Il rapporto tra Dante e il diritto è stato studiato e valutato da punti di vista diversi, anche con prospettive tra loro opposte: c’è chi ha creduto di trovare nella sua opera solo una competenza molto generica, nel quadro della sua conoscenza filosofica, e chi al contrario vi ha individuato una competenza diretta, non senza risvolti di tipo tecnico, acquisiti anche con studi specifici. È vero peraltro che anche chi sottovaluta i caratteri giuridici della Monarchia, il trattato scritto da Dante per sostenere le prerogative dell’Impero di contro alle ambizioni temporali della Chiesa, non può negare il fatto che esso sia stato oggetto di vivo interesse, tra consensi e rifiuti polemici, proprio in ambito giuridico, per il rilievo che vi assumono categorie che, prima che politiche, ideologiche, religiose, sono specificamente giuridiche.
Se Dante non fu e non poté essere un maestro di diritto, come il suo amico e poeta Cino da Pistoia, ebbe certamente quelle competenze che nel mondo comunale variamente circolavano tra chi, come lui, aveva assunto impegni istituzionali, amministrativi: l’attenzione al diritto, e la stessa conoscenza del Digesto, era un dato essenziale nell’articolazione dei poteri municipali, nelle scelte culturali coinvolte nella politica cittadina (e basta risalire al suo maestro Brunetto Latini). Nella cultura di Dante il diritto costituiva un necessario strumento per l’esercizio della vita civile, offrendo norme e regole per lo scambio e la relazione tra gli esseri umani: fondamento istituzionale delle possibilità e dei limiti dell’esistenza terrena, del suo dispiegarsi secondo giustizia.
Per lui non potevano essere in nessun modo concepibili una filosofia e una politica che ignorassero il rilievo del diritto: che egli considerava comunque in un’ampia prospettiva filosofica, nella sua visione globale e integrale dell’essere sociale, rinviante in ultima analisi alla superiore giustizia divina, ma senza trascurare il rilievo e la necessità di una giustizia umana, di una sua gestione articolata, circostanziata, rivolta alle esperienze e alle occasioni più particolari e definite.
Su questo orizzonte si appoggia la vera e propria definizione del diritto, che Dante formula (correggendo la definizione di Celso registrata da Ulpiano), nella Monarchia, II, V, 1: «ius est realis et personalis hominis ad hominem proportio, que servata hominum servat sotietatem, et corrupta corrumpit». A sostegno di questa definizione, con l’appoggio di riferimenti a Cicerone e a Seneca, si afferma poi che finalità del diritto è il «bonum commune»; e quanto alle leggi, debbono «homines devincire ad invicem propter Comunem utilitatem».
La definizione (preceduta in I, XIV, 5, da quella della legge, che segue le orme di Tommaso: «est enim lex regula directiva vite») mostra direttamente il rilievo politico e filosofico che Dante attribuisce al diritto, come determinante fondamento dell’essere sociale: e ci mostra in fondo come esso vada ricondotto al centro del suo pensiero e della sua visione del mondo, nel quadro di quell’aspirazione alla giustizia che percorre tutta la sua opera, determinando e informando il suo grande poema. Si sa, del resto, che, nel dare forma ed evidenza concreta a questa aspirazione alla giustizia, nella scrittura della Commedia Dante assume una vera e propria posizione di giudice, mettendo in scena l’azione del giudizio divino sulle anime dei trapassati e sulla vita del presente; e in alcuni episodi affidare alla sua stessa figura di personaggio (agens e viator) una funzione di interprete e di agente della stessa giustizia divina (da ricordare a tal proposito il libro di un compianto maestro, collega e amico, Nino Borsellino, Il poeta giudice, Aragno, 2011). La tensione e la drammaticità della grande poesia dantesca scaturiscono per gran tratto proprio da questa dimensione giudicante e dalle modalità in cui vi assume corpo la giustizia divina, grazie a tutta un’articolata tipologia di colpe e di pene, che inscrive vizi e peccati nel quadro di una vera e propria casistica giuridica.
Questo carattere giudicante della poesia della Commedia viene in fondo riconosciuto universalmente, converge con la sua immagine vulgata, più tradizionale e scolastica: ma a ciò non corrisponde quasi mai un adeguato richiamo all’orizzonte giuridico. E anche se negli ultimi anni si sono avuti sul tema vari studi importanti e originali (ricordo in primo luogo i libri di Justin Steinberg e di Claudia Di Fonzo e gli acuti interventi di Diego Quaglioni), non mi pare che la tematica giuridica abbia avuto particolare rilievo nella profluvie di iniziative e celebrazioni suscitate dall’appena trascorso settimo centenario dantesco.
Tanto maggiore rilievo, nell’anno centenario, assume allora il libro di Leonardo Terrusi, Onde convenne legge per fren porre. Dante e il diritto, pubblicato dall’editore Cacucci nella Biblioteca di cultura giuridica diretta da Pietro Curzio: libro che, oltre a utilizzare gli spunti forniti dai più importanti studi, più o meno recenti, viene a dare un quadro molto articolato delle diverse categorie, prospettive, tangenze, estensioni che, soprattutto nella Commedia, chiamano in causa la tematica della giustizia e l’universo del diritto.
Il verso con cui s’intitola questo libro è tratto dal canto XVI del Purgatorio (v.94), dal discorso di Marco Lombardo, che, nel girone degli iracondi, risponde al dubbio di Dante sulla causa della presente corruzione del mondo, «tutto diserto/ d’ogne virtute…/ e di malizia gravido e coverto» (58-60): se essa risalga a un turbamento dei cieli o alla responsabilità degli uomini. Nella risposta Marco distingue l’effetto del movimento dei cieli, l’influenza che essi hanno sulle disposizioni umane, dalla responsabilità che tocca agli esseri umani, in quanto dotati della capacità di discernere il bene dal male e di «libero voler». È il volere divino a creare la «mente», l’anima intellettiva, che non è sottoposta al controllo degli astri, ma agisce liberamente sui comportamenti di ciascuno. Creata da Dio, che è somma letizia, l’anima si rivolge spontaneamente verso le cose che dilettano, ma nella sua ricerca del bene può ingannarsi, rivolgendo il suo «amore» verso beni non degni: da ciò deriva la necessità della legge, che mira per l’appunto a correggere questa disposizione umana a ingannarsi nella ricerca del bene. La legge e l’esercizio del potere mondano hanno funzione eminentemente giuridica, col compito di regolare la vita civile, alla giustizia e al benessere e alle necessità della comunità umana. La causa della presente corruzione del mondo sta proprio nell’abbandono dell’adeguato esercizio della legge, causato in primo luogo da una stortura che ha luogo al suo vertice, e cioè dal venir meno della distinzione tra potere ecclesiastico e potere mondano (i due soli ordinati a regolare e gestire gli ambiti diversi della vita spirituale e di quella secolare) e dall’appropriazione che la Chiesa ha fatto delle prerogative proprie del potere imperiale.
Focalizzando la sua attenzione su questi versi capitali, l’autore di questo libro mette bene in evidenza il rilievo che per Dante assume il nesso tra Giustizia, Diritto, Legge, in rapporto alla tradizione giuridica medievale, anche per la questione della separazione tra potere spirituale e potere temporale, fissata nella metafora dei due soli: e a tale proposito nota il rilievo che per Dante assume il riferimento al Decretum di Graziano, la cui assunzione nella corona dei beati del X canto del Paradiso è motivata proprio dal suo impegno nel distinguere i due livelli di potere (vv.103-105: «Quell’altro fiammeggiar esce del riso/ di Grazïan, che l’uno e l’altro foro/ aiutò sì che piace in paradiso»). Si può aggiungere che il discorso di Marco Lombardo sulla necessità della legge di Purgatorio, XVI, trova un’ulteriore indiretta specificazione nella digressione sui vizi capitali, derivati appunto dalle distorsioni dell’amore, svolta da Virgilio nel successivo canto XVII. Se, come abbiamo visto, Marco aveva definito il processo per cui l’anima, spinta dalla ricerca del bene, rischia di rivolgere il suo amore verso oggetti illusori e ingannevoli (da ciò la necessità correttiva della legge), ora Virgilio distingue un amore naturale e un amore d’animo, cioè orientato dalla libertà del volere. Se il primo non comporta possibilità d’errore, il secondo può errare secondo tre ordini diversi: rivolgendosi al male del prossimo (da cui scaturiscono superbia, invidia, ira), muovendosi con eccessiva ritrosia verso il bene (accidia), rivolgendosi con eccessivo ardore verso i beni materiali (beni economici, gola, lussuria). Si tratta di una distinzione su cui, come è ben noto a ogni lettore della Commedia, si basa la stessa struttura del Purgatorio, con le sette cornici disposte secondo l’ordine dei vizi e delle pene purgatoriali: ma comunque va tenuto ben presente il fatto che, coerentemente con il rilievo che Marco Lombardo aveva attribuito alle distorsioni dell’amore, qui si sottolinea come sia proprio «amor sementa in voi d’ogni virtute/ e d’ogni operazion che merta pene» (104-105). Non solo l’ordinamento giuridico del Purgatorio, ma ogni esito dell’agire umano, in positivo e in negativo, viene ricondotto così alla spinta del desiderio, a una tensione dell’anima verso una soddisfazione amorosa che, se non sostenuta da adeguato discernimento, può risolversi in errore, dando luogo a comportamenti e operazioni da condannare e sanzionare. Potremmo sostenere paradossalmente che la necessità del diritto è determinata proprio dal continuo darsi di distorsioni del desiderio, dall’insistente riproporsi di quelle false immagini di bene, che Dante stesso sapeva di aver inseguito nel corso della sua esistenza: glielo mostrerà la stessa Beatrice, quando, dopo essergli finalmente apparsa nel Paradiso terrestre, gli rimprovererà di averla dimenticata seguendo false immagini di bene («e volse i passi suoi per via non vera,/ imagini di ben seguendo false,/ che nulla promession rendono intera», Purg., XXX, 130-132). È chiaro, insomma, che l’azione dell’amore e del desiderio mette in gioco una serie di termini che agiscono sui piani più diversi e contraddittori, dal più stretto e specifico orizzonte legale («convenne legge per fren porre») al vario dispiegarsi della fenomenologia del desiderio nella Commedia, dall’amore ingannevole e peccaminoso (come non risalire a quello di Francesca e Paolo?) a quello salvifico per Beatrice, al supremo «ardor del desiderio», in cui si afferma e “finisce”(«l’ardor del desiderio in me finii») l’attingimento assoluto della visione di Dio.
È evidente d’altra parte che, attraverso l’esperienza della sconfitta politica e dell’esilio, l’orizzonte poetico, filosofico, politico, ideale di Dante, la sua stessa percezione della realtà e la sua volontà di espressione, tutto si riconnette a un’insopprimibile aspirazione alla giustizia. Nell’ottica dell’Etica Nicomachea aristotelica, a lui sempre ben presente, la giustizia si poneva peraltro come la virtù umana per eccellenza, la più perfetta tra tutte le virtù, che tutte le contiene e le inscrive dentro di sé: come esplicitamente dichiara già il primo trattato del Convivio, I, XII, 9: « avvegna che ciascuna vertù sia amabile ne l’uomo, quella è più amabile in esso che è più umana, e questa è la giustizia, la quale è solamente ne la parte razionale o vero intellettuale, cioè ne la volontade». Alla giustizia doveva in effetti essere dedicato il penultimo trattato, cioè il quattordicesimo, dell’incompiuto Convivio (lo si promette in IV, XXVII, 11): e si è ipotizzato che in quel trattato mai scritto dovesse essere commentata la grande canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, dedicata appunto alla Giustizia (Drittura), dove essa si presenta come generatrice di altre due donne non direttamente nominate, che si possono interpretare come forme più particolari della stessa Giustizia (mi sembra convincente l’ipotesi che con esse si indichino i due tipi parziali della giustizia distributiva e di quella correttiva, definite proprio nell’Etica Nicomachea, V, 1131b-1132b: quelle che più direttamente chiamano in causa l’esercizio del diritto).
Lo sviluppo più articolato sulla tematica della giustizia nella Monarchia ne farà la prerogativa suprema dell’Impero, come garante supremo dell’universalità della giustizia terrena, nel suo rilievo civile e sociale: condizione necessaria perché il genere umano possa realizzare in felicità e pace la potenza dell’intelletto possibile, il grado più alto della conoscenza sulla terra. Ma l’aspirazione alla giustizia si era posta nel frattempo come principio informativo di tutta la costruzione della Commedia, della sua sostanza individuale e sociale (dove, come tante volte è stato detto, il personaggio del pellegrino oltremondano si identifica sia con il più circostanziato individuo Dante Alighieri, exul immeritus, sia con la più universale figura dell’Everyman).
L’indagine di Terrusi si focalizza naturalmente sul grande poema, dove i molteplici richiami alla tematica giuridica, al diritto e a forme e situazioni della giustizia terrena, si pongono entro il quadro superiore della Giustizia divina, di una giustizia che si dispone nell’oltre della vita, nella assoluta definitività di un destino (anche se poi questo assoluto si trova continuamente a chiamare in causa le occasioni del bene e del male terreno, le possibilità, le occasioni e le lacerazioni del tempo del mondo). Rinviando a un passo della Monarchia, II, II, 5 («ius in rebus nichil est quam similitudo divine voluntatis») Terrusi nota che Dante arriva a porre in definitiva «un’equazione tra diritto e volontà divina», in termini che esemplarmente vengono ribaditi in Paradiso, XIX, 86-88 («La prima volontà, ch’è da sé buona,/ da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse./ Cotanto è giusto quanto a lei consuona»): e tutti ricordano, del resto, che già nell’iscrizione sulla porta dell’Inferno tutto il viaggio oltremondano si fissa sotto il segno implacabile e minaccioso della Giustizia divina: «Giustizia mosse il mio alto fattore» (Inf., III, 4).
Ma se l’oltremondo rappresentato nel poema (la vita oltre la morte) vede dovunque in atto il dispiegarsi e l’applicarsi della Giustizia divina, il poeta giudice vi sovrappone continuamente i propri giudizi personali, in un quadro di sovrapposizioni, intrecci, scontri, con i giudizi e le opinioni correnti nel mondo dei vivi: soprattutto ribaltando la fama o l’infamia di vari personaggi. In tal modo egli si trova a contestare implicitamente il rilievo che nella prassi giuridica del tempo veniva attribuito alla fama iuris e alla fama facti, rispondendo sdegnosamente alla condanna che egli stesso aveva subito da parte dei suoi nemici fiorentini. Svolgendo indicazioni di Justin Steinberg, Terrusi giunge a notare che lo stesso realismo dantesco può essere «interpretato come un tentativo di rispondere a procedure inquisitorie basate invece su verisimiglianza (della fama negativa) e su ricostruzioni basate sull’immaginazione» (p.95). Qui si tocca il punto determinante dello stesso procedimento narrativo e stilistico dantesco: e si può davvero pensare che il così potente effetto di realtà prodotto dal linguaggio della Commedia trovi una delle sue scaturigini proprio nella sua determinata intenzione giuridica, nella forza con il poeta mira a contraddire i giudizi comuni, la vox publica corrente, con un polemico rifiuto del giudicare, legale, morale o ideologico, che si imponeva nella società contemporanea (esemplari, tra i tanti casi, quelli opposti e speculari di Guido da Montefeltro, Inferno, XXVII, per il senso comune pentito e salvo e invece dannato per il consiglio di frode dato a Bonifacio VIII, e del figlio Buonconte, Purgatorio, V, creduto morto in peccato e invece destinato alla salvezza).
Se Dante insiste così a farsi direttamente portavoce, rivelatore, emissario, dell’applicazione della Giustizia divina, sa però molto bene che essa è insondabile (e viene a dichiararlo più volte: nel modo più disteso e articolato nei canti del cielo di Giove e in particolare nel discorso dell’aquila di Paradiso, XIX), che nessun essere umano può penetrarne l’abisso. Eppure, audacemente pretende di penetrare personalmente nel fondo di questa insondabilità, non solo con il suo continuo correggere i giudizi comuni di cui si è detto, ma anche con quelle singolari invenzioni con cui addirittura riscatta personaggi dell’antichità pagana, inventando situazioni che li portano comunque alla salvezza (è il caso del poeta Stazio nel Purgatorio e poi di Traiano e del troiano Rifeo nel Paradiso).
Dall’intenzione giudicante di Dante (che, come ha suggerito Nino Borsellino, agisce in modi diversi e con molteplici esiti inventivi nel giudizio sui morti e in quello sui vivi, che il poeta non si perita di chiamare in causa come futuri dannati o futuri beati) scaturiscono peraltro, nella rappresentazione della Commedia, prospettive di vario tipo, che Terrusi distingue opportunamente, evocando un «Dante vendicatore» (sul suo contraddittorio porsi nei riguardi del rilievo della vendetta nella società medievale), un Dante «diffamatore» (per i ritratti infamanti dei più vari personaggi o comunque per la messa in pubblico delle loro colpe), un Dante «imputato» (sul suo atteggiamento di rivalsa verso le colpe imputategli nella condanna comminatagli): in ognuna di queste prospettive il mondo oltremondano viene come chiamato a rispondere alla situazione del mondo reale e ai vari rapporti e conflitti in cui l’autore era implicato, anche nei loro risvolti legali.
L’intenzione di Dante giudice, con tutte le sue motivazioni etiche, religiose, filosofiche, politiche, personali, si esplica peraltro nel sistema delle colpe e delle pene, nella loro distribuzione e rappresentazione, configurate in modo diverso nell’Inferno e nel Purgatorio. Terrusi segue la loro articolata tipologia, individuando le varie tangenze della costruzione dantesca con gli orizzonti del diritto e dell’universo giudiziario medievale: insiste sulla formidabile «impalcatura legale» del debordante «penitenziario» che è l’Inferno, in cui si impone in modo implacabile una assoluta giustizia retributiva; mentre nel sistema penale del Purgatorio vede delinearsi quella linea di giustizia riparativa, di pena come purificazione, che cominciava faticosamente ad affacciarsi nell’orizzonte storico. Si tratta di un punto importante, che mostra come l’invenzione dantesca giunga «a captare e valorizzare sintomi di mutazioni sociali, e in questo caso specificamente penali, che erano in nuce o in corso di realizzazione nei suoi tempi» (p.47). Lo studioso non trascura peraltro il fatto che, pur nella diversità tra i due sistemi penali, infernale e purgatoriale, si diano sovrapposizioni e interferenze tra i caratteri delle pene relative, con una mai netta divaricazione tra retribuzione e riparazione. Egli nota come in alcuni casi nella costruzione delle pene dantesche venga ad affacciarsi «un principio commisurabile a una proporzionalità» (p.80), che non coincide direttamente con quello che Dante stesso definisce come contrappasso (a questo termine Terrusi dedica un’articolata discussione, mostrando le diverse categorie logiche e linguistiche su cui si basa la corrispondenza tra peccato e pena e riconducendone alcuni aspetti «alla prassi feudale e medievale della pena», p.84).
Ma si può dire che in ogni punto di questo libro la tematica giuridica metta in gioco i significati cruciali del poema dantesco. Ne risulta nel modo più convincente che a prenderlo in considerazione dal punto di vista del diritto non se ne sfiora qualche aspetto marginale o meramente tecnico, ma se ne chiama in causa il senso integrale, le ragioni più profonde. Poema della giustizia, la Commedia, della Giustizia divina e della giustizia umana, che nella sua aspirazione a una giustizia superiore e assoluta continua a confrontarsi con i limiti e le contraddizioni del diritto e della giustizia umana: fissando nel suo universo immaginario la dolorosa persistenza del male e la speranza inesauribile nel bene.