Chi si lasci ingannare dalla suggestione del titolo rimarrà deluso. Il bel libro di Bruno Capponi non appartiene alla categoria, piuttosto usurata, degli accorati appelli rivolti al legislatore, al Governo, al Ministro perché finalmente si possa trovare la chiave “che mondi possa aprirci”. Non s’invoca un intervento salvifico esterno ma si esplorano, partendo dall’esperienza e da una competenza professionale e scientifica particolarmente elevata, le cause di un così esteso quadro critico partendo da chi vi opera ed è costretto ad operarvi, nonostante le numerose distorsioni anche costituzionali del sistema.
Chi voglia trovare una collocazione agevole a “Salviamo la giustizia civile” rimarrà ugualmente deluso. Nella prima parte siamo in un ambiente quasi biopic. Com’eravamo noi, giovani magistrati, impegnati e un po’ narcisi e cos’era la giustizia civile dalla fine degli anni settanta fino alla fine degli anni ottanta. L’autore racconta con ironia ed affetto il dramma ed anche il fascino dell’entropia del processo civile privo di qualsiasi forma di governo e controllo da parte del giudice, ignaro comprimario di una lunga sequenza di atti fino alla fase finale. Questa prima parte, amara, divertente, ricca di personaggi post bellici (il capo supremo, autoritario, di grossolana misoginia) e di figure umane complesse e sapienti, rappresenta “il mistero del processo” mutuando la felicissima espressione che dà il titolo ad una raccolta di saggi di Salvatore Satta.
Mistero buffo (il tribunale civile di Bologna era comunemente conosciuto come il piccolo zoo e all’interno di esso alcune deposizioni testimoniali sono descritte come numeri da clowns) e tragico allo stesso tempo per la rappresentazione di un concorde accidioso disegno volto a privare il processo di alcuna funzione, salva la troppo lungamente attesa ed inusitata decisione finale.
La parte narrativa si chiude temporalmente prima dell’avvio efficacissimo della stagione degli osservatori della giustizia civile e dei protocolli d’udienza che ha cambiato radicalmente il volto del processo civile ben più efficacemente delle martellanti modifiche normative (salvo quella che è stata introdotta dopo lunghissima gestazione dalla l. n. 353 del 1990 e che l‘autore non ha vissuto come giudice sul campo) che si sono susseguite soprattutto negli ultimi 15 anni e che purtroppo non accennano a cessare, anche se costantemente accompagnate da intenti di salvataggio, razionalizzazione, sblocco, celerità, tanto ostentati nel titolo e nelle relazioni accompagnatorie quanto irrealizzati ed irrealizzabili.
Le prassi virtuose, la crescita di una sensibilità organizzativa diffusa, elevata a criterio di selezione dei giudici da destinare a funzioni dirigenziali, secondo la potestà regolamentare del C.S.M., la crescente competenza informatica hanno prodotto tutti i risultati utili che potevano realizzare. I problemi, molto gravi, che affliggono la giustizia civile permangono anche in un contesto che ha mutato volto. Questa consapevolezza tutt’altro che rassegnata permea la seconda parte del libro.
Il registro non è più narrativo ma neanche saggistico almeno nel significato più algido e meno attraente del termine. La scrittura si conserva piacevole e mai accademica anche quando affronta contenuti molto seri come quello centrale e poco esplorato della progressivo “respingimento” della tutela dei diritti dal processo.
Le linee guida dei più recenti interventi legislativi sul processo civile, come viene efficacemente indicato nei capitoli 8 e 9 di “Salviamo la giustizia civile”, sono saldamente ancorate a due filoni d’intervento :
- Ridurre i tempi endoprocessuali della trattazione e della fase deliberativa, operando anche sulle tecniche di redazione della motivazione della sentenza;
- Adeguare le scarse risorse umane e strumentali destinate alla giurisdizione complicandone l’accesso, in nome della maggiore efficienza, rapidità e efficacia delle risposte che possono essere ottenute da operatori od “agenzie” diverse.
Sulla razionalizzazione dei tempi del processo le misure più incisive sono state quelle elaborate dai protocolli d’udienza, largamente condivise e dotate della flessibilità necessaria a scongiurare l’eterogenesi dei fini, a causa della quale “l’animo si smarrisce nel seguire il perenne sforzo degli uomini per creare adeguate forme di processo, ma più si smarrisce nell’osservare che questo sforzo è sempre condotto nel nome dell’antiformalismo, e quasi sempre sbocca in leggi che sono un’esasperazione del formalismo”. (S.Satta, Il mistero del processo, Milano, 1994, 88).
Sul secondo versante, la sensibilità costituzionale dell’autore traccia un quadro di allarmante gravità che non deve essere trascurato. Ciò che, condivisibilmente, viene contrastata è la generica, ottimistica previsione che lo spostamento dal processo e dall’esame di un giudice professionale, terzo, e sostenuto da robuste garanzie costituzionali d’indipendenza, di vari ambiti d’intervento giurisdizionale sia privo di rischi e determini un significativo miglioramento del sistema giustizia.
Senza un esame rigoroso dell’effettiva compatibilità costituzionale delle varie tipologie d’intervento in questo campo, il riconoscimento e l’attuazione giurisdizionale dei diritti delle persone può subire una contrazione ed un arretramento, richiedendo una professionalità ed una cultura costituzionale non così diffusa e non così diffusamente avvertita come necessaria per la soluzione dei conflitti. Soluzioni poco meditate possono determinare un vulnus non tollerabile alla luce dei parametri costituzionali indicati negli artt. 2,3, 24 e 111 Cost.
Maggiore cautela nell’attribuzione di settori d’intervento ai giudici onorari e doverosa selezione delle materie da degiurisdizionalizzare, oltre che rigorosa formazione degli uni e degli altri sono misure non procrastinabili.
L’attenzione dell’autore non si esaurisce, però, nel richiamo all’irrinunciabilità della giurisdizione così come delineata dal nostro costituente ma si sofferma anche sulle effettive gravi disfunzioni della giustizia civile. Alla complessiva operosità e diligenza riconosciuta anche in sede europea corrisponde un prodotto inadeguato, sotto il profilo dell’efficienza temporale e talvolta dei contenuti. Le ragioni sono note.
Le misure non possono che investire la variabile risorse, rimasta immutata ed anzi progressivamente erosa sia con riferimento alle risorse umane (il personale amministrativo è in numero esiguo). Le più ragionevoli sono efficacemente descritte nell’ultimo capitolo. Tutte le altre sono da scongiurare.
Salviamo la giustizia civile anche dalla compulsività non meditata degli interventi legislativi, salviamola dalle misure demagogiche, dalla fretta di rispondere alle richieste dell’Unione Europea e conserviamone la dimensione costituzionale.