Il mutato ruolo del penale nella società contemporanea
Il diritto penale ha oggi un ruolo crescente, e anzi debordante, nel dibattito pubblico, politico e massmediatico, che era impensabile solo qualche lustro addietro. Il suo uso e abuso politico, il suo significato generalpreventivo centrale e sostitutivo dell’etica pubblica («se non è penale si può fare», «se non è penale non c’è tutela»), la sua pervasività nella vita di tutti non hanno però una corrispondente affermazione sul piano dell’importanza culturale della nostra disciplina e del ruolo dei suoi esponenti. Il penale è discusso, “rappresentato” nel dibattito generale da politici, giornalisti, magistrati, avvocati, persino da giuristi non penalisti e solo in misura esigua da professori del settore. Anche se non si può dire che si tratti di discussioni tra incompetenti – pur se varie volte ciò accade – in ogni caso manca la voce di chi studia professionalmente questa materia.
A tutto ciò si aggiunge, in action, il ruolo del processo penale: una macchina da guerra, scassata, ma spesso maligna, dove le norme sono vissute, persino dai giudici e non solo dai pubblici ministeri, non come premesse di un (per quanto provvisorio) sillogismo giudiziale, ma come strumenti di lotta contro fenomeni generali. Ciò che accade non solo nei processi di criminalità organizzata, ma in tantissimi processi “normali”, ormai.
I limiti e il punto di vista di una associazione di studiosi
Nel contesto descritto un’Associazione come quella dei professori di diritto penale non può restare indifferente e limitare il suo impegno alle ordinarie anche se importanti e dispendiose attività di organizzazione di un convegno annuale (frequentato soprattutto dai suoi soci) e di confronto con gli organismi della burocrazia accademica nazionale (Anvur, Cun, Miur, Casag, etc.).
Nello stesso tempo, una associazione di studiosi non è il Csm, non è l’Anm, non è una corrente della magistratura, né riflette le posizioni e le “parti” rappresentate da organismi come le Camere penali o il Cnf. Il suo punto di vista non è declinato attraverso la tutela di interessi di qualche attore del processo. La sua visibilità peraltro – forse anche proprio per questo – è attualmente modestissima.
Sugli spazi di presenza pubblica di una associazione di docenti e studiosi di diritto penale occorre essere oggi più sensibili e avvertiti. Necessità e limiti di questo intervento devono essere oggetto di riflessione, anche in relazione ai poteri di rappresentanza del direttivo (e del Presidente) e alle forme di coinvolgimento dell’assemblea e comunque dei soci, magari preoccupati di una “politicizzazione” che travalichi il ruolo e le stesse capacità autorizzati dalla veste “scientifica” che si ricopre, o del rischio di strumentalizzazioni personalistiche della struttura associativa.
Uniti sui principi, ci si divide di più sulla loro applicazione concreta e sui casi di attualità. Di qui la difficoltà di esprimere o di prevenire divisioni inevitabili proprio su quei casi: perché il ruolo dello studioso è innanzitutto di informare, e anche di contribuire alla tutela dei diritti, ma non quello di tutelare una parte; anzi, è quello di non tutelare nessuna parte, nessun punto di vista particolare, ma rimane un punto di vista del tutto generale, più ampio di quello stesso del giudice, che decide casi e non elabora professionalmente dottrine generali. Conoscenza e garanzie.
Essere interpreti del diritto in una società democratica, d’altra parte, non è come esserlo in uno Stato autoritario, magari privo di una magistratura indipendente e critica, di carte dei diritti sovralegislativi e di adeguati meccanismi istituzionali di controllo sui poteri dello Stato. Ed essere interpreti del diritto nel quadro di un processo penale di parti non è come esserlo nella dimensione processuale inquisitoria che ha contrassegnato l’origine di quasi tutte le dottrine del diritto penale sostanziale. Se dunque le origini teoriche e storiche di molte categorie, concetti, norme, incriminazioni si collocano in quelle diverse culture, questo ipoteca la lettura odierna degli stessi istituti: e l’interprete, nel mutato contesto, deve svolgere un’attività di profondo e quotidiano aggiornamento linguistico e anche concettuale, come per tutto il changing frame dell’europeismo e dell’internazionalizzazione.
La stessa norma, e quella “tradizione” di cui la dottrina accademica si fa interprete e tutrice – essendo in genere il più conservatore degli attori giuridici – se collocate in un diverso contesto, funzionano diversamente. Muta geneticamente la mission della dottrina, che deve guardare continuamente una realtà in movimento non attraverso i paradigmi della tradizione, ma sottoponendoli a verifica permanente. Tutto ciò che muta e si consolida, in aggiunta, deve essere spiegato al pubblico, attuando un vero processo di educazione civica i cui discenti e docenti, pur separati per competenze, sono democraticamente in dialogo e non in ascolto ieratico e monologica dettatura tra pulpito e sala.
Controinformazione e populismo penale
Esiste tuttavia un livello minimale che può essere perseguito e attuato senza disturbare le pluralistiche sensibilità politiche e non solo “scientifiche” dei soci di un organismo che teme le individualità protagoniste da un lato, e la perdita di immagine scientifica dovuta ad avventurose politicizzazioni dall’altro.
Tale livello minimale è costituito: 1) da un’azione strettamente informativa, che miri a contrastare il populismo penale dominante, e con ciò anche l’uso del penale come strumento di lotta tra partiti (o tra privati), con un’azione la più consona al dibattito scientifico dei soci in quanto professori (e non magari anche avvocati, politici etc.); 2) dall’intervento pubblico su alcune linee minimali comuni di politica del diritto.
Decisiva mi pare, quanto al primo punto, un’attività di controinformazione anche puntigliosa rispetto alle progettazioni e discussioni massmediatiche e politiche, reindirizzando l’opinione pubblica alla presa di coscienza di ciò che si può veramente dire di sapere oppure no sull’uso dello strumento punitivo nei diversi campi di intervento e sulla quantità complessiva di male (sacrifici di diritti fondamentali) di autori, cittadini e vittime, che occorre ridurre quale base di legittimazione del diritto penale.
Sul secondo punto le occasioni sono frequenti, ma sarà politica la scelta stessa di privilegiare alcuni obiettivi di fondo come primari. Uno di questi, generalissimo, sarà indicato di seguito. Altri più specifici, vanno individuati collegialmente e secondo le contingenze.
Gli obiettivi indicati suppongono anche un mutamento nel metodo e nel linguaggio, perché sono obiettivi di comunicazione pubblica. Nei convegni, nei documenti, negli interventi che si possono svolgere in diversi contesti di non addetti ai lavori, quando i destinatari dell’attività dell’associazione non sono in primo luogo i suoi soci, ma è la società complessiva, occorre che il linguaggio non sia quello della scienza, ma della comunicazione della scienza
Questa esigenza schiude un orizzonte vastissimo di aggiornamento e revisione di costumi, metodi, linguaggi, anche se non deve condurre alla perdita del rigore del linguaggio scientifico nei contesti specialistici. Una diversità di linguaggi nella comunicazione dovuta peraltro anche a diversi stili di pensiero e di discussione all’interno dello stesso metodo di “fare ermeneutica” tra addetti ai lavori.
Alcuni obiettivi programmatici
a) Una priorità nella progettazione di riforma
Occorre riappropriarci di un obiettivo che troppe generazioni di penalisti hanno ormai perduto e rispetto al quale esiste una conclamata rassegnazione. La necessità di una ricodificazione penalistica complessiva, in un significato non ottocentesco, come programma minimo del diritto penale costituzionalmente orientato: la riconoscibilità del sistema, se un sistema c’è, o si vuole che ci sia, è precondizione della conoscibilità delle singole norme, delle stesse sanzioni, della ragionevolezza e della legittimazione dell’intervento punitivo. Non però secondo le scansioni pensate dalla riforma Orlando (art. 1, comma 85, lett. q), legge 23 giugno 2017, n. 103), meritevole nelle intenzioni, ma non negli strumenti.
Rimettere semplicemente le norme nel codice, secondo la riserva di codice prevista nella riforma Orlando, non serve, se le si lascia come sono (senza riscriverle e riadattarle) e si trasferiscono tra “i mille comandamenti” codicistici isole di regole non comunicanti stratificate nei decenni dentro alla alluvionale geografia legislativa. C’è infatti una decodificazione a doppio effetto, che non è solo nelle (in parte ineliminabili) leggi speciali rispetto al codice, ma anche interna a ciò che ritorna o resta nel codice, dove solo le ermeneutiche giurisprudenziali (ri)scrivono ex post un sistema acefalo.
Si tratta di fare capire a tutti che è un progetto costituzionale per l’intera società: la mappatura del penale e la rifondazione di un “ordine pensante immanente collettivo”, e non delegato né delegabile a un solo attore (come per es. le grandi Corti, the Supreme Court as voice of the public reason[1]), è l’unica possibile via per una rilegittimazione della stessa identità “politica” (costituzionale) e poi anche “scientifica” (giuridico-penale) della nostra disciplina.
Il diritto penale di uno Stato pluralista e democratico è un’opera collettiva, non di un solo attore giusdicente. E la dottrina (con magistratura e avvocatura) ha un ruolo importante di ricostruzione intellettuale di questo disegno. Deve peraltro riappropriarsi di questo ruolo ed esserne riconosciuta come meritevole.
Vero poi che il diritto penale, a differenza di tutti gli altri rami dell’ordinamento, è il solo ad essere a necessaria applicazione giudiziale: fuori dal processo non si “applica” il diritto penale (a differenza di quello civile, amministrativo etc.), ma al limite si commettono delitti. Tuttavia esiste uno spazio enorme di comunicazione pubblica e privata attorno al penalmente rilevante, di discussione sui suoi contenuti, limiti e attori, sulla sua legittimazione, dove si svolge un fenomeno di ricostruzione discorsiva e culturale, non solo consulenziale, di regole vigenti, la loro anticipata o posticipata rielaborazione in norme di cultura o in regole di controllo sociale e della criminalità.
Questo secondo aspetto di comunicazione pubblica non specialistica, di enorme importanza generalpreventiva, è del tutto trascurato dai professori e oggi occupato da altre insolite “competenze”.
b) L’elaborazione di un codice etico
Da alcuni processi in corso (in particolare quello fiorentino che di fatto coinvolge quasi tutto il settore scientifico-disciplinare dei professori di diritto tributario) esce un’immagine delle “scuole”, sempre virgolettate, come conventicole che si limitano a esercitare, oltre al, o a prescindere dal merito, interessi baronali di spartizione territoriale del potere accademico, con riflessi sui concorsi, le chiamate, le riviste, le associazioni etc. Una privatizzazione della cosa pubblica per ragioni di potere, prestigio accademico e anche di indiretti interessi associativi, editoriali, libero-professionali o rivalità tra (le virgolettate) “scuole” o loro esponenti. Ritengo imprescindibile che su queste tematiche non si soffochi il dibattito perché ne emerge un’immagine che non riflette la nostra realtà, né il meglio dell’Università italiana. Occorre però che su diverse attività universitarie (peer review, ricerca, tempo pieno/tempo definito, criteri di selezione, valore permanente e limiti della cooptazione, etc.) si prenda coscienza della necessità di uno standard comune di regole di condotta nei diversi ambiti indicati, che se non si esprimono in comportamenti conformi riconosciuti (oltre le regole della legalità) dovranno essere esplicitate in linee guida che gli stessi professori si danno: perché in caso contrario saranno precedute e sopravanzate dall’invenzione governativa di regole particolareggiate della società disciplinare ad impulso giudiziario verso la quale ci stiamo purtroppo orientando.
La vecchia divisione territoriale tra scuole ripartite geograficamente ha un senso diverso oggi da quello che rifletteva in passato nuclei di dominio neo-medievale espressione del potere di determinate persone al comando in un territorio: il caposcuola accanto alla legalità delle regole. Quest’ultima immagine dell’università appartiene al passato e noi vogliamo che lo riconoscano e lo desiderino tutti, e che se non tutti lo desiderano, lo debbano accettare come una esigenza insuperabile del presente.
Certo che i Maestri devono continuare a esistere, ma per indirizzare scuole di pensiero e di cultura, oltre la geografia di un feudo[2]. I capiscuola in quanto tali non sono di diritto i nostri Maestri. Del resto siamo tutti docenti e discenti, anche se qualcuno lo è di più.
c) Il posto del diritto penale nella geografia del sapere e nella sua valutazione
Oggi, nei contesti più minuziosi e profondi, nel cuore della burocrazia ministeriale, e in quella di moltissimi atenei, c’è un dominio delle discipline scientifico-naturalistiche su quelle umanistiche e sociali. In termini di linguaggio dominante e imposto, di criteri valutativi, di finanziamenti, di posti organici, di orizzonti e metodi di ricerca etc.
Il modello neopositivista dell’unità della scienza dei primi del Novecento, pur sorpassato da decenni in epistemologia, si perpetua paradossalmente a livello burocratico-ministeriale con un ingiustificato dominio delle hard sciences su quelle sociali e umanistiche. Logiche economicistiche e di misurazione del sapere hanno assicurato un livello di controllabilità e oggettivazione dei giudizi da tutti riconosciuto. Tuttavia esse recano con sé anche lo snaturamento del ruolo delle discipline che non hanno tecnologicamente un valore di mercato.
L’attività di un’associazione giuridica di studiosi e professori deve orientarsi verso una riaffermazione forte dell’identità del diritto (penale) quale scienza normativo-sociale, economicamente rilevante, ma non finalizzata al profitto. Il discorso si estende alle altre scienze umane: con tutto quanto ciò comporta rispetto ai finanziamenti (v. per esempio le paradossali e tristi vicende delle ultime ricerche Prin, con assegnazione quasi nulle di finanziamenti al settore giuridico nonostante l’eccellenza ministerialmente riconosciuta di molti progetti), al ruolo e alle risorse della ricerca di base, la pura ricerca, e non solo quella commissionata, e dunque applicata (“per” enti locali, Ue, Ministeri etc.), al peso dei criteri quantitativi di valutazione dei cd. prodotti della ricerca (i lavori scientifici) e a quello dei finanziamenti ottenuti nel riconoscimento del valore degli studiosi (contratti, abilitazioni, assegnazioni di ruoli, etc.). Accanto al tecnicismo per l’impresa, per il Ministero, per l’Ue, e gli altri committenti, ci sono la penalistica civile e la ricerca per la “questione giustizia”.
Ecco, si tratta di un programma minimale, che non potrà certo essere attuato nel breve volgere del biennio di un mandato, come quello che prevede lo statuto della associazione dei professori di diritto penale, e che non può neppure essere compiuto restando separati dall’associazione dei processualpenalisti (le ripartizioni accademiche pesano molto e neutralizzano iniziative congiunte).
Ma in un qualche momento, credo ora, e da qualche parte, anche solo qui, occorre che si cominci.
[1] Per questo modello J. Rawls, The Idea of Public Reason, in Id., Political Liberalism, Columbia University Press, New York, 1993, pp. 213 ss.; Id., The Idea of Public Reason Revisited (1997), in Id., The Law of Peoples, Harvard University Press, Cambridge, Massachussets, London, England, 2002, pp. 131 ss. V. sul punto le osservazioni svolte in M. Donini, Scienza penale e potere politico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, pp. 128 ss.
[2] Non limiterei l’analisi alla decostruzione storica e semantica, molto colta e istruttiva, di G. Steiner, La lezione dei maestri, Garzanti, Milano, 2004, rist. 2013, ma la estenderei allo spessore civile delle ricostruzioni biografiche paradigmatiche di N. Bobbio, Maestri e compagni, Passigli, Firenze, 1984.