Introduzione
La percezione della diversità dello straniero è sentita nella forma più estrema dinnanzi al migrante e al nomade.
Il migrante di oggi infatti, non rappresenta solo uno straniero in cerca di una vita migliore, previsto e controllato dalle autorità: è, al contrario, una totale alterità. Un viaggiatore radicale: che sa da dove è partito, ma non dove arriverà. A differenza dei nostri connazionali che nei secoli scorsi traversavano l’oceano in cerca di una nuova vita, o dell’Ulisse di Omero, non ha una meta. Sa solo dove non vuole o non può più abitare: non c’è un “dove” positivo, solo un dove negativo.
Ma se esiste, come crediamo, un inconscio collettivo, esso è abitato da impulsi molto antichi, che non sono stati eliminati dalla selezione naturale, ma solo parzialmente repressi da quella culturale. Come sappiamo, il nostro corpo non è sostanzialmente variato negli ultimi 30.000-20.000 anni. È rimasto, ci dice la paleoantropologia, quello dell’uomo di Cro-Magnon. E così i suoi istinti. È facile riflettere su questo, ed è persino facile fare dell’ironia. Ai tempi del Cro-Magnon non era ancora stata codificata la monogamia, e tantomeno la famiglia nucleare. Oggi la quasi totalità delle società è monogama: il fatto che gli istinti non abbiano subito un processo corrispondente di selezione e di adattamento è ben noto ai magistrati della famiglia e visibile nel numero dei divorzi.
Il buon magistrato della famiglia, si troverà spesso a intervenire presso coppie che si sfasciano per un “ritorno del represso”, cioè della poligamia. Immagino che per valutare equilibratamente non interrogherà solo le norme ma anche se stesso: come mi sarei comportato io? È giusto il disprezzo che provo per il trasgressore, quando avrei potuto trasgredire io stesso? Il dilemma non ha atteso la psicanalisi e le teorie sulla repressione per manifestarsi: è così ovvio da esser stato affrontato già da Gesù di Nazareth, il quale suggerisce che la punizione venga eseguita da chi è senza peccato. Il trasgressore ci fronteggia come un diverso. Eppure, se sono dotato di capacità autocritica, mi accorgo che avrei potuto trasgredire anch’io.
L’identificazione con il nomade e il profugo/migrante è invece molto meno scontata. Anche se teoricamente sarebbe possibile, in pratica nessun magistrato italiano viene da famiglie rom o da etnie o nazionalità perseguitate. Eppure sarebbe fondamentale che, giudicando nomadi o migranti, almeno in astratto il giudice da un lato possa capire chi sono veramente, dall’altro capisca anche i motivi per cui l’italiano medio li ritiene non integrabili. Mentre realizzare la prima esigenza è poco realistico, andare incontro alla seconda è più facile. Certamente esistono motivi oggettivi per cui il cittadino comune diffida dei migranti, ma ce ne sono anche di soggettivi, cioè psicologici. Un fondamentale motivo per cui ne prova paura, sopravvaluta la loro presenza numerica e il loro tasso di criminalità, sta nel fatto che un migrante abita ancora dentro ognuno di noi. Avere un corpo e degli istinti che non conosciamo più fa inevitabilmente paura: è per esempio dimostrabile il fatto che, proprio chi più istericamente condanna la sessualità, è più spesso tormentato da sogni erotici.
Riflettiamo. L’agricoltura è molto più recente del Cro-Magnon che ancora fisicamente siamo. Come specie animale, come corpo, dunque come istinti, noi siamo potenzialmente ancora dei nomadi, quindi dei migranti. Pertanto possediamo un profondo impulso a viaggiare: la maggior parte delle persone lo sente, anche se non è stato loro insegnato.
Il sedentario moderno è dunque lacerato da conflitti antichissimi anche quando non ne ha coscienza. Questa è probabilmente una delle ragioni per cui il cittadino medio di oggi si sente minacciato dai nomadi e diffida dei migranti [1]: rappresentano spinte che abitano in lui a sua insaputa. Lo rassicura avere, anzi possedere una casa, ma contemporaneamente vuole viaggiare: cioè incontrare posti nuovi pur senza avere un reale interesse o una reale possibilità di conoscerli. Cerca di riposarsi facendo viaggi-vacanza che lo stancheranno, e di spostarsi velocissimo per tornare quasi subito velocemente indietro.
Gli esseri bipedi − uomini o ominidi − hanno meno arti per il movimento di altri animali, ma maggiore curiosità, maggior impulso a viaggiare e conoscere: è la richiesta implicita della evoluzione, che non li ha forniti solo di gambe buone, ma anche di mani libere e di un cervello sproporzionatamente grande. Insomma, gli animali si spostano, ma tendono a scegliere un territorio. L’umano, grazie a curiosità e adattabilità, ha invece popolato, poi addirittura infestato la Terra (Dio, nella Genesi, aveva ordinato solo di popolarla).
Per milioni di anni questo bipede è stato nomade, viaggiatore, migratore. Solo di recente, per poche migliaia di anni, ha praticato l’agricoltura ed è divenuto sedentario. È naturale, quindi, che nei suoi istinti risieda ancora un impulso a muoversi: deve fare uno sforzo per rimanere nello stesso posto, soprattutto se è delimitato da palizzate o mura. Certe persone particolarmente sensibili soffrono di questo in modo più evidente: la loro sindrome si chiama “claustrofobia”.
Riflessione
Il mito ha espresso per simboli la opposizione tra il bisogno di viaggio − che soddisfa la curiosità, il piacere di esplorare la natura − e quello di rimanere nello stesso luogo − che dà la sicurezza delle cose note. Così nacque il racconto di Caino e Abele (Genesi, 4, 1-15). Una narrazione profetica. Nel mito, infatti, l’agricoltore uccide il pastore: cioè, il sedentario elimina il nomade, proprio come è avvenuto lungo la storia, prima lentamente, poi sempre più rapidamente. L’inconscio collettivo archivia nei miti le tracce di simili immensi eventi, perché corrispondono a pulsioni che ci appartengono dalla esistenza dell’uomo, anche se la memoria personale non ne ha coscienza. Per questo motivo ho chiamato una simile lacerazione “il rimorso di Caino”.
Di sfuggita vale la pena indicare che in tale immensa bipartizione tra due impulsi ugualmente essenziali − il viaggiare che procura scoperte e la sedentarietà che fornisce sicurezza − racchiudono l’intero arco della esperienza umana. Avvicinandosi a noi essa assume forme estreme: da una parte gli hippies del secolo scorso, che andavano in India dotati solo di zaino e di marijuana o i miliardari americani che versano centinaia di migliaia di dollari prenotandosi per un turismo interplanetario che ancora non esiste; all’altro estremo i “moderni accidiosi”, cioè le giovani generazioni che cadono nella “sindrome di ritiro” [2]. Queste manifestazioni confermano che la vittoria storica del sedentario sul nomade non solo non è reversibile, ma assume forme estreme.
Nel nostro Occidente, il viaggiatore estremo è una curiosità di cui si chiacchiera; il migrante e il nomade sono invece il problema. Anche quando la nostra mente personale e il nostro atteggiamento professionale (come immagino quello del magistrato) sono aperti e illuminati, migranti e nomadi rimangono nel profondo un crescente problema e in quanto tali fanno paura. Si tratta di un fenomeno in aumento e comune a tutti i Paesi sviluppati. Non si vede un orizzonte in cui possa realisticamente attenuarsi.
Il nostro è un mondo contro-ospitale.
Dovendo giudicare uno straniero e diverso, un ospite che viene accolto − ormai è scontato − in modo opposto a quello di Ulisse che giunge naufrago fra i Feaci, anche il magistrato sarà influenzato dal fatto che la ripulsa del cittadino medio, accettata da strati sempre più vasti della popolazione, è dovuta in buona parte a elementi atavici e inconsci. Colmare queste diversità è un compito quasi sovrumano. Basti pensare come − appena un paio di generazioni fa − sia stato facile creare pregiudizi, poi leggi escludenti e potenzialmente assassine, sulla base di diversità minime, come quelle tra ariani ed ebrei: una minoranza assimilata e integrata come forse mai nessuna lo fu nella Storia.
Il tentativo personale che il giudice può compiere per divenire cosciente del pregiudizio generale sarebbe una necessità propedeutica al giudicare (o comunque all’indagare, nel caso del pubblico ministero). Ma l’identificarsi in questo straniero, l’immaginarsi di essere lui, è uno “sforzo psichico” sovrumano, quasi impossibile: è più facile per un uomo immaginarsi di essere donna o per un ventenne immaginarsi di essere ottantenne.
In conclusione, ben più che in altre situazioni, davanti al migrante il giudice sarà lacerato fra due poli opposti: il “Chi sono io per giudicare?” reso famoso da papa Bergoglio (e prima di lui da Gesù di Nazareth), e il compito di farlo che la professione gli impone.
Più che in altre situazioni patirà quindi di ambivalenza.
Come tenere conto della radicale diversità, quando base della legge è la sua radicale uguaglianza per tutti?
Due osservazioni personali:
1) davanti alla scritta «La legge è uguale per tutti» avverto a volte un senso di assurdità, di profanazione, quasi di falsificazione. Nel Congresso convocato dagli Alleati a San Francisco nel 1945, al termine della Seconda guerra mondiale, per la prima volta fu definito e sanzionato internazionalmente il crimine di genocidio. Come conseguenza, anche per la più grave delle infrazioni alla legge − l’omicidio − le cose sono cambiate. L’omicidio individuale si prescrive e a volte si redime. Quello collettivo e politico può invece rientrare nella categoria dei genocidi: che non è solo quantitativamente diversa, non è una semplice somma di atti assassini, ma possiede una qualità tutta sua. In molti Paesi questa diversità di trattamento si riproduce anche nelle piccole offese non sanguinose: una espressione di odio personale non è punibile, ma lo è quella che, vincolata a categorie etniche, razziali, religiose o politiche, rientra nel quadro di hate speech.
Paradossalmente, la legge che tenta di includere maggiori e nuove prospettive di giustizia, non è più uguale per tutti. Una volta infranta, quella uguaglianza assoluta mi sembra dovrebbe sopravvivere nell’animo del magistrato come principio pragmatico, non più come dogma.
2) Il giudice deve, appunto, giudicare. Di fronte ad ogni nuovo caso, la sua mente dovrebbe essere sgombra, non già abitata da valutazioni che si riassumono in bianco e nero. L’ambivalenza − che purtroppo certi trattati di psichiatria descrivono come “disturbo” − dovrebbe quindi essere un’abitante stabile della sua psiche, non un momento di squilibrio da sfuggire. Proprio come l’etica, da cui la legge trae radice, la condizione di dubbio è ben condensata in un concetto del più morale fra i nostri scrittori: Primo Levi, il quale, descrivendo Auschwitz ha creato la categoria di “zona grigia” [3]. Essa non proviene da stati patologici: al contrario, è espressione della complessità con cui una professione complessa come quella del giudice quotidianamente si confronta.
Le polarità esistono per essere confrontate, non divise. Gran parte dell’opera psicologica di Carl Gustav Jung è rivolta proprio a dimostrare come la psiche ha bisogno di completezza e, inevitabilmente, di complessità. Solo l’Occidente, col graduale prevalere della razionalità e della logica, ha spezzato la tendenza al coesistere dei poli che caratterizza altre culture (per esempio, nella unione di Yin e Yang del pensiero orientale). Per questo certi trattati di psichiatria includono l’ambivalenza fra le patologie: mentre molto spesso è una inconscia ricerca di completezza che non si accontenta di semplificazioni.
Chiudiamo con un esempio tratto da Isaiah Berlin [4]. Il mondo − ha detto questo grande filosofo della politica ebreo-lituano naturalizzato inglese − ha fame sia di libertà che di uguaglianza. Nel secolo scorso, milioni di giovani erano pronti a diventare eroi che offrivano la vita per la conquista dell’una o dell’altra. Ma questa grande disponibilità al sacrificio non è sufficiente: è necessaria una capacità di valutare caso per caso, trovando un equilibrio fra gli ideali diversi. L’esigenza di uguaglianza assoluta porta verso Stalin, quella di libertà assoluta verso la dittatura del mercato. L’unica possibilità praticabile è un compromesso tra le due istanze: purtroppo, i giovani in cerca di eroismo sono pronti a farsi uccidere per un assoluto, non per un compromesso.
In modo simile, il giudice non deve essere un eroe ma un giudice. Non un santo ma un giusto.
[1] H. M. Enzensberger, La grande migrazione, Einaudi, Torino, 1993.
[2] L. Zoja, Neet: acronimo inglese e tragedia italiana?, in Minorigiustizia, numero 4, Francoangeli, Milano 2011; Id., Psiche, Bollati Boringhieri, Torino 2015.
[3] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991.
[4] Isaiah Berlin, A message to the 21st Century, in The New York Review of Books, 23 ottobre 2014.