Abbiamo chiesto a un avvocato, un docente universitario e tre magistrati di rispondere ad alcune domande sullo stato della giustizia del lavoro. La sintesi del forum è pubblicata sul numero 4/2014 della rivista trimestrale, attualmente in distribuzione. Qui pubblicheremo le risposte integrali: di seguito il terzo contributo.
Come neo magistrato, al termine del tirocinio mirato presso la sezione lavoro del Tribunale di Torino e prossima alla presa di funzioni presso la sezione lavoro del Tribunale di Milano, posso solo svolgere qualche breve riflessione sulla mia recente esperienza.
Innanzitutto, ciò che più mi ha colpito è il progressivo allontanarsi di questa materia dal disegno costituzionale e di come questo percorso sia sempre più rapido: quando ho sostenuto l’orale del concorso in magistratura (26 giugno 2014) non era ancora stata approvata la legge Fornero e alla fine del tirocinio è stato promulgato il cd Jobs act. Nel giro di questi due anni l’articolo 18, uno dei perni del diritto del lavoro moderno, ha subito diverse trasformazioni e la regolamentazione del mondo del lavoro è stata al centro del dibattito politico.
Essendo entrata in magistratura con una formazione prettamente teorica e pubblicistica, avevo l’idea del lavoro come strumento di emancipazione, espressione di sé e della propria autonomia intellettuale ed economica, come mezzo con cui l’individuo possa realizzarsi e possa assicurare a sé, e alla propria famiglia, una vita libera e dignitosa. Avevo anche ben presente il sistema costituzionale, che disegna un sistema giuridico che si fonda sul riconoscimento e sulla tutela dei diritti fondamentali e si pone come obiettivo quello di dominare il sistema economico, per convogliarlo verso il raggiungimento di fini di equità sociale.
Avevo dunque in mente i quattro principi fondamentali del diritto del lavoro, ossia la definizione del contratto a tempo indeterminato come regola generale del rapporto di lavoro; l’inderogabilità delle tutele accordate in sede legislativa, così da impedire alla parte forte di far accettare a quella debole, in sede di stipula del contratto, condizioni inique; l’affermazione della proporzionalità tra inadempimento del lavoratore e reazione del datore e conseguente controllabilità del modo in cui il datore di lavoro esercita questo potere; l’esistenza di un giudice ad hoc, che applica un rito veloce e snello, che ha poteri ulteriori rispetto al giudice civile e che, pur arbitro imparziale tra le parti, è capace di comprendere la diversa capacità di resistenza economica, e dunque processuale, tra le parti, così da svolgere un concreto ruolo promozionale delle garanzie individuali.
Nel corso del tirocinio, mi sono imbattuta in una realtà diversa, dove quelle che dovrebbero essere eccezioni si sono trasformate in regole: da un lato è evidente la frammentazione del lavoro, attraverso la creazione di nuove e sempre più diffuse forme contrattuali, dai contratti di formazione e lavoro, a quelli di apprendistato, dalla galassia del parasubordinato al contratto di somministrazione di mano d’opera. Quest’ultimo è, a mio giudizio, il più sintomatico dei tempi attuali, perché spezza il rapporto diretto tra lavoratore e fruitore della prestazione, che diviene solo più utilizzatore, e perché contribuisce a formare, anche plasticamente, l’idea di come il lavoro sia ormai solo una merce.
Dall’altro lato vi è una chiara volontà di far venire meno la rigidità e l’inderogabilità delle regole, con la conseguenza che la parte più debole in sede di stipulazione del contratto si vede costretta ad accettare – pur di avere un lavoro – condizioni che altrimenti non accetterebbe.
Il tutto viene accompagnato da una sempre maggiore insofferenza rispetto al ruolo di garanzia del giudice del lavoro, al quale si chiede di abbandonare un controllo sostanziale, interno, per porne in essere uno meramente formale ed esterno. E al quale si chiede di non intromettersi in scelte dettate dalla situazione economica contingente, che viene posta a giustificazione di scelte imprenditoriali che incidono pesantemente sui diritti, non solo economici, dei lavoratori, e che si pretende siano esenti da qualunque controllo giurisdizionale.
Un’ultima riflessione merita di essere fatta sul condizionamento che la precarietà ha sui processi: a mio parere questo condizionamento si nota soprattutto nella fase di accesso alla giustizia.
Nella mia breve esperienza nessun lavoratore precario che veda leso un proprio diritto si rivolge al giudice, ma attende, al massimo, che il rapporto sia cessato. Il motivo è ovvio, ossia la paura che la conseguenza per la rivendicazione di un proprio diritto sia la decisione del datore di lavoro di interrompere il rapporto. È di tutta evidenza che tanto i lavoratori chiedono la tutela e l’attuazione dei propri diritti quanto non temono che la reazione datoriale possa essere il licenziamento.
In caso di contratto a tempo indeterminato questa tutela è rappresentata dalle garanzie, sostanziali e procedurali, che sono legislativamente poste a tutela della correttezza del licenziamento; nel caso di contratto a tempo determinato al datore di lavoro basterebbe attendere la fine del contratto per poi non rinnovarlo al lavoratore “scomodo”, con la conseguenza che nessun lavoratore assunto con contratto a termine ricorre al Giudice, in pendenza del contratto, qualora i suoi diritti vengano lesi.
Fino a quando i contratti a tempo indeterminato erano la maggioranza, anche chi era assunto con contratti a termine era comunque più garantito, perché poteva beneficiare delle rivendicazioni fatte da coloro che, proprio perché maggiormente tutelati, potevano, in sede di lotte sindacali o con il ricorso all’Autorità giudiziaria, chiedere l’effettivo rispetto dei diritti.
Aumentare il ricorso al contratto a termine, renderlo la regola anzi che l’eccezione, significa diminuire le tutele di tutti, perché ci saranno sempre meno lavoratori in grado di opporsi a scelte datoriali lesive dei propri diritti.