1.- Cass., Sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24629, si occupa del rapporto tra mediazione obbligatoria e procedimento monitorio premettendo che l’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 è norma «di non facile lettura» [il comma 4, lett. a), prevede infatti che la condizione di procedibilità debba trovare applicazione anche «nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione». Formula ambigua, che nasconde la realtà di una condizione inesistente nella fase monitoria, ma che riemerge in quella di opposizione dopo i provvedimenti sulla esecutorietà del titolo ingiuntivo].
Dovendo «essere interpretata conformemente alla sua ratio», la sentenza nota anzitutto che la norma «è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale ... attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira – per così dire – a rendere il processo la extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono risultate precluse».
Se ne deduce che «l’onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo. Nel procedimento per decreto ingiuntivo cui segue l’opposizione, la difficoltà di individuare il portatore dell’onere deriva dal fatto che si verifica una inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale, nel senso che il creditore del rapporto sostanziale diventa l’opposto nel giudizio di opposizione.
Questo può portare a un errato automatismo logico per cui si individua nel titolare del rapporto sostanziale (che normalmente è l’attore nel rapporto processuale) la parte sulla quale grava l’onere. Ma in realtà – avendo come guida il criterio ermeneutico dell’interesse e del potere di introdurre il giudizio di cognizione – la soluzione deve essere quella opposta. Invero, attraverso il decreto ingiuntivo, l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo. È l’opponente che ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore. È dunque sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria perché è l’opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga. La diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale perché premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice.
Del resto, non si vede a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l’onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo. È, dunque, l’opponente ad avere interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c. Soltanto quando l’opposizione sarà dichiarata procedibile riprenderanno le normali posizioni delle parti: opponente convenuto sostanziale, opposto attore sostanziale. Ma nella fase precedente sarà il solo opponente, quale unico interessato, ad avere l’onere di introdurre il procedimento di mediazione; diversamente, l’opposizione sarà improcedibile».
2.- La sentenza, a fronte del noto contrasto giurisprudenziale, sposa dunque la tesi dell’onere a carico dell’opponente; ma non di questa scelta, in sé ragionevole, intendiamo parlare.
Ci interessa piuttosto rilevare che la sentenza avrebbe potuto farsi carico dell’unico argomento giuridico dirimente, frutto della peculiarità stessa del procedimento monitorio. Giacché al creditore è consentito procurarsi inaudita altera parte e in esito a cognizione sommaria un titolo suscettibile di consolidarsi in conseguenza di diverse evenienze (che vanno dalla omessa tempestiva opposizione agli esiti, di rito e di merito, del relativo giudizio), risulta ribaltato sull’opponente l’onere di instare per la cognizione piena: sembrando in conseguenza normale che anche l’onere della mediazione obbligatoria gravi su chi già sopporta – ma soltanto in ragione della specialità del procedimento – quello di essere attore «in senso processuale» (cfr. Luiso, Diritto processuale civile8, V, Milano, 2015, 76).
Questa la ratio decidendi che sorregge la decisione; o, per meglio dire, la sua parte strettamente giuridica e che è la sola che rilevi.
La sentenza aggiunge però altro.
La prospettiva costituzionale dell’efficienza processuale evidentemente dedotta dall’art. 111 Cost. (il riferimento al «ragionevole processo» sembra piuttosto un lapsus calami) impone di considerare osteggiata dal legislatore, perché più dispendiosa, la soluzione di chi instauri il giudizio a cognizione piena, mentre meritevole di (maggior) tutela sarebbe la posizione dell’ingiungente, che ha il merito di voler percorrere la via breve (si dice apertamente che «attraverso il decreto ingiuntivo, l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo»). Nel contesto che premia chi sceglie la via breve, la mediazione obbligatoria è poi un meccanismo che tende a fare dello stesso processo l’extrema ratio, cioè l’ultima possibilità dopo che altre siano risultate precluse.
Entrambe le affermazioni lasciano perplessi, in se stesse e nel loro intreccio.
3.- La seconda in modo forse più evidente: nel caso particolare del procedimento monitorio, infatti, che il ricorso al giudice non rappresenti l’extrema ratio è reso evidente proprio dalla circostanza che il meccanismo “alternativo” della mediazione viene alla ribalta laddove sia stato già adìto non soltanto il giudice della fase monitoria, ma anche quello dell’opposizione. Il che può esprimersi dicendo che qui la mediazione è sì obbligatoria, ma non preventiva rispetto al ricorso al giudice [e perciò, a nostro avviso, meglio sarebbe stato concepirla come facoltativa, sulla falsariga del comma 2) dello stesso art. 5].
Ciò che, a ben vedere, rende evidente l’anomalia insita nell’aver previsto la mediazione obbligatoria anche nel contesto della tutela speciale: perché se, come ripete la Cassazione, l’obiettivo dei “rimedi alternativi” è davvero quello di evitare il ricorso al giudice, il caso del procedimento monitorio è invece proprio quello che – paradossalmente – potrebbe fare a meno dello stesso rimedio alternativo: ove il decreto ingiuntivo non venga opposto, non entra in ballo neppure la mediazione “obbligatoria”. L’economia di mezzi è qui garantita dallo stesso funzionamento del procedimento speciale, non dall’alternativa della mediazione.
Parlare di extrema ratio quando l’esperimento della mediazione presuppone che siano stati adìti ben due giudici, ancorché appartenenti al medesimo ufficio, è manifestamente un ossimoro. Salvo non si abbia la riserva mentale di pensare che il rimedio alternativo sia non quello che evita il ricorso al giudice, ma quello che solleva quest’ultimo dal dovere di rendere una decisione.
4.- Secondo la prima affermazione, non meno significativa, sarebbe in linea coi precetti costituzionali – e soprattutto col canone della “ragionevole durata”, contratto nella formula del “ragionevole processo” – la posizione del creditore ingiungente perché mostra di voler seguire «una via breve», a fronte di quella dell’ingiunto che, per il fatto stesso di interporre un’opposizione, «intende precludere la via breve per percorrere la via lunga». Questa parte, anche soltanto per tale ragione, merita d’esser caricata di ogni possibile onere perché la sua scelta processuale consiste nell’«introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore». Laddove – come abbiamo già rilevato – il creditore ingiungente ha l’indubbio merito di aver scelto, attraverso il decreto ingiuntivo, «la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo».
Qualcosa non torna.
È evidente che il discorso potrebbe avere un qualche fondamento se riferito alla medesima parte processuale: potrebbe infatti criticarsi la condotta di chi, avendo a disposizione un procedimento speciale (la via breve) per la tutela del proprio credito, opti irragionevolmente per la tutela ordinaria (la via lunga) danneggiando non soltanto se stesso, ma l’amministrazione della giustizia gravata di un nuovo carico. La condotta non può considerarsi contra jus, ma può essere valutata sotto il profilo dell’efficienza e della congruità dei mezzi.
Ma quando a doversi confrontare siano le posizioni di chi, da un lato, abbia ottenuto un titolo ingiuntivo e di chi, dall’altro, soltanto mediante l’opposizione potrà sperare di evitarne il consolidamento, il discorso non torna più. Qui non rileva la scelta tra una via breve e una via lunga, ma semplicemente il diritto di difesa di chi è destinatario di una condanna ex abrupto sommaria e unilaterale, per il cui controllo in sede di cognizione ordinaria la strada disponibile è una soltanto.
Di più: sinora il tema della tenuta costituzionale del procedimento monitorio è stato affrontato dal lato del destinatario dell’ingiunzione, specie nei casi in cui il decreto sia emesso in forma esecutiva ex art. 642 c.p.c. con conseguente formazione d’un titolo per l’iscrizione d’ipoteca giudiziale. Che l’opposizione a decreto ingiuntivo, in quanto «soluzione più dispendiosa», risulti «osteggiata» dal legislatore nella diuturna ricerca delle coordinate del “ragionevole processo”, è affermazione non soltanto inedita, ma soprattutto pericolosa, per tante e intuitive ragioni.
5.- Va preso atto che la sentenza, per le sue motivazioni non strettamente giuridiche, è un coerente frutto dei tempi. Il clima attuale è quello del respingimento del contenzioso, della degiurisdizionalizzazione, dello sfavore per qualsiasi impugnazione, addirittura del fastidio per chi ricorra al giudice (v. per più ampio discorso, se vuoi, il nostro Salviamo la giustizia civile. Cosa dobbiamo dare, cosa possiamo chiedere ai nostri giudici, Milano, 2015). In questo clima culturale, la posizione di chi si oppone all’ingiunzione rischia di esser vista come un attentato alla efficienza e alla “giustizia” (nel senso dell’art. 111 Cost.) della tutela giurisdizionale.
La fuga dalla giurisdizione civile – l’extrema ratio – è un risultato da perseguire con ogni mezzo. La sottrazione di aree di competenza del giudice civile ordinario non è mai riguardata, in questo clima, come una possibile violazione costituzionale.
Un esempio per tutti: quando, dopo il noto salvataggio delle quattro banche locali, si è parlato di un “arbitrato” gestito dall’Autorità Nazionale Anticorruzione, nessuno – mi sembra – ha posto il problema della incostituzionalità dell’arbitrato obbligatorio o della individuazione di un giudice speciale post factum (che, nel caso, non ha neppure la qualifica istituzionale di “giudice”). I risparmiatori non avrebbero forse il diritto di adire il giudice civile ordinario? La questione viene elusa, perché il solo risultato che conti – dal lato dell’amministrazione della giustizia, un’impresa in stato di liquidazione volontaria – è quello di allontanare dal giudice civile un possibile nuovo carico.
In modo strisciante, si sta delineando una frattura tra giurisdizione civile e tutela dei diritti; e spesso se ne ravvisa il fondamento proprio del “giusto processo” (nella lettura, molto creativa e a volte sorprendente, che della norma costituzionale ha nel tempo somministrato la Corte di cassazione).
La Magistratura fa passi indietro nella tutela giurisdizionale dei diritti: alla ricerca dell’efficienza – battaglia ormai considerata persa – si sostituisce la logica dell’abbandono dei contenziosi, in sedi qualsiasi (purché lontane dai tribunali).
Siamo certi che è davvero quello che vogliamo?