Il 26 febbraio 2013 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha emesso la sentenza nel caso Åkerberg Fransson (C-617/10). Questa pronuncia era attesa vista l’importanza di uno dei punti che la Corte era chiamata a dirimere: l’applicabilità della Carta dei Diritti Fondamentali della UE (la Carta) alle misure statali. Non è un caso che, a poche settimane di distanza, la Corte Costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht, BvG) abbia reagito con una pronuncia che cerca di limitare la portata della motivazione della sentenza Fransson.
La posta in palio, sottostante alle questioni tecniche di cui si dà conto nel prosieguo, è la definizione delle competenze reciproche dell’Unione e degli stati membri in materia di protezione dei diritti fondamentali. In Fransson, la Corte ha risposto ai quesiti di una corte distrettuale svedese sollevati, ex art. 267 TFEU, durante un procedimento penale per reati fiscali. L’imputato, accusato di aver fornito false dichiarazioni nella dichiarazione dei redditi, aveva contestato l’apertura del procedimento penale a suo carico osservando che, in relazione alle stesse condotte addebitategli in quella sede, gli era stata già comminata una sanzione pecuniaria dall’autorità fiscale. L’incriminazione, successiva alla sanzione pecuniaria, avrebbe perciò avuto l’effetto di violare il principio di ne bis in idem, garantito sia dalla CEDU che dalla Carta EU. La corte distrettuale ha chiesto alla CGUE se la Carta potesse applicarsi alle misure nazionali in questione, che permettevano il cumulo delle sanzioni per le stesse infrazioni.
La risoluzione del quesito dipende essenzialmente dall’interpretazione dell’art. 51(1) della Carta stessa, che ne precisa il campo di applicazione: “Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell'Unione …, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell'Unione”. Occorreva perciò valutare se le disposizioni rilevanti del sistema sanzionatorio svedese potessero costituire un esempio di “attuazione del diritto UE” da parte della Svezia. In caso contrario, ai sensi dell’art. 51(2), l’ applicazione della Carta sarebbe esclusa, poiché essa non può estendere il novero delle competenze attribuite all’Unione. In altre parole, la Carta si applica solo alle misure statali che attuano il diritto UE basato su un fondamento giuridico diverso dalla Carta stessa, in conformità con il principio di attribuzione.
La ratio dell’applicazione della Carta alle misure statali tratteggiata nell’art. 51 della Carta è chiaro. Quando lo stato membro operi in veste di agente dell’UE, dovrà considerarsi vincolato dagli stessi principi che limitano l’attività dell’Unione, incluse le norme della Carta e i principi generali dell’ordinamento UE, tra i quali son fatti rientrare i diritti fondamentali da ben prima che la Carta fosse adottata (nel 2000) o entrasse in vigore come strumento vincolante (nel 2009).
Il concetto di attuazione, tuttavia, è rimasto a lungo privo di contorni precisi. La sua definizione non è una necessità suscitata dall’entrata in vigore della Carta, ma un tema consueto già nella giurisprudenza relativa all’applicazione dei principi generali dell’ordinamento UE. La CGUE, basandosi sul modello di “agenzia” tratteggiato sopra, ha chiarito che i principi generali dell’UE vincolano gli stati membri quando essi traspongono obblighi derivanti dal diritto UE (caso Wachauf) ma anche quando adottano misure in deroga a tali obblighi (ERT), che la deroga sia concessa in virtù di una clausola espressa (come l’art. 36 TFEU), della protezione di un interesse generale (Familiapress) o di un’esigenza imperativa (Cassis).
In Annibaldi (C-309/96), la Corte ha chiarito che il concetto di “attuazione” non copre solo i casi di diretta implementazione del diritto UE (ad esempio, quando lo stato trasponga una direttiva per mezzo di misure statali), ma ogni caso in cui la misura statale “entra nel campo di applicazione del diritto comunitario”. Questa formula determina uno slittamento del parametro, che da soggettivo (lo stato intende attuare le obbligazioni UE) diventa oggettivo (la misura statale opera nel campo di applicazione del diritto UE) e quindi comporta l’applicazione dei principi (e, poi, della Carta) a un insieme piùampio di misure statali. L’unica salvaguardia contro l’estensione arbitraria di questo criterio di collegamento è identificata dalla Corte, sempre in Annibaldi, nelle ipotesi in cui la norma statale “non abbia lo scopo di applicare una disposizione di diritto comunitario … e sia diretta a scopi diversi da quelli perseguiti dalla [disciplina UE]”. In tale ipotesi, anche se la norma statale“può incidere indirettamente” sul campo di applicazione del diritto UE, il legame non è sufficiente solido da determinare l’applicazione dei principi generali, o della Carta.
In Fransson la CGUE ha ignorato l’invito dell’Avvocato Generale a chiarire l’interpretazione dell’art. 51(1) della Cartaricercando l’“interesse specifico” dell’Unione a che una materia, pur rimessa all’implementazione statale, debba conformarsi ai principi che vincolano l’azione dell’Unione, anche in tema di diritti fondamentali. Questo criterio, nelle intenzioni dell’Avvocato, avrebbe permesso di decidere in quali casi il legame tra la misura statale e il diritto UE giustifica la sottomissione del primo ai parametri propri del secondo. In mancanza di tale interesse specifico, un legame occasionale o remoto con il diritto UE non basterebbe a legittimare l’applicazione della Carta.
La Corte, invece, ha deciso di attenersi al criterio dell’attuazione e alla sua giurisprudenza in materia di principi generali, tratteggiata sopra. Ha perciò osservato che le leggi svedesi in materia di reati fiscali sono finalizzate a garantire l’integrità del gettito fiscale da parte dei contribuenti, in termini di tassa sul reddito e IVA. Nella misura in cui le norme punitive assicurano un livello adeguato di deterrenza contro le pratiche evasive che riguardano l’esazione dell’IVA, esse contribuiscono direttamente alla corretta raccolta dei fondi che contribuiscono al bilancio dell’Unione, di cui l’IVA è una della maggiori voci.
In definitiva, la Corte ha individuato le disposizioni del diritto UE che concretizzano la funzione di “attuazione” del regime svedese in alcune norme della direttiva 112/2006 (relativa al sistema comune sull’IVA) e nell’art. 325 TFUE (che impone agli stati membri di combattere con misure dissuasive le “attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione”). Così facendo, la Corte ha sancito l’applicazione della Carta, rimettendo al giudice a quo il compito di valutare se effettivamente si sia verificata una violazione del ne bis in idem(il che dipende essenzialmente dalla qualifica come penale, invece che amministrativa, della prima sanzione pecuniaria).
La pronuncia della Corte, seppur non innovativa, presenta alcuni passaggi discutibili. Anzitutto essa fa continuo riferimento all’intenzione del legislatore svedese, a esempio quando nota che la disposizione in esame “mira a sanzionare una violazione” della direttiva. Si è visto come sin da Annibaldi il criterio scelto non sia quello soggettivo, ma quello oggettivo. D’altronde,sembrano malriposti i tentativi di identificare l’intenzione del legislatore svedese di attuare il diritto UE, se non altro visto che le norme in questione precedono nel tempo l’ingresso della Svezia nell’Unione, avvenuto nel 1995. Pertanto, se è vero che le norme nazionali incidono sul campo di applicazione del diritto UE, sarebbe una forzatura considerare questa sovrapposizione il frutto di un disegno legislativo. Questo fraintendimento semantico, come si vede sotto, è tutt’altro che innocuo.
Infatti, la Corte Costituzionale tedesca, il BvG, ha chiarito la propria posizione in una sentenza pubblicata il 24 aprile 2013, poche settimane dopo la decisione in Fransson, che è espressamente richiamata. In questa pronuncia, il BvG protestain maniera decisa contro l’approccio oggettivo della CGUE che finirebbe per determinare l’applicazione della Carta a tutte le misure statali che, anche per accidente, si trovino a dispiegare i propri effetti nel campo di applicazione del diritto UE. Per corroborare la propria posizione, il BvG fa leva sulla svista terminologica di Fransson (che considera l’“intenzione” un elemento chiave) per negare l’applicazione della Carta alla legislazione tedsca in questione. L’atto all’esame dal BvG era lalegge statale che ha disposto in Germania la creazione di undatabase anti-terrorismo, capace di garantire e regolare lo scambio di informazioni personali, raccolte in un archivio unico,tra le autorità pubbliche di polizia e i servizi segreti. I ricorrenti lamentavano la supposta violazione del diritto di privacy dei soggetti le cui informazioni personali confluiscono in questo archivio e sono perciò soggette allo scambio tra autorità statali ai fini di una migliore opposizione ai fenomeni di criminalità organizzata e terrorismo.
Il BvG ha respinto la questione di incostituzionalità sulla legge, salvo per alcune sue disposizioni di dettaglio, che non garantivano la protezione necessaria dei soggetti interessati.Tuttavia, prima di esaminare la compatibilità della legge con la Grundgesetz, il BvG ha dovuto esaminare la possibilità che la legge dovessere valutarsi anche alla luce dei parametri inclusi nella Carta UE. Tale obbligo dipendeva, come osservato sopra, dalla possibilità di sostenere che la legge tedesca è attuativa, in qualche modo, del diritto UE, ai sensi dell’art. 51(1) della Carta.
Il BvG ha escluso con veemenza questa possibilità, ricordando che la norma statale era finalizzata al perseguimento di obiettivi determinati a livello esclusivamente statale e che la sua applicazione poteva solo in parte interessare l’area di applicazione del diritto UE. Pertanto, il compito di valutarne la compatibilità con le garanzie di protezione dei diritti fondamentali non spetta alla CGUE ma al BvG stesso, e tale esame deve adottare esclusivamente la costituzione come parametro. In tal modo, il BvG ha espressamente richiamato la sentenza Fransson per darne un’interpretazione ristrettiva, e così evitare che essa debba ritenersi una decisione ultra vires del tipo paventato nelle precedenti pronunce Lissabon Urteil (2009) eHoneywell (2010). In questi precedenti, il BvG avevaconfermato la sua collaborazione di massima con il progetto di integrazione europea, rifiutandosi di valutare le questioni di costituzionalità sollevate sugli atti dell’Unione. Tale rassicurazione rappresentava un’applicazione dei principi già espressi nella giurisprudenza Solange, secondo cui l’unica ipotesi in cui il BvG potrebbe scrutinare l’azione dell’UE è quando quest’ultimo appaia in grado di minacciare il nucleo dei valori costituzionali tedeschi (un’ipotesi-limite analoga a quella che presuppone il ricorso ai contro-limiti da parte della Corte Costituzionale italiana).
In sintesi, il BvG ha spiegato che la motivazione della sentenza Fransson non poteva applicarsi al caso della legge tedesca, perché un’interpretazione diversa avrebbe comportanto un attentato al principio di attribuzione e perciò avrebbe richiesto da parte della corte tedesca una denuncia della decisione della CGUE. Per scongiurare questo rischio, il BvG ha perciò compiuto un esercizio di interpretazione conforme inversa, spiegando cioè quale interpretazione di Fransson deve preferirsi, per evitare un conflitto insanabile con la costituzione tedesca.
Il ragionamento della corte tedesca presenta alcuni punti poco chiari. Il BvG invoca a sostegno della propria tesi l’eccezione formulata dalla CGUE in Annibaldi (vedi sopra). Non è però del tutto chiaro perché essa dovrebbe applicarsi. L’elemento essenziale del caso Annibaldi era la differenza tra l’obiettivo della normativa statale (la protezione del patrimonio ambientale archeologico) e quella comunitaria (sull’organizzazione comune dei mercati agricoli). Nel caso tedesco, invece, lo scopo della legge è quello di favorire l’operazione delle operazioni di indagine sulle attività delle organizzazioni criminali tramite l’utilizzo controllato di informazioni personali. Questo obiettivo è alla base anche della legislazione UE, si pensi alla direttiva 95/46 sul trattamento dei dati personali e soprattutto alla direttiva 2006/24 riguardante la conservazione di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica. Qualora si voglia sostenere che queste norme presentano anche un altro obiettivo, quello di armonizzare le legislazioni statali al fine di favorire l’integrazione del mercato interno, basti aggiungere che, in ogni caso, sta per essere approvata una nuova direttiva PNR (Passenger Name Record) che include tra i propri obiettivi dichiarati quello di prevenire,investigare e punire crimini gravi e di natura terroristica, tramite l’istitutuzione di un archivio di informazioni personali. È quindi ragionevole sostenere che il campo di applicazione del diritto UE sarà presto definitivamente sovrapponibile a quello della legge tedesca, anche ove non lo fosse già adesso.
In ultima analisi, la pronuncia della BvG appare animata più che altro dall’intenzione di lanciare un segnale alla Corte di Lussemburgo all’indomani di una coppia di sentenze (Franssone Melloni) che sembrano sancire l’inesorabile processo di marginalizzazione dei tribunali costituzionali nazionali anche rispetto a una loro prerogativa storica: l’esame della normativa statale finalizzato alla salvaguardia delle garanzie minime di protezione dei diritti fondamentali. Alcuni passggi confusi della sentenza Fransson (l’uso indiscriminato di norme UE più o meno generiche che dovrebbero comprovare il legame “attuativo”, l’uso di termini riferibili al campo semantico delle intenzioni soggettive) favoriscono la sua interpretazione strumentale. Il BvG ne ha approfittato immediatamente per limitare i danni e chiarire che Fransson non può utilizzarsi come piattaforma per una giurisprudenza che, in maniera surrettizia, estenda l’applicazione della Carta a tutte le misure statali che abbiano un qualsiasi legame, persino accidentale, con il diritto UE.