Riaccade, dopo C’è ancora domani di Paola Cortellesi, di trovarsi in una sala stracolma a vedere Diamanti di Ferzan Özpetek, con un continuo afflusso di pubblico dopo più di tre settimane dalla prima del film. Una sala, ancora una volta, popolata soprattutto da un pubblico prevalente femminile.
Entrambi film che, nella loro diversità, pongono l’universo femminile al centro del loro narrare.
Della Cortellesi ho già scritto.
Özpetek lo fa in una rappresentazione corale e con un cast eccezionale. Diciotto attrici che nella diversità dei loro ruoli, primari o limitati anche solo a poche battute, riescono a essere tutte essenziali nel rappresentare le diverse vicende umane che il regista descrive su due diversi piani narrativi: il presente in cui il Özpetek chiama a recitare le attrici con cui ama lavorare e con cui si confronta sulla trama appena scritta in una meravigliosa terrazza romana, dove una scoppiettante Geppi Cucciari definisce il progetto come rivolto a un “vaginodromo”; il passato, ambientato negli anni ‘70, all’interno della sartoria Canova, dove una comunità di donne, quasi una famiglia, si trova unita nella realizzazione dei costumi per un film ambientato nel ‘700 e dove la costumista Bianca Vega (interpretata da una bravissima Vanessa Scalera), che si sente sempre inadeguata e in lotta continua con le paturnie dell’esigente regista e premio Oscar (Stefano Accorsi), ricorda che «Il costume non deve solo vestire il personaggio. Deve permettere all’attrice di entrare nel personaggio».
Tra broccati e merletti, con in sottofondo il rumore delle macchine da cucire, si susseguono le diverse storie di vita delle donne che lavorano nella sartoria, e grazie alla condivisione e al sostegno che ognuna riceve da questo straordinario mondo femminile, finiscono per diventare più lievi anche quelle più drammatiche, e alcune anche a trovare una soluzione, perché è la forza delle donne, la loro resilienza, la loro sorellanza che consente a tutte di andare avanti e di ricominciare.
Una forza e un coraggio ben racchiuse in due stupende frasi che Özpetek fa recitare alle sue attrici: «Non siamo niente ma siamo tutto»
«Siamo formichine, sembra che non contiamo, ma tutte insieme facciamo grandi cose…siamo diamanti».
In un insieme di visi, di sguardi e costumi diversi come le storie che esse raccontano, vengono all’evidenza alcune grandi questioni che abitano il mondo femminile e che ci interrogano sul loro rapporto con la società; temi che a partire dagli anni ‘70 fino ai nostri giorni rimangono attuali e in parte continuano a non ricevere risposte adeguate: la violenza familiare, il senso di colpa per la posizione di successo raggiunta, le difficoltà esistenziali dei figli adolescenti, le scarse risorse economiche delle donne rimaste sole e la ricerca della necessaria compatibilità tra il dovere di cura e lo svolgimento dell’attività lavorativa, i traumi familiari e i dolori irrisolti.
Personaggi che scorrono, si accavallano, si intrecciano, in questo ambiente lavorativo fatto di estrema precisione, la sartoria Canova («Qui siamo un noi e il nostro lavoro è fatto di dettagli»), gestita dalle sorelle Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca) tra loro molto diverse, una indurita da una storia di amore giovanile sfumata, l’altra che continua ad affogare nel dolore per la perdita della figlia adolescente, che si ritrovano però sul finale del film accumunate dalla forza del loro amore di sorelle e da quello per la sartoria e per la possibilità di riscatto che riescono a offrire a tutte le lavoranti e anche a loro stesse.
Di tutte queste donne si prende cura Silvana (Mara Venier), con una interpretazione straordinariamente sorprendete, sembra di ascoltare i racconti di Simonetta Agnello Hornby, con la cura e la generosità che il cibo, descritto in Un filo d’Olio nei suoi più piccoli particolari, regala. Perché è il cibo, come sottolinea la scrittrice siciliana, che accoglie tutti e che radica nelle persone un fortissimo e duraturo senso di identità.
Una figura, quella di Silvana, ex ballerina, rappresentata con quell’essere dimessa che ne esalta il ruolo e la generosità che solo le mamme sanno regalare con le loro azioni quotidiane cariche di affetto: «non è necessario vedersi quando ci si vuole bene».
Un ruolo che si sviluppa dall’accudimento giornaliero di Alberta fino alla preparazione delle pietanze per l’annuale pranzo festoso della sartoria dove tutte si ritrovano, dove tutto è scelto con la massima attenzione, dalla tovaglia rosa diamante, colore ottenuto dall’impegno ostinato di Carlotta (Nicole Grimaudo), fino all’abbondante menù preparato da Silvana, per nulla preoccupata dall’aumentare degli invitati. Dove si incontrano le diverse anime del cinema (Kasia Smutniak) e del teatro (Carla Signoris), riconoscendosi e apprezzandosi reciprocamente.
E’ in quel momento che le donne, in un incrocio di sguardi e con un obiettivo comune, decidono di dar vita alla loro creazione finale, a ciò che le rappresenta: l’abito di colore rosso. Una rappresentazione onirica che rimanda alla capacità delle donne di ritrovare proprio nell’essere collettivo la forza, la creatività e il riscatto.
All’esaltazione delle donne, i diamanti che non si spezzano, si unisce, per Özpetek, l’amore per il Cinema, un luogo, come recita Elena Sofia Ricci nella parte finale del film in cui «il cuore mescola continuamente cosa è successo con quello che abbiamo solo immaginato, i vivi con i morti, il visibile con l’invisibile, l’amore con il dolore. Quello che siamo va oltre la memoria e la vita. E’ ciò che rimane quando tutto il resto sparisce. Questa è l’eternità. Questo è il cinema».
In una sala ricca di emozioni, intime, delicate, potenti, in parte espresse con un timido applauso finale, quasi a non voler disturbare, in parte custodite nel proprio cuore ma che traspaiono nelle parole appena sussurrate e nei sorrisi scambiati all’uscita tra amiche, tra coppie, tra madri e figlie, ecco che, sui titoli di coda, appare la dedica finale del film «A Virna Lisi, Mariangela Melato e Monica Vitti», che richiama, in modo magistrale, l’unione tra la figura delle donne/diamanti splendenti e resilienti e il loro essere attrici indimenticabili.
E allora che nell’uscire mi sono ritornate in mente alcune delle frasi appena recitate: «Me lo hai insegnato tu, che conta solo ciò che resta dentro di noi. Il cuore mescola continuamente ciò che è successo con quello che abbiamo solo immaginato»; «Ovunque sia lo sguardo, la donna punta sempre verso il cielo, verso l’alto, verso quello che non può vedere…però lo sentiamo. Noi siamo collegate con le stelle, per questo sentiamo tutto».
Si esce dalla sala con la rinnovata consapevolezza, già vissuta dopo la visione del film di Paola Cortellesi, che il mondo femminile, ben rappresentato dalle stupende voci di Mina e Giorgia, ha la capacità di essere una forza corale che consente di superare le difficoltà e i dolori della vita per ricominciare.