Da più di cinque anni svolgo le funzioni di presidente di una delle due sezioni civili che nel tribunale di Napoli si occupano di esecuzioni; periodo lungo abbastanza da avermi consentito di conoscere e lavorare con più presidenti di tribunale e con molti colleghi presidenti di sezione.
In questo lasso di tempo, ho preso parte a numerosi incontri plenari con i capi dell’ufficio e con gli altri colleghi presidenti di sezione, sia in occasione delle periodiche scadenze di adempimenti amministrativi (redazione dei format ex art. 37; predisposizione delle relazioni sull’andamento della giustizia), sia per esigenze specifiche e puntuali.
L’oggetto pressoché esclusivo ed unificante di questi incontri è stato, in generale, l’analisi dei “numeri”: le pendenze, gli arretrati, i flussi, le sopravvenienze; e questa tendenza è andata ad aumentare a seguito del PNRR, che ci impone di raggiungere ambiziosissimi obiettivi numerici in termini di abbattimento dell’arretrato e di riduzione del cd. disposition time.
In tutto questo, “cosa” decida il nostro ufficio, e “come” lo decida, mi è apparso sempre meno rilevante; o, per meglio dire: nient’affatto rilevante.
Beninteso: non ne faccio una “colpa” né ai presidenti di tribunale, pressati da istanze provenienti dall’esterno; né tanto meno ai colleghi presidenti di sezione, a loro volta preoccupati, da un lato, per i carichi di lavoro dei giudici, e, dall’altro, per i ritardi oggettivi della risposta di giustizia. E, del resto, anche io in tutte queste riunioni non ho fatto altro che discettare di “numeri”, di come fare per avvicinarci ai target del PNRR, di come interpretare i segnali, volta a volta negativi o positivi, desumibili dalle statistiche periodiche, ecc.
Tutto questo pensavo, giorni fa, di ritorno da una di queste riunioni: possibile che il nostro lavoro sia questo? Che non interessi a nessuno, forse nemmeno più a noi stessi, cosa e come decidiamo, ma solo quanto “smaltiamo”? La giurisdizione civile è ridotta solo ad un “calcolo”, ad un “conto” aritmetico?
Il giorno dopo, con la presidente della sezione “gemella” della mia, avevamo indetto una riunione ex art. 47 quater ord. giud., alla quale hanno preso parte quasi tutti i colleghi appartenenti alle due unità. Molti erano gli argomenti all’ordine del giorno, tra cui quelli, immancabili, sull’andamento dei flussi; ma avevamo previsto anche uno spazio di approfondimento per una riflessione su un tema particolare: la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, del 17 maggio 2022, su un rinvio pregiudiziale del Tribunale di Milano, ad opera di un collega da poco trasferitosi a Napoli ed ora in forza proprio ad una delle nostre sezioni; nonché la decisione recentemente assunta dal medesimo collega, ma stavolta proprio come giudice dell’esecuzione del Tribunale di Napoli, in un’opposizione all’esecuzione, in coerenza coi principi espressi dalla corte del Lussemburgo nella decisione di maggio. Il tema – molto tecnico – è quello dei limiti del giudicato formatosi a seguito di mancata opposizione a decreto ingiuntivo emesso in materia consumeristica nel caso in cui non risulti che il giudice del monitorio abbia svolto un’indagine circa la non abusività delle clausole contrattuali in danno del consumatore; e, conseguentemente, dei poteri/doveri spettanti al giudice dell’esecuzione.
Ne è sorta una interessantissima discussione, animata dalla passione del collega autore delle ordinanze di rimessione alla CGUE, prima, e della ordinanza sull’opposizione all’esecuzione, più di recente. Il confronto tra le tesi tradizionali (la non opposizione del decreto ingiuntivo determina il giudicato; il giudice dell’esecuzione non può riesaminare nel merito un titolo esecutivo di natura giudiziale) e la, per certi versi dirompente, prospettiva eurounitaria ha suscitato prese di posizione, interventi, un dibattito vivace, iniziato ma non certo concluso, proseguito nei giorni successivi e che ancora proseguirà.
Sullo sfondo di queste discussioni in diritto, c’era sempre un “racconto”: quello delle vicende di anonimi consumatori che, normalmente, non reagiscono (né molto spesso sanno di poter reagire o come poter reagire) di fronte a clausole abusive, e per la cui tutela l’ordinamento eurounitario impone al giudice nazionale un dovere di ingerenza nel contratto, per garantire una tutela (che è anche tutela della concorrenza) altrimenti destinata a fallire, persino in fase esecutiva.
Un racconto che mi ha richiamato alla mente quello di un grande scrittore, Emmanuel Carrère, che, nel romanzo Vite che non sono la mia, narra la vicenda del giudice Juliette (che ancor di più è al centro del film Tutti i nostri desideri, che a quel romanzo è ispirato), animata da una grande attenzione verso la tutela dei soggetti deboli, stritolati dalla macchina impietosa del consumismo, e capace di grandi sfide proprio mentre la salute, e la vita, la abbandonano.
Ma allora, mi sono detto, la giurisdizione civile non può e non deve essere ridotta solo a “conti”; la giurisdizione civile è fatta anche di “racconti” di vite, di tante piccole storie, a volte minime (come quelle alla base dei decreti ingiuntivi “b2c”, ossia business to consumer), che meritano di essere esaminate ed approfondite nelle nostre sentenze anche oltre i formalismi giuridici; sentenze che devono valere non in quanto numeri, e che devono basarsi sempre su uno sforzo di comprensione e su un’ansia di “giustizia”, che metta al centro la tutela dei diritti, anche quando apparentemente minimi o economicamente trascurabili.
Mi tornano alla mente le parole proprio dei giudici francesi, che, schiacciati – come noi – da un’ansia produttivistica, in un appello firmato un anno fa da migliaia di magistrati affermarono: «la nostra giustizia soffre di una logica razionalizzante che disumanizza e tende a trasformare i magistrati in operatori statistici là dove, più che altrove, è anzitutto questione di umanità. Con forza, intendiamo rammentare che la nostra volontà è quella di rendere giustizia con indipendenza, imparzialità e attenzione per gli altri, come esige ogni società democratica».
Forse questo è il senso di questi pensieri sparsi: gli obiettivi del PNRR; gli sforzi, senz’altro necessari, per centrarli; l’attenzione ai numeri ed al rapporto tra sopravvenienze e smaltimenti; non possono e non devono snaturare la funzione dei giudici (e dei giudici civili per quel che mi riguarda più da vicino); non si può misurare il lavoro del giudice (solo) col criterio del rapporto tra sopravvenienze e smaltimenti o del tempo impiegato per eliminare ogni fascicolo. E’ necessario – anche – rivendicare con orgoglio il diritto (che è un dovere verso i cittadini) di dedicare ad ogni controversia il tempo, tutto il tempo necessario, che quella vicenda, quel “racconto”, impone, senza farsi bloccare dalla necessità di “far presto” in vista di obiettivi puramente numerici.