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Domanda contestuale di separazione e divorzio e domanda congiunta dei coniugi

di Leonardo Lenti
già professore ordinario di diritto privato, Università di Torino

1. Le nuove norme

Il d.lgs. 149/2022, in esecuzione della delega contenuta nella l. 206/2021, c. 23° lett. bb, ha introdotto la facoltà di presentare contestualmente la domanda di separazione e quella di divorzio, pur restando la seconda improcedibile per i 6 o 12 mesi, secondo i casi, come previsto dall'art. 3 c. 2° lett. b della legge sul divorzio.

Il nuovo art. 473-bis.49 c.p.c. – rubricato «cumulo di domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio» – stabilisce al c. 1° che «negli atti introduttivi del procedimento di separazione personale le parti possono proporre anche domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e le domande a questa connesse».

Il nuovo art. 473-bis.51 c.p.c. – rubricato «procedimento su domanda congiunta» – stabilisce al c. 1° che le parti possono presentare domanda congiunta per dare inizio ai procedimenti elencati nell'art. 473-bis.47 c.p.c.: dunque per quelle di «separazione personale dei coniugi, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, scioglimento dell’unione civile e regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, nonché per quelle di modifica delle relative condizioni».

Stabilisce poi al c. 2° che il ricorso, «sottoscritto anche dalle parti», deve contenere tra l'altro la determinazione delle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici», e può «anche regolamentare, in tutto o in parte, i loro rapporti patrimoniali». Queste prescrizioni, non distinguendo fra domanda di separazione e domanda di divorzio, si dovrebbero applicare a entrambe le domande.

La scelta terminologica della norma non è felice: i «rapporti economici» e i «rapporti patrimoniali» appaiono a prima vista sinonimi. Siccome però sui primi l'accordo delle parti dev'essere pieno, mentre sui secondi può anche mancare o essere parziale, è evidente che devono riferirsi a qualcosa di diverso. Mentre la prima indicazione di contenuto – «rapporti economici» – non sembra introdurre alcunché di innovativo, la seconda è invece nuova.

Ma che cosa esattamente significa «rapporti patrimoniali»?

Tenendo conto che nel linguaggio, soprattutto dottrinale, la locuzione “regime patrimoniale della famiglia“ è considerata intercambiabile con la locuzione “rapporti patrimoniali fra i coniugi“, mi sembra che l'unica interpretazione ragionevole sia la seguente: la locuzione «rapporti economici» riguarda l'assegno per l'altro componente della coppia e per i figli, l'eventuale promessa di trasferimenti dominicali perequativi, l'assegnazione della casa familiare; la locuzione «rapporti patrimoniali» riguarda invece la divisione dei beni in comunione legale. Si ricordi che lo scioglimento della comunione ha luogo nella fase iniziale della separazione, sicché al momento in cui la domanda di divorzio diviene procedibile è già avvenuto (art. 191 c. 2° c.c.).

Se così è, va rimarcato che con questa allusione la norma introduce una novità molto importante e opportuna: la divisione della comunione, ormai sciolta, può finalmente rientrare all'interno del procedimento per il divorzio, ponendo così fine a una regola giurisprudenziale – forse in passato formalisticamente corretta, ma di certo foriera di conseguenze pratiche del tutto assurde – la quale escludeva che il procedimento per la divisione avesse un rapporto di connessione forte con quello di divorzio poiché, pur avendo identità di parti, aveva causa petendi autonoma e differente[1].

 

2. Presentazione contestuale delle domande e domanda congiunta

È un dato di fatto evidente, al punto mi sembra non meriti neppure di essere argomentato, che di solito le parti, al momento in cui si separano, abbiano un forte interesse a definire una volta per tutte, in modo complessivo, le condizioni economiche della loro vita futura: dunque non solo le condizioni della separazione legale, ma anche quelle del successivo divorzio. Ciò permette loro di avere fin da subito qualche dato certo sulle prospettive della propria condizione patrimoniale e abitativa, anche di lungo periodo; e può disinnescare potenziali motivi di futura lite.

Il tenore letterale delle nuove norme non contiene alcuna prescrizione che permetta di distinguere, ai fini della presentazione contestuale delle domande di separazione e divorzio, fra il caso della domanda congiunta e quello della domanda proposta unilateralmente da una parte[2]. Da ciò la conseguenza – ovvia, mi sembrerebbe – che le domande congiunte possano contenere entrambe le richieste: in tal caso l'accordo sottoposto al giudice deve contenere tanto le determinazioni economiche riguardanti la separazione quanto quelle riguardanti il divorzio[3].

Una delle ricadute di questa nuova norma è che l'orientamento giurisprudenziale che vuole nulli gli accordi sulle condizioni del divorzio raggiunti al momento della separazione legale non può più essere mantenuto in vita: è contrario al nuovo testo di legge.

Ciononostante in molti tribunali si è aperta la discussione se la domanda contestuale di separazione e divorzio possa essere presentata anche congiuntamente. Nei primi provvedimenti giudiziari in materia e nei documenti elaborati dalla presidenza di alcuni tribunali emerge un profondo dissenso: secondo la maggioranza è ammissibile la proposizione contestuale delle due domande[4], mentre secondo altri non lo è, sicché se questa fosse presentata, la domanda di divorzio dovrebbe essere dichiarata inammissibile[5].

In questa situazione di incertezza, era facile previsione che quanto prima sarebbe stato proposto rinvio pregiudiziale alla Corte suprema ex art. 363-bis c.p.c.: e così è stato[6].

A sostegno della tesi dell'inammissibilità – che, ribadisco, mi sembra priva di fondamenti testuali – si afferma che il suddetto orientamento di cassazione, a quanto pare intoccabile, impedirebbe di concordare validamente le condizioni del divorzio al momento della separazione, cioè 6 mesi prima. In altre parole: la nuova norma dovrebbe essere interpretata in modo antiletterale alla luce di un vecchio orientamento giurisprudenziale, la cui ragionevolezza era già comunque discutibile e ampiamente criticata in dottrina.

Il presente breve scritto è dedicato soprattutto a trattare questo punto, di carattere sostanziale, che mi sembra quello di gran lunga principale, tralasciando le questioni di carattere strettamente processuale[7].

Visto il brevissimo lasso di tempo che intercorre tra la separazione a domanda congiunta e la procedibilità della domanda di divorzio (6 mesi dall'udienza iniziale), credo occorra chiedersi in che cosa e per quali ragioni le determinazioni economiche concordate dai coniugi per la separazione potrebbero differenziarsi da quelle concordate per il divorzio, destinate a valere 6 mesi dopo.

Per tutto quanto riguarda i figli – affidamento, collocazione abitativa, mantenimento, assegnazione della casa familiare – le regole sono identiche tra separazione e divorzio, sicché il contenuto dell'accordo per l'una non è immaginabile possa differire dal contenuto dell'accordo per l'altro, salvo ragioni dovute a circostanze particolari e del tutto transitorie.

Diverse sono invece le regole di legge per determinare l'assegno di separazione e quello di divorzio. Il primo dovrebbe garantire al coniuge in condizioni di debolezza economica una somma che gli permetta di mantenere il tenore di vita goduto durante la convivenza e, soprattutto, non sarebbe dovuto in caso di addebito. Il secondo, invece, è regolato dall'art. 5 c. 6° l. divorzio e, soprattutto, dai principi di diritto stabiliti da alcune fondamentali sentenze della Corte di cassazione a sezioni unite, in particolare la n. 18287/2018 e la n. 32198/2021.

L'importanza effettiva di questa differenza mi sembra però molto minore di quanto appaia in linea di principio, soprattutto per la brevità del lasso di tempo che deve intercorrere fra separazione e divorzio, come ridotto dalla l. 55/2015.

In caso di presentazione contestuale delle due domande – che credo sarà il caso di gran lunga più frequente – l'assegno di separazione, concordato tenendo conto delle sue consuete regole, è un assegno meramente provvisorio: è destinato a venir meno con la pronuncia del divorzio e quindi a essere sostituito dopo pochi mesi da quello concordato per il divorzio.

Il “vero“ accordo delle parti sull'assegno, cioè quello che conta effettivamente perché si protrae nel tempo, è dunque ormai divenuto l'accordo sull'assegno di divorzio. È facile previsione che ciò induca le parti a concentrare subito tutta la loro attenzione sulle condizioni destinate a durare nel tempo, cioè su quelle del divorzio. Il baricentro dei patti fra i coniugi – è importante sottolinearlo – viene così a spostarsi dal momento della separazione a quello del divorzio. 

Inoltre, guardando alle cose con realismo e con buon senso pratico, credo assai improbabile nella prassi quotidiana che la differenza tra le norme che regolano i due assegni incida sulle decisioni concordate dalle parti fino al punto da indurle a concordare quello provvisorio (di separazione) in modo diverso da quello definitivo (di divorzio). Gli eventuali casi di diversità mi sembra avranno ragioni strettamente contingenti e transeunti, non certo la diversità delle norme di legge.

La suddetta brevità del lasso di tempo lascia inoltre supporre che al momento in cui la domanda di divorzio diverrà procedibile, l'accordo sul se e sul quanto del relativo assegno, raggiunto in sede di separazione, sarà ancora economicamente e psicologicamente attuale, sicché non vi saranno ragioni che spingano a contestarlo, salvo condotte di palese mala fede[8]. In ogni caso, qualora in quei mesi le circostanze fossero cambiate in modo rilevante, il coniuge precipitato nel bisogno resterebbe comunque titolare del diritto di chiedere un assegno di divorzio, ma ovviamente limitato alla sua componente assistenziale, cioè alimentare.

Le cose stavano in un modo indubbiamente molto diverso quando il lasso minimo di tempo intercorrente fra separazione e divorzio era di 3 anni; e ancor di più quanto era di 5, 6 o 7 anni.

Dalla giurisprudenza pubblicata su riviste in tema di nullità degli accordi per il divorzio stipulati al momento della separazione emerge un dato da segnalare: le controversie non riguardano tanto il caso in cui le parti concordano al momento della separazione anche l'assegno dovuto in seguito al divorzio, quanto il caso in cui l'accordo di separazione consensuale, spesso la sua parte non portata all'omologazione, contiene la promessa di un trasferimento di ricchezza – immobili o partecipazioni societarie – come modalità di adempimento degli obblighi di sostegno economico della parte più debole, con l'intesa che debba valere in via definitiva, quindi sia per la separazione sia per il successivo divorzio.

Benché le clausole che riguardano il futuro divorzio, com'è ovvio, non possano essere contenute nel verbale omologato di separazione, il legame funzionale fra tutti i diversi aspetti dell'accordo è strettissimo. La modifica delle condizioni economiche delle parti che deriva dai trasferimenti di ricchezza effettuati in adempimento della promessa è destinata a spiegare i suoi effetti in modo duraturo, quindi anche al momento del successivo divorzio, sicché non può non incidere sul relativo assegno.

L'adempimento degli obblighi economici concordato al momento della separazione mediante un trasferimento di ricchezza è comunque solo parziale: lascia lo spazio per un assegno periodico, che però deve tenerne conto nel determinare le condizioni economiche delle parti. Altrimenti, se fosse totale, costituirebbe una corresponsione una tantum: questa possibilità, che per la separazione non è prevista, necessita per il divorzio di essere espressamente riconosciuta equa dal giudice (art. 5 c. 8° l. divorzio).

In proposito merita di essere segnalato quanto si legge in una delle sentenze più realistiche e ragionevoli in materia: ammette la possibilità «che le parti in sede di divorzio dichiarino espressamente che, in virtù di un già effettuato trasferimento immobiliare, l'assegno di divorzio è già stato corrisposto una tantum. In tal senso, peraltro, occorre una non equivoca dichiarazione delle parti con conseguente richiesta al giudice di stabilire conformemente l'assegno di divorzio. In assenza di tale inequivoca richiesta è infatti inibito al giudice di determinare l'assegno di divorzio sulla base del riconoscimento dell'avvenuta corresponsione in unica soluzione»[9].

Resta comunque fermo che le parti non possono escludere pattiziamente il diritto di chiedere un assegno divorzio avente finalità solo assistenziale, vale a dire alimentare. Salvo il caso dell'una tantum, menzionato sopra, l'eventuale accordo che escludesse esplicitamente ogni successiva richiesta economica, qualunque ne fosse la ragione, sarebbe nullo.

 

3. L'illiceità degli accordi di divorzio stipulati al momento della separazione: un asserto alla ricerca di un fondamento giuridico

Nonostante le forti critiche dell'ormai larghissima maggioranza della dottrina, la Corte di cassazione afferma da oltre 40 anni che gli accordi sulle condizioni del divorzio raggiunti al momento della separazione legale sono nulli. A questo modo disconosce il giusto e ragionevole interesse delle parti a raggiungere fin dall'inizio della vicenda legale un accordo completo e definitivo, salvo successivi mutamenti delle circostanze di fatto; anzi, lo contrasta frontalmente.

Negli oltre 70 anni di vigenza della legge sul divorzio, l'oscillazione degli orientamenti sulla cosiddetta “natura” dell'assegno – prima composita, poi solo assistenziale, poi di nuovo composita – manifesta l'estrema difficoltà e la profonda incertezza in cui si dibatte il nostro ordinamento, tanto di fonte legislativa quanto di fonte giurisprudenziale, nel darne una regolazione che sia al tempo stesso abbastanza precisa da soddisfare l'esigenza di certezza del diritto, ma anche abbastanza elastica da soddisfare l'esigenza di giustizia nel caso concreto.

E di sicuro manifesta l'inadeguatezza e la pericolosità delle formulette generalizzanti, le quali partoriscono concetti astratti e rigidi, che poi finiscono col vivere di vita propria, indipendentemente dalla ragione che ha dato loro vita, e possono a volte generare sconquassi, soprattutto se riescono a intrufolarsi nelle massime: ne è un caso esemplare l'asserto giurisprudenziale secondo il quale gli accordi per il divorzio raggiunti al momento della separazione sono sempre radicalmente nulli, anche se la parte che ne fa valere la nullità non è quella che, stipulandoli, avrebbe rinunciato a un diritto indisponibile[10].

Il fondamento giuridico della posizione qui discussa della Corte suprema, è rimasto graniticamente costante a livello di formule astratte, ma ha subito varie evoluzioni nel corso del tempo: quasi fosse un asserto, intoccabile nella sua sacertà, al quale bisogna cercare di trovar un qualche fondamento giuridico, da rinnovare man mano che il diritto vivente cambia.

È proprio questo che mi induce a ripercorrere la storia del mutare dei suoi fondamenti, a partire da quello iniziale.

Nel precedente giudiziale più ampiamente motivato, che a lungo è stato citato come esemplare dalla giurisprudenza successiva[11], si legge anzitutto che tale accordo inciderebbe sulla condotta difensiva del coniuge che richiede l'assegno, inducendolo a non opporsi al divorzio e facendo così «oggetto di commercio lo status stesso» (sic!). La tesi della Corte aveva un minimo di base testuale nella disciplina originaria dell'art. 3 n. 2 lett. b div.: se un coniuge si opponeva al divorzio, il periodo di separazione si allungava a 6 o 7 anni, secondo i casi. Ignorava però – volutamente, data l'ovvietà della cosa – che l'opposizione al divorzio non poteva sortire l'effetto di impedirlo, ma solo di allontanarlo nel tempo di ulteriori 1 o 2 anni. «Oggetto di commercio», se proprio così ci si volesse esprimere, non era dunque lo status, ma solo la data d'inizio del processo per cambiarlo. 

Si legge poi che l'indisponibilità dell'assegno non sarebbe di per sé sufficiente per giudicare i patti nulli: si ricordi che a quel tempo (1981) era dominante l'orientamento che attribuiva all'assegno natura composita, sicché l'indisponibilità riguardava solo l'aspetto assistenziale. È importante sottolinearlo, poiché oggi, dopo la svolta delle sezioni unite del 2018, la sua natura è tornata a essere qualificata come composita, sicché l'asserto della sua indisponibilità non è più un argomento di per sé sufficiente.

La riforma del 1987, oltre a ridurre il numero di anni a 3, aveva modificato la regola previgente, rimuovendo l'effetto procrastinatore dell'eventuale opposizione di un coniuge: questa era così divenuta irrilevante. L'argomento del “mercimonio dello status“ era dunque ormai evidentemente improponibile: eppure la frasetta secondo la quale l'accordo stipulato in sede di separazione viziava o limitava la libertà di difendersi contro la pronuncia del divorzio è sopravvissuta nel linguaggio della Corte, quasi fosse una clausola di stile, senza curarsi del ridicolo che ne deriva[12]

Nelle sentenze in materia successive alla riforma del 1987 la Corte, nell'intento di confermarlo, era stata quindi costretta a cercare un nuovo fondamento giuridico credibile al suddetto orientamento: l'aveva trovato nel principio di completa indisponibilità dell'assegno di divorzio, corollario astratto della sua funzione esclusivamente assistenziale, secondo l'interpretazione data nel 1990 dalle sezioni unite all'art. 5 c. 6° l. divorzio riformato[13]. Accanto a questo aveva iniziato a comparire anche la menzione dell'art. 160 c.c., che stabilisce l'inderogabilità dei diritti e doveri che nascono dal matrimonio.

È però curioso constatare che la Corte suprema si era orientata in senso opposto nel caso della delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità: aveva considerato validi, purché giungessero a risultati conformi agli artt. 129 o 129-bis c.c., secondo i casi, gli accordi raggiunti dai coniugi in sede di separazione (ovviamente estranei al verbale di omologazione della separazione) che erano volti a disciplinare in via preventiva le conseguenze patrimoniali del futuro annullamento del matrimonio concordatario[14].

L'affermazione della necessaria conformità agli artt. 129 o 129-bis c.c. mi suggerisce di osservare che la stessa precisazione avrebbe potuto essere fatta anche a proposito degli accordi in vista del divorzio – con riferimento all'art. 5 c. 6° l. divorzio – come temperamento all'ammissione della loro validità. Ma una tale precisazione non è stata mai fatta.

La differenza tra l'orientamento sull'annullamento ecclesiastico e quello sul divorzio è comprensibile solo tenendo conto del suddetto “cordone sanitario“ steso intorno al divorzio: per ovvi motivi ideologici, nel caso della delibazione della sentenza ecclesiastica non si sentiva l'esigenza di limitare al massimo grado l'autonomia privata sulle questioni patrimoniali.

Successivamente, in seguito alla sentenza a sezioni unite del 2018, l'argomento della completa indisponibilità dell'assegno di divorzio era ormai chiaramente destituito di fondamento, sicché nella prima successiva sentenza in tema della Corte era ragionevole attendersi il cambio della sua posizione sulla nullità degli accordi: o scovando un nuovo fondamento alla loro nullità, oppure riconoscendone la validità, sottolineando poi come restasse fermo il diritto di chiedere l'assegno di divorzio, ma soltanto per la sua componente assistenziale, cioè di natura davvero alimentare e come tale irrinunciabile.

Invece le cose non sono andate in questo modo, almeno per il momento.

 

4. La ricerca del fondamento continua

La ricerca di un qualche fondamento giuridico da dare all'intoccabile asserto, man mano che quelli adottati in precedenza si sbriciolavano, si è ormai concentrata sul principio di inderogabilità dei diritti e doveri nascenti dal matrimonio, di cui all'art. 160 c.c.[15], cui si aggiunge l'argomento di autorità (“… come costantemente affermato da questa Corte …“).

Bisogna fare molta attenzione a brandire una simile norma come principio applicabile in ogni risvolto del diritto matrimoniale: si tratta – mi si permetta il traslato – di un'arma di distruzione di massa. Se preso sul serio nel suo tenore letterale, generalissimo, porterebbe per coerenza logica a conseguenze surreali: per esempio l'illegittimità della decisione stessa dei coniugi di separarsi o la nullità di qualsiasi accordo per regolare la loro separazione di fatto, o la nullità dell'accordo presentato all'ufficiale di stato civile. Sono tutti casi in cui le parti concorderebbero, appunto, la deroga a diritti indisponibili.

È noto che gli obblighi matrimoniali reciproci sono in via di principio inderogabili; o meglio, sono inderogabili i nomina, le etichette con le quali il codice sintetizza le caratteristiche salienti della relazione coniugale e ne prescrive il rispetto. Tuttavia è ormai comunemente accettato che la loro interpretazione debba adattarsi con la necessaria flessibilità alle scelte idiosincratiche dei coniugi, concordate nel determinare l'indirizzo della loro vita familiare. Non è il caso di dilungarmi oltre, trattandosi a mio avviso di ovvietà[16].

Aggiungo poi, quanto ai nomina, che la loro inderogabilità di principio può operare solo finché entrambi i coniugi si considerano vincolati, cioè fin tanto che accettano le limitazioni della loro libertà personale derivanti dal matrimonio; in altre parole, finché intendono restare uniti. Quando questa intenzione viene meno, anche per uno solo di essi, è il rapporto stesso che legava la coppia e che imponeva quelle regole di condotta a venir meno. Questo emerge con chiarezza dalla nota regola giurisprudenziale secondo la quale i doveri di carattere personale non sopravvivono alla separazione e quindi la pronuncia dell'addebito non può essere fondata sulle violazioni ti tali doveri successive alla rottura della relazione. Ed è evidente che i coniugi che concordano le regole del loro futuro divorzio non intendono più restare uniti.

Il riferimento all'art. 160 c.c., rimasto ormai l'unico fondamento proponibile, non è dunque adeguato a fondare l'orientamento criticato. Non solo, ma introduce anche un fattore di estrema rigidità, che non era presente nei diversi fondamenti affermati in precedenza: porta infatti alla conseguenza che qualunque accordo sarebbe nullo, anche se non violasse il diritto, questo sì indisponibile senza controllo giudiziale, a richiedere l'assegno di divorzio limitatamente alla sua componente assistenziale. Il risultato che ne deriva, davvero assurdo, è quello di permettere anche al coniuge più abbiente di liberarsi da obblighi volontariamente assunti: così la radicale nullità si può ritorcere a sfavore della parte per la cui protezione era stata affermata[17].

Nell'ultima – a quanto mi consta – decisione di legittimità sulla nullità dei patti è istruttivo leggere le varie massime con le quali è stata pubblicata[18]: tutte riportano come principio di diritto la regola della nullità. Ma sono tutte mentitorie. 

Se si legge il testo integrale della sentenza, infatti, si constata che la regola della nullità dei patti è un mero obiter dictum – ripetuto quasi come omaggio standardizzato all'autorità dei precedenti o supposti tali – mentre la ratio decidendi è ben diversa. Nel caso di specie le parti al momento della separazione avevano concordato la cessione dalla moglie al marito di una quota della società di cui entrambi erano soci e cui avevano dedicato la propria attività lavorativa; la cessione era senza corrispettivo e il marito si era correlativamente obbligato a versare alla moglie un assegno di divorzio; tale impegno era stato giudicato in sede di appello valido, in quanto considerato come una «forma di compenso per ciò cui aveva rinunciato» la moglie. La Corte suprema ha rigettato il ricorso del marito, intenzionato a liberarsi dell'obbligo di corrispondere l'assegno, affermando che «il giudice di secondo grado non ha applicato l'impegno contenuto nel patto come vincolante, ma ha fatto leva sul trasferimento (effettivamente avvenuto) della partecipazione»; ovvero, in altre parole, ne ha tenuto conto per determinare le condizioni economiche delle parti. Ha poi aggiunto che «non viene in rilievo la validità ed efficacia del trasferimento delle quote societarie in sede di accordo di separazione (che peraltro le parti non avevano invocato né posto in discussione); «tale trasferimento è stato, piuttosto, considerato come mero fatto presupposto quale indice probatorio del contributo della controricorrente alla formazione del patrimonio dell'ex-coniuge, al fine della funzione perequativo–compensativa».

A questo modo la Corte – come molte altre volte aveva fatto[19] – ha evitato di contraddire apertamente l'orientamento che vuole la nullità, ma lo ha aggirato, dando una decisione che evita di porre l'accordo nel nulla.

Guardando al futuro assume un'importanza fondamentale l'art. 473-bis.18 c.p.c., il quale prevede che le informazioni e le produzioni documentali incomplete, quindi in violazione delle regole sul contenuto necessario della domanda (art. 473-bis.12 c. 3° lett b), può portare ad applicare le sanzioni previste dagli gli artt. 116, 92 c. 1° e 96 c.p.c. Il dovere di informazione completa a carico dei coniugi sullo stato dei rispettivi redditi e patrimoni diventa così un aspetto fondamentale del «dovere leale di collaborazione» delle parti, come recita la rubrica della norma stessa.

In tema lascio la parola a C. Rimini: «se l’accordo è soggetto ad un controllo di equità e ad esso si applica la clausola rebus sic stantibus, è necessario che i presupposti di fatto che hanno condotto i coniugi a sottoscriverlo siano chiari e siano manifestati nell’accordo stesso. Solo una totale trasparenza sui presupposti permette ex post al tribunale di valutarne l’equità e di valutare l’opportunità di discostarsi dagli effetti pattuiti al mutare dei presupposti di fatto all’ombra dei quali l’accordo è stato raggiunto. È dunque necessario che il patto sia accompagnato da una full disclosure sulla situazione patrimoniale e reddituale di ciascuno»[20].

 

5. Per concludere: come “abrogare” una norma di origine giurisprudenziale?

Queste vicende mi suggeriscono un'osservazione di carattere generale sulle modalità di abrogazione delle norme, che può apparire paradossale in un sistema di diritto legislativo, come il nostro: le norme di fonte giurisprudenziale ­– se mi si consente questa locuzione – sono più resistenti all’abrogazione implicita da parte del legislatore rispetto a quelle di fonte legislativa.

L'abrogazione delle norme giurisprudenziali per contrarietà a nuove norme di legge – tanto più se queste sono fondate su principi nuovi, frutto di scelte di politica del diritto di rottura con il passato – ha infatti bisogno di essere più chiara e assolutamente incontrovertibile rispetto a quanto è invece richiesto per abrogare norme contenute in articoli di legge. Affinché l'abrogazione legislativa implicita di una norma giurisprudenziale risulti davvero vincolante – per contrarietà al diritto previgente – è spesso necessario che le nuove norme di legge frappongano ostacoli testuali forti, che siano a tal punto inequivocabili da impedire all'interprete, anche se volesse farlo, di mantenere fedeltà alle vecchie regole giurisprudenziali.

Mi sembra che il caso qui in esame ne sia un esempio: il legislatore ha ammesso la presentazione contestuale delle due domande, ma non ha previsto espressamente che ciò riguardasse anche la domanda presentata congiuntamente dai coniugi; così, secondo alcuni, la regola giurisprudenziale elaborata secondo il diritto previgente, benché contraddetta frontalmente dalle nuove norme, potrebbe, o dovrebbe, continuare a vivere perché non è stata espressamente cancellata.

La maggiore resistenza delle norme giurisprudenziali all'abrogazione legislativa non è una novità, né riguarda solo questo caso. Se ne incontrano molti esempi: per limitarsi al campo del diritto familiare, ne cito due, riguardanti novità introdotte dalla riforma del 1975.

L'art. 155 c.c. aveva stabilito in modo espresso un criterio da seguire per decidere l'affidamento dei figli, mentre prima la legge non ne indicava alcuno: si doveva fare «esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale» della prole. Con l'inserzione dell'aggettivo esclusivo restava espressamente preclusa la possibilità di ricorrere ad altri criteri, spesso impiegati in precedenza, come quello della colpa nella separazione. Nell'atmosfera culturale di 50 anni fa è facile previsione che, senza l'aggettivo esclusivo, il criterio della colpa avrebbe continuato a essere seguito, in alternativa con quello dell'interesse del minore; così era invece esplicitamente abrogato.

L'art. 151 c.c. aveva stabilito che «il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione». La contestualità fra la pronuncia della separazione e la pronuncia dell'addebito è un dato letterale evidente. Avrebbe dovuto conseguirne che l'addebito non può essere pronunciato se non con la sentenza che pronuncia la separazione, come giustamente affermato nel primo autorevole commento dottrinale sul punto[21]. Da ciò la conseguenza logica che il mutamento del titolo della separazione[22], antica regola di fonte giurisprudenziale, non sarebbe più stato ammissibile. Tuttavia la Corte suprema aveva continuato per 20 anni a ritenerlo ammissibile, benché incompatibile con  il nuovo testo normativo: ciò perché la sua cancellazione non era stata prevista espressamente e perché l'ostacolo testuale a mantenerlo in vita la regola non le appariva abbastanza inequivocabile per imporne l'abbandono.

 


 
[1] Vd., fra le molte, Cass., 24 dicembre 2014, n. 27386.

[2] Per la disamina degli aspetti più specificamente processuali rinvio a F. Danovi, Per l’ammissibilità della domanda congiunta (cumulata) di separazione e divorzio (prime riflessioni nell’era della riforma Cartabia), in Fam. dir., 2023, 487.

[3] Concorde F. Danovi (Per l’ammissibilità, cit., 493): «nel momento in cui si concede alle parti di individuare un impianto comune tanto sulla separazione quanto sul divorzio, di fatto già si riconosce ai coniugi il potere di disporre in forma consensuale delle conseguenze della fine del loro rapporto in un momento in cui lo stesso è per l’ordinamento ancora pienamente vitale e operativo». Concordi pure F. Tommaseo, Riforma Cartabia e domanda cumulata congiunta di separazione e divorzio: i tribunali di Milano e di Firenze, in QG Altalex, 24 maggio 2023; M. Paladini, Il simultaneus processus di separazione e divorzio, in La riforma del processo e del giudice per le persone, per i minorenni e per le famiglie. Il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, a cura di C. Cecchella, Torino, 2023, 54. Opposta la posizione di C. Cecchella, in QG Altalex, 24 maggio 2023; di R. Donzelli, Il problema del cumulo delle domande di separazione e divorzio nel procedimento su ricorso congiunto, in Judicium, 2023.

[4] In questo senso vd. Trib. Milano, 5 maggio 2023, in ilcaso.it, pronunciando la separazione consensuale, considera ammissibile la domanda di divorzio presentata contestualmente dalle parti in forma congiunta. Concordi, a quanto sembra, i tribunali di Bolzano, Genova, Lamezia Terme, Modena, Rovigo, Vercelli; di opposto avviso.

[5] In questo senso vd. Trib. Firenze, 15 maggio 2023 (camera di consiglio, ined.); concordi i tribunali di Bari e Padova. L'argomento ubi lex dixit (etc.) che si legge nella sentenza fiorentina – sempre di per sé debolissimo – può facilmente essere rivoltato in senso opposto: l'art. 473-bis.51 non richiama espressamente l'art. 473-bis.49 perché la formulazione di quest'ultimo ha portata generale, non contenendo specifiche esclusioni, e si applica quindi direttamente ai procedimenti a domanda congiunta; e non per analogia, come opina invece Donzelli, Il problema del cumulo, cit.; per di più va ricordato che il tutto si iscrive nella scelta di politica legislativa di rapidità, semplificazione e snellimento dei processi. Sull'altro argomento accolto dal tribunale di Firenze, il principio di indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, rinvio alla trattazione successiva, in particolare al § 4.

[6] Trib. Treviso, 31 maggio 2023, camera di consiglio, ined.; da questa ordinanza ho tratto i dati sugli orientamenti di alcuni tribunali riportati sopra alle note 4 e 5; com'è ovvio, sono dati parziali e suscettibili di cambiare di giorno in giorno.

[7] Per le quali rinvio alla dottrina citata alla nota 3 e riassunta nell'ordinanza del tribunale di Treviso, cit.

[8] Sul dovere di ciascun coniuge di fornire informazioni economiche veritiere e complete vd. sotto, § 4.

[9] Così Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064 (corsivi miei).

[10] Vd. Cass., 26 aprile 2021, n. 11012, con commento di C. Rimini, in Fam. dir., 2021, 887, fortemente critico; di C. Irti, Sulla nullità degli accordi conclusi dai coniugi separati in vista del divorzio, in Giur. it., 2022, 593; di A. Caravita di Toritto, Accordi in vista della crisi familiare: contemperamento del tradizionale divieto con alcune ipotesi di validità, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 1303.

[11] Cass., sez. un., 11 giugno 1981, n. 3777 (est. Borruso), in Foro it., 1982, I, 184, e in Giur. it., 1982, I, 1, 1553. Il fraseggiare della sentenza – che raccomando di rileggere con l'occhio d'oggi – è palesemente dominato dal principio indissolubilista, quasi fosse ancora vigente, e dal chiaro fine di stendere un saldo “cordone sanitario” intorno al divorzio. Vi si legge tra l'altro che questo il divorzio rappresenterebbe un serio «vulnus potenziale» per l'istituto della famiglia, sicché lo spazio lasciato all'autonomia privata dovrebbe essere quanto più ridotto possibile. Ovvero: il corpo estraneo – il divorzio – va tenuto chiuso in una gabbia ben stretta.

[12] Un elenco, certo incompleto, di sentenze successive che la riportano: 7 settembre 1995, n. 9416; 20 febbraio 1996, n. 1315; 20 marzo 1998, n. 2955; 18 febbraio 2000, n. 1810; 30 gennaio 2017, n. 2224; 28 giugno 2022, n. 20745, sulla quale ritornerò in seguito.

[13] Vd. Cass., sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490.

[14] Vd. Cass. 13 gennaio 1993, n. 348, unica sentenza di legittimità in tema che mi consti. Secondo la Corte nel procedimento giudiziario davanti al giudice ecclesiastico la volontà delle parti non avrebbe un rilievo decisivo, date le sue «forti connotazioni inquisitorie», e la mancanza di «ogni potere negoziale di disposizione dello status» (sic), a differenza del caso del divorzio. Eppure secondo quanto altrove affermato dalla Corte stessa, l'opposizione alla delibazione un effetto lo produceva, e tutt'altro che irrilevante: incideva sia sulla delibabilità stessa nei casi di riserva mentale, sia sul processo, ivi imponendo la trasformazione dal rito di volontaria giurisdizione a quello contenzioso, nel quale la parte interessata poteva far valere gli eventuali ostacoli alla delibazione.

[15] Ritenere che tale norma riguardi anche gli obblighi di carattere personale, benché consentito dal suo tenore letterale, implica però di doverne forzosamente ignorare sia la storia, sia la collocazione sistematica: entrambe indicano in modo chiaro che si riferisce soltanto ai regimi patrimoniali.

[16] In proposito vd. il mio Diritto della famiglia, Giuffrè, 2021, 425 sgg. (in part. 435 sgg.).

[17] Sull'art. 160 c.c. vd., da ultimo, C. Rimini, I patti in vista del divorzio, cit., che giustamente rifiuta di considerarlo come «un dogma assoluto».

[18] Si tratta di Cass., 28 giugno 2022, n. 20745 (sez. VI-1); le massime sono reperibili in Leggi d'Italia professionale, banca dati Repertorio di giurisprudenza.

[19] Qualche esempio: Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, 21 febbraio 2001, n. 2492, 21 dicembre 2012, n. 23713.

[20] Così C. Rimini, I patti, cit., 895, ove sottolinea l'importanza fondamentale che ha negli ordinamenti di matrice anglosassone l'obbligo delle parti di piena disclosure.

[21] Vd. C. Grassetti, sub artt. 150 - 151, in Comm. Carraro-Oppo-Trabucchi, Cedam, 1977, I, 293; Id., sub artt. 150 - 151, in Comm. Cian-Oppo-Trabucchi, Cedam, 1992, II, 689.

[22] Per mutamento del titolo si intendeva la pronuncia di una nuova separazione fra coniugi già legalmente separati e non riconciliati, addebitata a quel coniuge che dopo la separazione legale aveva tenuto condotte contrarie ai doveri nascenti dal matrimonio non incompatibili con lo stato di separazione legale. Questo orientamento della giurisprudenza di legittimità era stato capovolto da Cass., 7 dicembre 1994, n. 10512 (est. Luccioli).

13/06/2023
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