbligatorietà sancisce l’incompatibilità di forme di organizzazione gerarchica dell’ufficio requirente: o, quantomeno, di quelle che oltrepassino le limitazioni di indipendenza strettamente indispensabili «a salvaguardare altri valori costituzionali connessi all’attività specifica del pubblico ministero» (Silvestri).

Nel rispetto – che è anche personalmente pieno di affetto - verso i Maestri che hanno sostenuto questa tesi, sono in dissenso con questa ricostruzione: ma non ho purtroppo il tempo neppure di argomentare sul punto, cercando di spiegare il perché.

Mi limito ad evidenziare che questa catena logica (legalità della funzione di accusa che fonda quella della personalizzazione (e diffusività); quest’ultima che fonda, a sua volta, quella della necessaria assenza di gerarchia interna agli uffici) ha avuto alcune smentite normative e storiche.

Sono consapevole che, per confutare una tesi, non è certo acconcio il cosiddetto “argomento della realtà”: è una “fallacia naturalistica” affermare che una tesi sia giusta o errata a seconda che se ne trovi o no riscontro nella realtà. La “legge di Hume”, in logica, vieta la scorciatoia della realtà. Ma io non ho il tempo di fare diversamente: di provare, cioè, ad articolare una confutazione teorica.  

Mi limito allora soltanto a rilevare che l’evoluzione normativa ha smentito l’idea di una possibile “parità” organizzatoria del pubblico ministero del tutto assimilabile a quella del giudice. Tale idea è divenuta solo ipotesi teorica allorquando, con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 (la legge Castelli di ordinamento giudiziario, d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106), il modello di organizzazione dell’ufficio inquirente ha virato decisamente verso la gerarchia, con azzeramento – specie nella sua versione originaria – del principio personalistico-diffusivo della funzione inquirente (il c.d. modello di “direzione funzionale” che veniva fuori dalle precedenti riforme dell’ordinamento giudiziario del 1988, specie con il d.P.R. n. 449/1988) ed accentramento di una impressionante serie di poteri - nella versione originaria, del tutto incondizionati – in capo al Procuratore della Repubblica, «titolare esclusivo dell’azione penale» ed, in origine, responsabile per il suo esercizio.

 

6. L’evoluzione è poi abbastanza nota. Qualche pallida mitigazione della gerarchia della riforma Castelli ad opera di una timidissima controriforma di qualche mese successiva con la legge Mastella (l. n. 269 del 2006): poco più di un belletto. Ma soprattutto gli argini paranormativi eretti dal C.S.M. che - attraverso una “interpretazione costituzionalmente conforme”, attuata con una serie di fondamentali circolari e risposte a quesiti - ha progressivamente addolcito, nel corso degli anni ed a partire dal 2006, quel modello di gerarchia d’antan. È stata una delle pagine più significative del Consiglio Superiore, intensa nell’ideale e nella realizzazione del principio di indipendenza interna del singolo magistrato inquirente. L’esito finale è poi noto: la Circolare sulla Organizzazione degli Uffici di Procura adottata nel novembre 2017, poi modificata nel giugno 2022. 

Non ho il tempo per una ricostruzione storica di maggior dettaglio (che ho sviluppato altrove), perché devo venire all’oggi.

L’oggi ha due fenomeni essenziali, che si sono stabilizzati tramite normativa primaria e che meritano sottolineatura: vale a dire “criteri di priorità” dell’azione e modello organizzativo dell’ufficio. 

L’approdo fondamentale, dopo complesso lavorio, è stato appunto quello della loro normazione, ma anche del loro connubio teorico, con importanti riflessi sulla garanzia di indipendenza ‘interna’ dell’inquirente.

Per un verso, infatti, il legislatore ha inteso fornire base normativa ai “criteri di priorità” dell’azione, con la loro definitiva formalizzazione nella l. 27 settembre 2021, n. 134: è un’uscita dallo stato di minorità della disciplina secondaria o paranormativa (o dalla disciplina di attuazione del c.p.p.: art. 132 bis disp. att. c.p.p), per assumere la connotazione di principio ordinamentale.

La stessa legge delega e, soprattutto, l’ulteriore approdo normativo della l. 17 giugno 2022, n. 71 assimila poi, in qualche modo, il sistema tabellare dei giudici ai progetti organizzativi delle Procure della Repubblica, disponendone “l’allineamento” della procedura di approvazione. Si torna in sostanza – con una soddisfazione pari alla sorpresa per tale esito – a quanto già prescritto dal famoso art. 7 ter, comma 3, ord. giud. Pre-riforma 2006, norma che, non a caso, era stata tra le prime “teste tagliate” della riforma Castelli. Si torna ad un sistema para-tabellare – attraverso una disciplina assai serrata e puntuale del progetto organizzativo – anche per gli uffici del pubblico ministero.

 

7. Quali i riflessi di queste due notevolissime innovazioni sulla indipendenza “interna” del p.m.?

A mio avviso, sono esiti normativi che, come due forze vettorialmente opposte, spingono verso direzioni antitetiche.

I criteri di priorità spingono decisamente (e, direi, secondo logica necessità) verso l’accentuazione della gerarchia degli uffici di procura.

Il modello gerarchico è stato incentivato — storicamente, ma soprattutto culturalmente — dal progressivo sfilacciamento del principio di obbligatorietà dell’azione, la cui crisi ne ha costituito un decisivo catalizzatore.

Più è lasca l’obbligatorietà dell’azione; più essa degrada da regola a principio (dunque, bilanciabile, come ogni principio costituzionale), maggiore è lo spazio logico, prima ancora che operativo, della gerarchia. 

Solo l’obbligatorietà “pura” dell’azione – cioè, quella scevra da priorità, quindi da scelte, quindi da organizzazione di tali scelte, quindi dall’inevitabile sovraordinazione che indirizzi tale organizzazione - postula l’agire diffuso del pubblico ministero. Viceversa, un’obbligatorietà che ammetta, quantomeno nella selezione della direzione dell’obbligo, scelte, postula, per ciò stesso, modelli tendenzialmente gerarchici. Se l’obbligatorietà richiede il coordinamento funzionale di fini selezionati cui l’azione è diretta (cos’altro sono i criteri di priorità?), allora è difficile concepire l’azione diffusa e spontanea del singolo magistrato inquirente.

Viceversa, il progetto organizzativo assimilato ad un metodo tabellare garantisce al singolo sostituto, in senso quasi opposto, una condizione di sicura prevedibilità della linea di sviluppo del proprio potere di azione e dei connessi poteri investigativi. Per dirlo in metafora, il progetto organizzativo ‘tabellare’ è il bagliore che il principio costituzionale della naturalità e precostituzione del giudice riflette su di un ufficio requirente. Non è la luce piena che illumina la funzione di giudizio, poiché è solo per quest’ultima che si vuole “naturale e precostituito per legge” il giudice, non l’inquirente; ma è un bagliore vivido quanto basta: perché la legalità dell’indagine postula una qualche “predeterminazione” (vale a dire: il contrario di una designazione estemporanea e propter hoc) di colui che è chiamato a svolgerla.   

Oltre a rafforzare la garanzia dell’unità ordinamentale tra requirenti e giudicanti, la predeterminazione normativa dei principali contenuti e delle procedure di approvazione del modello organizzativo mette, insomma, la sordina ad eventuali derive gerarchiche interne agli uffici. Ne paralizza, immediatamente, alcune e ne scoraggia il tentativo di diverse altre possibili. È, insomma, una cornice ordinamentale a forte tenuta per la garanzia del singolo magistrato inquirente.

Solo la concreta attuazione storica dei criteri di priorità e dei modelli organizzativi consentirà di capire quale “forza” sarà prevalente. La mia previsione – che è anche il mio augurio – è che esse possano, in futuro, quasi perfettamente bilanciarsi, anche se resta il forte interrogativo politico di un intervento del Parlamento, con legge, sui criteri di priorità: di cui, stranamente, non si parla più, nonostante la sua incidenza in questa riforma ordinamentale.

 

8. Mi resta ora da assolvere il secondo impegno di questa introduzione: vale a dire, la semplice enunciazione dei profili di maggiore criticità potenziale. 

È davvero solo un’enunciazione, perché ho detto fin troppo e soprattutto perché i quattro relatori che interverranno e si confronteranno hanno molto più di me (e molto meglio di me) la percezione del reale. In questa tipologia di questioni, infatti, la percezione del reale conta assai di più di molte riflessioni teoriche e, spesso, le rende carta straccia. 

I punti da porre sotto lente, secondo il Consiglio Superiore, per le modifiche sopravvenute dalla riforma Cartabia sono – credo - sette, e precisamente:

a) criteri di auto-assegnazione, co-assegnazione, assegnazione affari (artt. 7, co. 4 e 10, Circolare) alla luce delle previsioni della l. 71/2022, che privilegia criteri di assegnazione automatica; 

b) disciplina dei visti, alla luce della Circolare vigente (ex art. 14), che assegna al visto un’essenziale funzione conoscitiva e di informazione; 

c) regolazione dei contrasti tra sostituto e procuratore, in relazione alla possibile revoca dell’assegnazione (artt. 14-15 Circolare) ed alla luce dell’art. 1, co. 6 e) d.lgs. 106/2006, ma anche degli interventi del CSM in questi anni sopravvenuti; 

d) costituzione e assegnazione a gruppi di lavoro (ora, direttamente, art. 1 co. 6 lett. g) d. lgs. 106/2006, come modificato dalla l. 71/22), ai fini della valorizzazione per il buon funzionamento dell’ufficio e delle attitudini dei magistrati; 

e) assegnazione del coordinamento dei gruppi di lavoro ai sostituti (art. 4 della Circolare), in relazione alle numerose osservazioni formulate dal Consiglio ai progetti organizzativi; 

f) disciplina della nuova procedura di redazione e adozione dei progetti organizzativi introdotta con la legge 71/22. 

g) avocazione da parte del Procuratore generale e i suoi riflessi sull’autonomia dell’ufficio di Procura.

Prima di enunciare sette telegrafiche chiose a questi punti, quasi tutte in forma interrogativa, mi preme dire che il vero problema di una modifica alla circolare sugli uffici di procura è quello del metodo di tale intervento paranormativo. Detto altrimenti, è un problema del “grado di tipizzazione” che si intende adottare. Specificare molto, in un testo normativo, è un’arma a doppio taglio: aumenta sì la precisione, dunque la garanzia; ma si rischia, nella pretesa del dettaglio casistico, oltre l’insostenibile pesantezza della disciplina, la trappola dell’esclusione. Vale a dire, il vuoto assoluto di disciplina su quanto non (specificamente) contemplato, incolmabile dall’estensione di principi regolatori, in tutto sostituiti da disposizioni di dettaglio.

Il descritto problema di (limiti alla) tipizzazione emerge nelle brevi chiose con cui concludo il mio intervento. 

Sulle assegnazioni automatiche, quale metodo ordinario e preferibile, si pone il duplice problema della stretta tipizzazione delle sue deroghe (es. procedimenti penali pendenti o affari della DDA), nonché dell’armonizzazione con i gruppi di lavoro, che postulano criteri diversi. Solo per fare un esempio, le DDA lavorano spesso (perlomeno quelle che ho conosciuto io nel sud d’Italia) secondo un criterio interno di “competenza” geografica, al suo interno spesso (opportunamente) affinato per competenze specifiche ‘di aggregati criminali’: quale sarà il possibile impatto degli automatismi di assegnazione e quale la tipizzazione possibile delle loro eccezioni? 

Sui visti, si pone il problema di un’accentuazione di differenze tra categoria del visto e dell’assenso; ma, anche qui, della tipizzazione più o meno rigorosa degli atti verso cui può essere diretto, nonché del visto conoscitivo (non preventivo, ma) postumo e degli obblighi “collaborativi” del sostituto, in relazione ad atti processuali importanti, ma non tipizzati ai fini del visto.

Sui contrasti tra vertice dell’ufficio e sostituto, il quesito è – anche in questo caso – il grado di tipizzazione che può raggiungersi nell’ipotizzare l’oggetto del contrasto. Mi rendo conto che è quasi impossibile ricondurre a “tipi” i possibili oggetti di contrasto; ma mi chiedo, ad esempio, quanto sia possibile la formalizzata previsione di alcune tipologie di esso (es.: il contrasto sulla qualificazione della fattispecie) o di alcuni limiti generali (ad esempio, temporali: se esista un “tempo massimo” per l’eventuale revoca ed, in caso affermativo, se esso si collochi necessariamente a monte dell’esercizio dell’azione). 

Sui gruppi di lavoro: problema che si tira dietro quello della co-assegnazione (dunque, come sopra accennato, sul criterio generale dell’assegnazione automatica). Anche qui: vanno preventivamente tipizzate le ipotesi di coassegnazione e fino a quando essa può intervenire? Cosa accade se il già titolare la rifiuta, senza tuttavia rinunciare all’assegnazione originaria? E quanto libera è tale facoltà in capo al Procuratore se, ad esempio, è esercitata in funzione di equilibrare i carichi di lavoro o di alleggerire un sostituto in difficoltà? Più in generale: rileva lo “scopo” nella coassegnazione e, in caso affermativo, quanto e come e “tipizzabile”? 

Sul coordinamento dei gruppi di lavoro da parte di sostituti: nessuna controindicazione ovviamente, se non – ancora una volta – chiarezza su criteri predeterminati. Quale sostituto può coordinare? Quello più anziano, avuto riguardo all’anzianità di ufficio? O quello più versato nella specifica materia oggetto della “competenza” del gruppo? 

Sui progetti organizzativi: fino a dove può spingersi la loro (necessaria) standardizzazione? Cosa occorre immaginare, quanto a loro forme e contenuti, affinché non diventino, per un verso, enfatici quanto un “programma di governo” o, per altro verso, modellini seriali, indistinti tra i vari uffici di Procura?

Sull’avocazione facoltativa, la riflessione sarebbe assai più estesa e, forse, non direttamente pertinente al tema dell’oggi. Solo telegrafici pensieri: quali sono i concreti rimedi se essa sia, in ipotesi, esercitata a prescindere dalla considerazione dei c.d. criteri di priorità, secondo il metodo espressamente indicato dalla riforma (art. 127 bis c.p.p.)? E quali gli strumenti a disposizione delle procure generali per un corretto adempimento della funzione oggi normativa, senza il pregiudizio dell’autonomia degli uffici di procura territoriale? 

Sperando di non avervi annoiato troppo, vi ringrazio e cedo la parola al primo dei relatori.

[*]

Introduzione del Seminario organizzato da Magistratura Democratica svoltosi a Roma presso la sede Fondazione Basso il 10 giugno 2023

29/06/2023
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