1. Dopo l’orrore della Seconda guerra mondiale, epilogo tragico e inevitabile dell’aggressività, imperialista e razzista, di alcuni grandi Stati europei, eredi degeneri di grandi civiltà, si sentì il bisogno di affermare solennemente, nelle costituzioni nazionali e in carte internazionali, la necessità di tradurre in formule concrete il principio di “fraternità”, contenuto nella Dichiarazione del 1789, ma non molto coltivato sia nella teoria politica e giuridica, sia nella prassi sociale e istituzionale.
La Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, prevede e garantisce una serie di diritti fondamentali, tra cui, all’art. 10, terzo comma, il diritto di asilo, attribuito, senza condizioni ed eccezioni, né vincolo di reciprocità, allo «straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».
Due rapide notazioni su questa disposizione.
La prima è che viene proclamato un diritto, non una mera aspettativa nella generosità dello Stato o dei suoi governanti. Non un’aspirazione, la cui soddisfazione sarebbe lasciata al senso etico e umanitario di chi riceve la richiesta, ma una pretesa giuridicamente garantita, per mezzo di apposite leggi − da applicare sotto il controllo dei giudici − ad essere ospitato in Italia, ove ricorrano i presupposti previsti dalla norma costituzionale.
La seconda è che, in caso di riconoscimento del diritto di asilo, spettano al soggetto beneficiario tutti i diritti di libertà garantiti dalla Costituzione ai cittadini italiani. L’asilo infatti è concesso perché lo straniero non ne gode nel suo Paese. Fraternità, solidarietà ed eguaglianza formano un tutt’uno e non è ammissibile pertanto una scomposizione di tali princìpi, senza snaturare il senso e lo scopo della tutela costituzionale.
Come è noto, nelle costituzioni contemporanee le libertà non sono soltanto quelle negative della tradizione liberale, ma anche quelle positive, volte a rendere la vita delle persone, di qualunque condizione od origine, degna di essere vissuta. Sarebbe un tradimento del dettato costituzionale concedere l’asilo allo straniero e negargli poi quei diritti sociali (lavoro, salute, istruzione, casa, etc.) ritenuti ormai inscindibili dalla dignità della persona umana.
Da queste due osservazioni possiamo trarre una prima conclusione di ordine metodologico.
Se è vero che il diritto di asilo, come tutti i diritti fondamentali, è soggetto a bilanciamento con altri diritti di pari rango, è altrettanto vero che esso non può subire limitazioni intrinseche, cioè del suo contenuto, per effetto di considerazioni di carattere generale-generico, come, ad esempio, l’esigenza di tutelare la sicurezza pubblica o la limitazione delle risorse disponibili. Per questo, come per tutti gli altri diritti fondamentali, le condizioni esterne non incidono sul contenuto dei diritti, ma solo sul grado di possibile attuazione pratica degli stessi. Nessuna esigenza securitaria o limitazione di bilancio possono concorrere a configurare la consistenza giuridica della pretesa, ma possono limitarne temporaneamente l’effettività, ferma restando l’intangibilità del suo nucleo essenziale.
A poco varrebbe la solenne proclamazione di un diritto fondamentale, se si ritenesse fuori dal perimetro della tutela tutto ciò che, nell’epoca moderna, è ritenuto indispensabile ad una «esistenza libera e dignitosa» (per usare un’espressione contenuta nella Costituzione italiana a proposito dei lavoratori).
2. L’istituto del diritto di asilo non coincide con il riconoscimento dello status di rifugiato, introdotto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 722 del 1954.
Per l’acquisto di tale condizione non è sufficiente che lo straniero dimostri che nel proprio Paese i cittadini non godono dell’effettivo esercizio delle libertà democratiche, ma è necessario che ricorra il «giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche» (art. 1, § 2).
La normativa europea ha introdotto successivamente l’istituto della protezione internazionale, che tutela, oltre ai rifugiati di cui all’art. 1, § 2 Conv. Ginevra, mediante la cosiddetta “protezione sussidiaria”, coloro che, pur non potendo dimostrare di aver subito specifici atti persecutori, abbiano ugualmente il fondato timore di dover subire un grave danno, se facessero ritorno nel proprio Paese d’origine. Si deve infine aggiungere la protezione temporanea, in caso di afflusso massiccio di richiedenti.
Non mi soffermo sui particolari delle procedure, amministrative e giudiziarie, previste da norme nazionali e sovranazionali, per regolare l’accesso, l’identificazione e il controllo sui requisiti delle richieste di protezione, oggetto di qualificate relazioni nell’ambito di questo corso, mi limito a qualche considerazione di ordine generale sia sulla normativa vigente che sulla prassi applicativa.
Parto dal Trattato di Lisbona, che costituisce la base di legittimazione di tutta la politica europea di protezione e accoglienza.
Gli artt. 78, 79 e 80 Tfue delineano con precisione ed efficacia i termini giuridici, sostanziali e procedurali, di quella che è definita la «politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria, di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un Paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il principio di non respingimento» (art. 78, § 1). La politica comune dell’immigrazione è «intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto dell’immigrazione illegale e della tratta di essere umani» (art. 79, § 1). Di grande attualità è infine l’art. 80, che recita testualmente: «Le politiche dell’Unione […] e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. Ogniqualvolta necessario, gli atti dell’Unione […] contengono misure appropriate ai fini dell’applicazione di tale principio».
Politica comune, solidarietà ed equa ripartizione degli impegni sono quindi i tre punti di riferimento ai quali deve ispirarsi la prassi politica e amministrativa dell’Unione nel suo complesso e dei singoli Stati membri. Oggi sembra di dover rilevare che la macchinosità delle procedure, le inadempienze, addirittura proclamate e rivendicate, di taluni Stati, l’assenza di un’efficace azione di coordinamento lungo tutta la lunga linea di confine, terrestre e marittima, dell’Unione, creano squilibri, tensioni tra gli Stati e, quel che più preoccupa, la nascita e l’incremento di tendenze xenofobe o apertamente razziste, in antitesi con i valori fondanti non soltanto dell’Unione, ma di tutte le costituzioni democratiche succedute al crollo dei regimi autoritari e dittatoriali del XX secolo.
Lo stesso, contestatissimo, Regolamento di Dublino prevede che lo Stato di primo arrivo è competente ad esaminare la domanda di protezione; non dice invece che tale Stato ha l’obbligo di assorbire e integrare per intero tutti i richiedenti in possesso dei requisiti, né che abbia l’obbligo di ospitare da solo coloro che non posseggano tali requisiti, in carenza di possibilità concrete di rimpatri per la maggior parte degli immigrati. Occorrerebbe un piano europeo, dettagliato e condiviso, che collegasse strettamente prima accoglienza e ricollocazione dei migranti in tutti gli Stati membri, giacché – come abbiamo visto nelle norme del Tfue – l’equa ripartizione dei carichi non è affidata alla buona volontà dei singoli Stati e dei loro governanti, ma è un preciso obbligo giuridico, che deve essere adempiuto senza limiti ed eccezioni. Si deve rilevare che oggi la ricollocazione dei migranti in tutti gli Stati europei non è, in gran parte, conseguenza della politica dell’Unione, ma è l’effetto della resistenza di numerosi Stati membri, che si distinguono in quelli che apertamente rifiutano la relocation e quelli che, invece, predicano bene e agiscono male. I risultati sono i medesimi.
Detto ciò, si deve riaffermare che ogni eventuale controversia sulle insufficienze dell’Unione o sugli illegittimi dinieghi di alcuni Stati membri tenuti alla partecipazione allo sforzo comune sulla protezione internazionale deve trovare il suo terreno di confronto nella dialettica, politica e diplomatica, tra gli Stati. È pura aberrazione utilizzare la sofferenza di persone prive di tutto, che fuggono da guerre, massacri, persecuzioni e torture per acquistare più peso all’interno dell’Unione e costringere gli Stati inadempienti a recedere dalle loro posizioni. Qualunque controversia non può mettere in questione i diritti fondamentali di chi non ha alcuna responsabilità del comportamento più o meno censurabile di alcuni governanti europei o delle stesse istituzioni europee.
Si assiste da qualche tempo ad uno scontro tra egoismi nazionali, purtroppo alimentato e incoraggiato da una sorta di cinica indifferenza di una Europa “senz’anima”, che offre comodi alibi ai risorgenti nazionalismi immemori delle grandi tragedie del Novecento.
Un piano europeo di accoglienza, effettivo e non solo sulla carta, dovrebbe passare attraverso una gestione comune, sul piano organizzativo e finanziario, della prima accoglienza e di tutte le operazioni di identificazione e verifica dei requisiti. La semplice programmazione non basta. In questo tipo di operazioni il giudice nazionale, cui è affidato il controllo di legittimità, diverrebbe, a tutti gli effetti, giudice europeo. Alla verifica dovrebbe immediatamente seguire la relocation, secondo quote prefissate e vincolanti per tutti. Solo in tal modo l’Ue riacquisterebbe autorevolezza e si meriterebbe il rispetto dei popoli. Se si continua con minacce nazionali tracotanti e risposte europee sprezzanti, si riesce soltanto a distruggere il processo unitario, già frenato e messo in forse dalla percezione diffusa, non solo in Italia, dell’indifferenza delle istituzioni europee verso le problematiche sociali.
3. Il diritto fondamentale all’asilo e alla protezione internazionale si articola in numerosi profili, cui corrispondono altrettante problematiche giuridiche. Mi occupo brevemente di tre tra essi.
3.1 Il primo attiene all’effettività della tutela giurisdizionale dei richiedenti. Esamino in particolare il caso italiano.
L’art. 35-bis del d.lgs n. 25 del 2008, introdotto dal d.lgs n. 13 del 2017, rende ulteriormente flessibile la procedura applicabile al ricorso del richiedente protezione avverso il provvedimento amministrativo di rigetto. Mentre nella normativa previgente era previsto che il giudice potesse omettere di procedere all’audizione del richiedente nel caso ritenesse la richiesta manifestamente infondata, nel “nuovo rito” in materia di protezione internazionale il giudice è tenuto a fissare udienza solo in alcuni casi tassativi, che si riducono a tre:
1) se dispone consulenza tecnica, ovvero, anche d’ufficio, l’assunzione di mezzi di prova;
2) se la videoregistrazione dell’audizione del richiedente da parte della Commissione territoriale non è disponibile;
3) se l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado.
In tutti gli altri casi, al di là delle diverse espressioni usate dalla legge, l’udienza è fissata solo se il giudice la ritiene necessaria ai fini del decidere. In sintesi, l’ascolto diretto del ricorrente è solo un’eccezione alla regola di un procedimento esclusivamente cartolare.
Pur nutrendo la massima fiducia nella retta coscienza, etica e giuridica, dei giudici, non posso allontanare la preoccupazione che, anche a causa del grande carico di lavoro, le disposizioni prima citate producano l’effetto di propiziare decisioni seriali, burocratizzate e disumanizzate. Ogni essere umano è una creatura unica e irripetibile, con la sua storia, i suoi dolori, le sue speranze; non è un numero scritto sulla copertina di una pratica. Nulla può sostituire l’ascolto diretto delle sue ragioni. Mi rendo conto della necessità di fare presto, onde evitare permanenze non qualificate troppo lunghe e di difficile gestione. Per questo motivo sarebbe necessario un impiego massiccio di risorse, umane e materiali, e la formazione specifica dei magistrati che vengono destinati a questo delicato compito, che non richiede soltanto approfondite conoscenze giuridiche, ma anche consapevolezza storica e sociale della sostanza del fenomeno migratorio. Per quest’ultimo obiettivo, la Scuola superiore della magistratura italiana è fortemente impegnata e lo sarà ancor di più nel prossimo futuro. Ma per il dispiegamento eccezionale di risorse è necessaria la volontà politica dei governi e dell’Unione europea. Proclami rabbiosi, cui si contrappongono facili prediche umanitarie, non solo non risolvono il problema, ma lo aggravano.
3.2 Affine alla protezione internazionale, ma da essa distinta, è la “protezione umanitaria”, cui può far ricorso il soggetto privo dei requisiti per ottenere la protezione internazionale, ma tuttavia esposto a gravi violazioni dei diritti umani ove facesse ritorno nel proprio Paese di origine.
Non mi soffermo, nei particolari, sui caratteri ed i limiti della protezione umanitaria. In sintesi, questa mi sembra da inquadrare come istituto di chiusura dell’intero sistema di tutele dello straniero, quando non ricorrano i presupposti previsti dalle norme europee e nazionali per il riconoscimento dello status di rifugiato o avente diritto alla protezione sussidiaria. La protezione umanitaria costituisce, nell’ordinamento italiano, specifica attuazione dell’art. 10, terzo comma, della Costituzione, il cui ombrello protettivo – giova ricordarlo! – è più ampio dei singoli tipi di protezione previsti e disciplinati dalle direttive europee, variamente attuate negli Stati membri dell’Unione. Del resto, la stessa direttiva n. 115 del 2008 (art. 6, § 4) riconosce – ma si tratta di precisazione superflua – che gli Stati membri possano rilasciare un permesso di soggiorno «per motivi umanitari e caritatevoli o di altra natura», al di fuori dei casi previsti dalla normativa europea. La Corte di giustizia ha confermato questa possibilità, con l’unico limite che i presupposti sostanziali non siano incompatibili con quelli della protezione internazionale.
La base assiologica di questo istituto di chiusura è l’impostazione personalistica della civiltà giuridica contemporanea, che si riflette sia nella normativa internazionale e sovranazionale, sia nelle singole legislazioni nazionali. La tutela della persona umana e della sua vita privata e familiare – secondo la formula dell’art. 8 Cedu – impone che ogni individuo abbia diritto di soggiornare e rimanere in uno Stato diverso da quello di origine, se nel proprio fosse destinato a subire condizioni ed atti incompatibili con la propria dignità.
È interessante notare che il concetto di dignità umana non va ricostruito in astratto, indipendentemente dal tipo di relazioni sociali in cui il soggetto sia inserito, ma nel contesto concreto della sua vita, quale essa è e quale è possibile che diventi o rimanga, nei limiti delle circostanze che rendono possibile la tutela.
Per comprendere la portata del principio generale di “fraternità”, che sta alla base dell’art. 10 Cost. e di tutte le norme sulla protezione internazionale ed umanitaria, mi sembra importante la recente pronuncia della Corte di cassazione (n. 4455 del 2018), nella quale si afferma che la vulnerabilità dell’individuo può essere accertata anche in considerazione della mancanza, nel Paese di origine, «delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa».
Si va facendo strada nella giurisprudenza l’idea, cui accennavo all’inizio di questo intervento, che i diritti fondamentali non possono essere artificiosamente distinti, quanto alla protezione degli stranieri, in civili, politici e sociali, in quanto le «libertà democratiche», di cui parla l’art. 10, terzo comma, della Costituzione italiana, hanno un senso se la persona abbia un minimo di condizioni di sussistenza, indispensabili alla tutela della sua dignità.
Viviamo in un periodo storico di trasformazioni epocali, nel quale vengono al pettine i nodi che si sono formati per effetto del colonialismo e dell’imperialismo. Allargare il più possibile i limiti della protezione, quanto meno tenendo conto del grado di integrazione sociale raggiunta dallo straniero soggiornate in Italia o in altri Paesi sviluppati – come ha fatto la sentenza prima citata – mi sembra la doverosa conseguenza che oggi dobbiamo trarre dai debiti che abbiamo contratto, nei secoli, con la depredazione delle immense risorse di popoli dominati e sfruttati dagli Stati democratici dell’Occidente.
3.3 Il principio di fraternità, che si riflette in quello di solidarietà verso gli stranieri che ci chiedono aiuto e protezione, si afferma anche nella rigorosa salvaguardia di un altro principio basilare della civiltà giuridica moderna, quello di eguaglianza.
Tra i tanti esempi che sarebbe possibile indicare, mi sembra interessante una recente pronuncia della Corte costituzionale italiana (n. 166 del 2018), in tema di diritto alla casa di abitazione.
Il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 13, del dl n. 112 del 2008 – convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 del 2008 – che prevedeva per gli stranieri extracomunitari, che intendessero partecipare al riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione. Tale requisito non era invece richiesto ai cittadini italiani ed europei. Questa disparità di trattamento era stata disposta senza che emergesse una «ragionevole correlazione» tra l’estremo stato di bisogno, che giustifica l’accesso al Fondo, e la richiesta di residenza di dieci anni nel territorio dello Stato o di cinque anni nella stessa regione.
Il bisogno non ha latitudine né colore. La tutela sociale di chi si trova in una situazione di povertà estrema non può arrestarsi di fronte a considerazioni legate alla cittadinanza o alla nazionalità. Se così non fosse, la fraternità verrebbe annullata dalla disuguaglianza. Il che dimostra, ancora una volta, il profondo legame che unisce tra loro tutti i princìpi e i diritti fondamentali dello Stato costituzionale contemporaneo e degli ordinamenti sovranazionali esistenti.