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Il “minore” autore del reato non è un nemico*

di Cristina Maggia
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Genova
Si tratta piuttosto di un soggetto in cammino verso la maturità, da responsabilizzare rispetto alla condotta deviante e alle sue conseguenze, da responsabilizzare soprattutto in ordine al danno anche esistenziale patito da chi ha subito il reato, tutto ciò approfondendo la sua conoscenza individuale

Sono un giudice minorile di vecchia data e di grande passione, che ha accettato l’invito soprattutto per testimoniare la modalità di lavoro “diversa” che connota il mondo minorile, dove si trattano soprattutto vicende personali e dove è consentito, più frequentemente che altrove, il raggiungimento di una giustizia sostanziale, affinché le dimensioni personali e sociali si possano ricomporre in un percorso di senso.

Questo stile “altro” negli anni ha portato risultati assai positivi in termini di recupero e benessere sociale, senza che vi abbiano fatto ingresso logiche securitarie, mentre permane invariata l’attenzione alla persona e non alla “categoria” rappresentata da un certo individuo.

Personalmente ho spesso riflettuto su quanto molto spesso la verità legale, che si occupa del colpevole da punire, sia lontana dalla verità soggettiva o sociale, di quanto il penale degli adulti abbia fallito, di quanto sia irrealistica l’idea che la condanna alla pena della reclusione possa di per sé stessa provocare la rieducazione del reo e il suo recupero alla vita civile.

Ciò soprattutto in quelle situazioni, e sono la maggior parte, in cui la violazione è in realtà sintomo di esclusione sociale e di marginalità o di problematiche psichiatriche, e non di scelte devianti che siano davvero libere e consapevoli.

La ventennale pratica del processo penale minorile ha mantenuto alto l’entusiasmo, una volta tanto, per un legislatore che nel 1988, ebbe il coraggio di fare scelte contro corrente, scelte di ricostruzione e di recupero di speranza e di nonstigmatizzazione del reo, scelte che ancora, dopo quasi 28 anni, funzionano.

Forse proprio la protezione del minore anche dal massacro dei media, ha consentito di sottrarre la materia penale minorile alle stigmatizzazioni e generalizzazioni degli organi di informazione e ci ha consentito di lavorare senza troppi condizionamenti esterni.

Dunque mi muovo male nei binari dati dal titolo della tavola rotonda di oggi perché il minore autore di reato che compare davanti alla autorità giudiziaria minorile NON è un Nemico, anche quando porta su di sè le caratteristiche legate a una provenienza etnica e culturale altra.

Non è un nemico né da reprimere né con cui riconciliarsi, ma piuttosto un soggetto in cammino verso la maturità, da responsabilizzare rispetto alla condotta deviante e alle sue conseguenze, da responsabilizzare soprattutto in ordine al danno anche esistenziale patito da chi ha subito il reato, tutto ciò approfondendo la sua conoscenza individuale.

Questo è il messaggio che passa costantemente nelle aule giudiziarie minorili, che si tratti di penale, ma anche di civile, perché ogni intervento, per quanto rigoroso, è sempre esente da giudizi di valore avendo al contrario bene in mente il recupero del benessere per quel minore che a quel benessere ha diritto.

Che sia, nel penale, il recupero del minore (straniero, islamico, sudamericano o italiano) ad una esistenza armoniosa, in quanto visto nella sua globalità sia come autore di reato che al contempo vittima di una condizione familiare inadeguata

Che sia, per il civile, il recupero delle capacità genitoriali, la ricostruzione di legami affettivi o, nei casi estremi, il recupero della qualità della vita per un piccolo abusato o abbandonato da coloro che avrebbero dovuto proteggerlo.

La magistratura minorile, anche attraverso la giurisdizione, nell’osservanza delle regole e dei diritti di ognuno, investita da compiti di prognosi rispetto alla qualità delle relazioni familiari, persegue il benessere delle persone, il che porta inevitabilmente ad un ritorno di benessere sociale.

Ovviamente non in modo auto-riferito bensì con la forzata specializzazione data dalla presenza dei giudici onorari, insieme ad altri operatori che del welfare si occupano per finalità istituzionali, insieme alla difesa, ma soprattutto con la “partecipazione” attiva del minore nel penale e della famiglia nel civile.

Giurisdizione “mite” qualcuno amava definirla.

Mi è quindi assai gradita l’occasione di parlare di questo modo di lavorare, poco conosciuto sia ai colleghi, sia agli avvocati: solo un piccolo drappello di avvocati si specializza infatti in questioni ritenute a torto da tutti “minori”.

La giurisdizione minorile non è neppure conosciuta dai politici (moltissimi dei quali sono avvocati) che proprio di questi tempi, nel silenzio dei mezzi di informazione e nell’ignoranza della società civile che gravita intorno ai Tribunali per i Minorenni, avendo fatto istruttorie a mio parere carenti con coloro che saranno i destinatari di tali norme,(non solo magistratura e avvocatura, ma servizi, sociali e sanitari, associazioni etc) semplicemente ignorando la qualità del comparto penale, e il lavoro civile di prevenzione svolto dalle Procure Minori, pensano di riformare, sopprimendola, una delle poche eccellenze della giustizia italiana .

Gli obiettivi mi sono francamente oscuri, forse per un supposto risparmio, peraltro non calcolato, o per “normalizzare” chi pensano a torto che non lavori abbastanza, o piuttosto solo per fregiarsi di una cosiddetta riforma al fine di superare una frammentazione che si sarebbe potuta superare solo con adattamenti processuali finalmente chiari che da sempre auspichiamo.

Il “mantra” del riformatore è racchiuso in due parole assai generiche e assolutamente condivisibili “specializzazione e superamento della frammentazione” che certamente colpiscono positivamente i non addetti ai lavori, ma che non hanno alcun significato reale se valutate in concreto, perché la specializzazione esiste già dal 1934 e sarebbe stato possibile migliorare la frammentazione, come dicevo, anche solo introducendo riforme processual-civilistiche che da anni auspichiamo.

Invece si rischia di buttare a mare anni di cultura minorile, gettando il bambino con l’acqua sporca, senza alcuna attenzione alla vera grande riforma da attuare, legata alla istituzione di un Tribunale unico per i minori e la famiglia che da anni si chiede venga istituito e che avrebbe dimostrato nel legislatore un pensiero evoluto e di prognosi futura.

Come avrete capito è un tema che mi appassiona, ma non è inerente ai discorsi di oggi.

Tornando alla qualità e alla particolarità del processo penale minorile affermo con convinzione che il DPR 448 /88 è ancora una legge attualissima, che ha consentito di raggiungere ottimi risultati, riconoscendo ciò che sembra banale ma non lo è: che il minore non va trattato da adulto e che gli vanno dedicate risorse di pensiero e dimezzi, non potendo essere valutata in termini esclusivamente numerici un’operadi costruzione rivolta ai ragazzi, cioè al nostro futuro..

In particolare la positività della mia valutazione è cresciuta conoscendo gli altri sistemi penali minorili europei, quelli dei Paesi che di norma percepiamo come più civili del nostro, quelli, per restare in tema, dove proprio le fasce giovanili non integrate nel tessuto sociale hanno costituito l’humus, il terreno di coltura di azioni terroristiche: nel confronto emerge evidente come l’impostazione appartenente al nostro sistema paghi in termini di quasi azzeramento della recidiva.

Nessun sistema europeo brilla come quello italiano per civiltà e prospettiva prognostica, per la presenza del minore al centro della sua vicenda penale.

Nessun Paese europeo ha come in Italia, almeno fino ad ora, una magistratura specializzata, sia requirente che giudicante, servizi ministeriali specializzati e una polizia giudiziaria specializzata.

I risultati sono noti: la nostra criminalità minorile è stabile, tendente al ribasso nonostante i processi di immigrazione.

Al contrario nel Regno Unito, in Francia, in Germania i numeri aumentano e sacche di criminalità minorile crescono nella rabbia e nel rancore nei confronti di sistemi che non sembra abbiano avuto sufficiente attenzione a reali processi di inclusione, al recupero, alla educazioneancor prima che alla ri-educazione.

Il loro pensiero è semmai quello di ulteriormente abbassare la già bassissima età imputabile: per arrestare bambini evidentemente.

Esempio lampante di ciò che dico è la recentissima direttiva europea, approvata dal Parlamento Europeo nel mese di marzo (curiosamente mentre la nostra Camera approvava a larga maggioranza la soppressione dei Tribunali e delle Procure per i minorenni) con la quale i principi che da 25 anni appartengono al nostro processo penale minorile vengono assunti come indirizzi cui gli altri Stati membri dovranno uniformarsi.

In alcuni paesi UE i minori sono reclusi insieme agli adulti, vengono sentiti senza l’obbligo del difensore da una magistratura e da una Polizia non specializzata.

Ma tornando al NEMICO che nemico non è.

L’obiettivo della normativa penale minorile italiana è la tutela della realtà evolutiva del minorenne dall’impatto con l’esperienza giudiziaria, definita di persé stessa dannosa e traumatizzante, tanto che si impone la più rapida fuoriuscita del minore dal processo.

Il processo penale minorile è improntato a principi di civiltà come :

- la attiva partecipazione del ragazzo alle varie fasi processuali, della cui spiegazione l’Autorità Giudiziaria e i Servizi sociali del Ministero devono farsi carico;

- la comprensione della particolarità di quel determinato soggetto e del livello piùo meno avanzato del suo percorso di crescita che non è uguale per tutti;

- la personalizzazione dei percorsi riparativi, tarati non soltanto sulla gravità del reato commesso, ma in forte considerazione dei bisogni di quel soggetto in formazione.

È ispirato a principi come futuro, speranza, possibilità di ricostruire la stima disé danneggiata da una scelta impulsiva e sbagliata che non deve però impedire di riprendere un buon cammino, magari proprio nell’incontro con la vittima.

Supporto personalizzato, cura del bisogno, aiuto all’integrazione sociale sono concetti che pagano in termini di recupero ben più di quelli legati all’esclusione, alla chiusura, all’isolamento.

E i dati parlano chiaro, certamente in Liguria, ma non è molto diverso a livello nazionale, idue terzi dei minorenni denunziati sono italiani, solo un terzo delle denunce è nei confronti di ragazzi stranieri.

La maggioranza di questi sono rom o minori stranieri non accompagnati, di passaggio e non radicati sul territorio: dunque gli stranieri residenti stabilmente sono bravissimi, rispetto ai ragazzi italiani, contrariamente a ciò che si legge o si ascolta.

Quindi il nemico è in casa nostra, sono i nostri figli viziati e narcisi, cresciuti senza argini e limiti da genitori deboli, assenti o iper protettivi e terrorizzati all’idea di poter non essere amati dicendo dei NO.

Tuttavia ciò che colpisce la pancia della pubblica opinione non sono mai i nostri figli, ma i “comunque diversi dei quali non ci si chiede mai, a livello di informazione chi siano e in quali condizioni abbiano vissuto prima della commissione del reato e cosa, specie se minorenni, li abbia spinti a commetterlo.

Non certo per giustificare o tollerare, ma per capire e quindi, capendo, intervenire in modo produttivo e costruttivo, non solo per loro, ma per tutti e per la sicurezza di tutti.

Ciò che colpisce la fantasia e le pance sono ad esempio i reati commessi da baby gangs di latinos o ancora peggio di soggetti portatori di svariate diversità, stranieri a sé stessi, abitanti in contesti urbani degradati sotto il profilo umano, a volte non scolarizzati e non integrati, in ogni caso persone in condizioni di solitudine emotiva, disperatamente in cerca di appartenenza.

Qualsiasi appartenenza purché in gruppi nei quali si sentano accolti e “uguali” agli altri, in cui i codici di comunicazione siano simili.

La commissione di gruppo del reato violento, spesso in danno di altri soggetti minorenni, appare una forma di riscatto, di rivolta alla umiliazione della non integrazione. Non è la volontà di impossessarsi del telefonino come oggetto desiderato, ma lo sfregio nei confronti del coetaneo che non solo ha il cellulare ultimo modello, ma casa, famiglia, riconoscimento sociale.

Per costoro la banda può diventare un surrogato di famiglia, un luogo dove è più facile stare, rispetto alla scuola, al lavoro che non c’è e che da soli non si è neppure in grado di cercare, un luogo in cui si parla la medesima lingua e ci si sente compresi.

Ogni individuo in condizioni di solitudine cerca una appartenenza, magari incappando nella più sbagliata.

Combattiamo la solitudine quindi, accogliamo, non etichettiamo, non ghettizziamo, costruiamo anche prima, a livello di interventi territoriali, a livello di scuola e di luoghi di aggregazione, percorsi di vera accoglienza. L’odio e la contrapposizione forte, magari anche terroristica si alimentano dove c’è solo giudizio, rifiuto senza insegnamento e senza possibilità di una via d’uscita migliore

Abbiamo detto che le denunce sono solo un terzo contro stranieri, che le condanne sono assai poche a causa dei percorsi riparativi favoriti dal processo, però i minori in stato di detenzione (solo 450 in tutta Italia contro i 17.000 giudicati a piede libero) sono per la stragrande maggioranza, pari al 90%, stranieri.

Naturalmente di questi un gran numero è di religione islamica, ma la loro religione non li trasforma automaticamente in baby terroristi in formazione.

La possibilità di perderli e magari che essi entrino nei ranghi di organizzazioni integraliste è data soprattutto dalla possibile mancanza di percorsi direinserimento e dalla mancanza di cura che possono avere ricevuto, è data anche dalla modalità, più o meno affettiva degli interventi.

L’elemento affettivo è importante per tutti, ma specialmente per un ragazzo deprivato, che cerca disperatamente qualcuno che si interessi davvero a lui, qualcuno dal quale accettare anche rimproveri o sanzioni, purché siano empatiche.

Dunque, in assenza di alternativa, l’organizzazione terroristica può diventare un luogo di appartenenza in cui, insieme ad altri con esperienze simili, si sentono riconosciuti, accettati, valorizzati, come non è accaduto altrove e prima.

I pochissimi condannati minorenni detenuti sono coloro che nel corso del processo non hanno avuto alle spalle una famiglia, o un sostituto di famiglia, o un servizio,che li sostenesse nell’affrontare i possibili impegni previsti dalla legge per traghettarli oltre e fuori dal processo, significa che sono i ragazzi più soli e non i più cattivi.

I davvero pericolosi sono pochi, i sofferenti tutti, al limite della salute mentale, come risposta ad esistenze dolorose e traumatizzanti, con un destino che sembra ineluttabile, con modalità oppositive e provocatorie che mascherano la paura di non essere adeguati, di non essere amati .

Nel giudicarli vanno tenute in grande considerazione l’impulsività, la rabbia, la mancanza di pensiero, il conformismo dato dall’insicurezza e dalla bassa stima di sé insiti nella età adolescenziale.

I percorsi riparativi del processo penale minorile non sono percorsi “buonisti”, portano alla responsabilizzazione rispetto all’agito, al danno cagionato all’altro, portano alla conoscenza e alla esperienza del “limite” come regola da rispettare, non come chiusura fisica e come isolamento, sempre tenendo conto della particolare situazione di ognuno.

Questa è la profonda diversità fra la giustizia minorile e quella ordinaria: la conoscenza della persona, imposta al giudice minorile, che consente di calibrare su ciascun individuo e sulle sue particolari caratteristiche un cammino di ricostruzione rispetto al passato che parta da ogni singola e particolare situazione di partenza.

Solo così il “gap” fra verità legale e verità soggettiva può essere colmato, partendo dalla conoscenza della persona.

Al contrario per gli adulti, per i quali comunque l’occhio del giudice è rivolto necessariamente solo al passato, a ciò che è accaduto, e non al futuro, la conoscenza della personalità dell’imputato e dell’ambiente in cui il reato è maturato è addirittura proibita, è alla sola azione delittuosa che si guarda, senza nulla conoscere della persona che l’ha commessa, quindi è difficile immaginare di poter impostare percorsi di crescita personale prima della fase esecutiva.

La messa alla prova, splendido strumento a disposizione del processo minorile collaudato da 25 anni, è un “vestito su misura” per quel particolare ragazzo.

E vi assicuro che lo sguardo di un ragazzo alla fine di un percorso di messa alla prova ben svolta è totalmente diverso da quello torvo, rabbioso e oppositivo di quando era entrato in aula al momento della convalida dell’arresto, perché il percorso di crescita personale trasforma e restituisce dignità e valore di sé.

La conseguenza è che una persona che ha stima di sé, italiana, islamica o rom, minorenne o maggiorenne, difficilmente si butterà via, difficilmente porrà in essere altre condotte trasgressive e in fondo auto distruttive.

Su questo occorre lavorare e prendere dal mondo minorile strumenti collaudati che possano essere esportati, adattandoli, nel processo degli adulti. Senza però, come spesso avviene, dare ricette veloci, apparentemente facili, che semplificano la complessità, quasi negandola e rischiano di non risolvere il problema.

Diverse sono le due tipologie di messa alla prova: quella minorile va direttamente ad incidere sulla formazione della personalità e si riassume in un percorso nel quale, più delle azioni materiali compiute, conta l’evoluzione individuale del singolo, valutato in termini assolutamente specifici. In questo percorso deve giocoforza essere coinvolta tutta la sua famiglia e il suo ambiente di affetti, entrambi elementi forti su cui serve puntare. È una messa alla prova costosa in termini di complessità del lavoro da svolgere e di operatori coinvolti, lavoro non solo organizzativo, ma psicologico anche di sostegno alle inevitabili cadute, che continua però a dare risultati straordinari.

Altro è la messa alla prova pensata per il processo degli adulti, nei confronti dei quali come si è detto, è vietato qualsiasi approfondimento della personalità e delle ragioni che hanno favorito la scelta delittuosa: sarà pertanto necessariamente una messa alla prova che comporta un fare, più che un pensare.

Purtroppo un istituto così utile è stato immaginato avendo a mente solo i limiti di pena e non piuttosto la tipologia dei reati in funzione dei quali sarebbe servita.

Penso infatti ad esempio alla varia gamma dei reati di violenza intra-familiare, che ingombrano i tavoli dei Pubblici ministeri e che dalla messa alla prova sono esclusi proprio per limiti di pena.

Si tratta di condotte che hanno alla base un modo malato di intendere le relazioni affettive, spesso appartenente sia all’autore che alla sua vittima, in un incastro patologico e dannoso, la cui origine è antica e risale alle esperienze affettive precocidei due soggetti. Modalità che avrebbero bisogno di percorsi del tutto diversi dalla pena carceraria, percorsi di cura, di recupero di consapevolezza, di apprendimento del controllo dell’impulsività.

Ma nulla si è pensato e così il maltrattante adulto appena uscito dal carcere, dove avrà certamente avuto un’ottima condotta quotidiana, in assenza di tematiche affettive, troverà un’altra vittima e tutto ripartirà come prima.

Altro esempio significativo è quello della mediazione, attività che da anni si organizza nel processo penale minorile già dalla fase delle indagini preliminari.

La mediazione tenta di contrapporsi all’egocentrismo dilagante e insegna a vedere l’altro, dando voce e spazio di ricostruzione alla vittima.

La paura, l’umiliazione, il senso di impotenza generati nella vittima dal reato non guariscono senza un cammino .

Magari con il processo e la condanna del reo il senso di rabbia e il rancore trovano apparente soddisfazione, ma non trovano certamente cura, né tantomeno trovano cura nella condanna del reoal pagamento di un prezzo: per guarireoccorreun percorso individuale che non può essere fatto solo di denaro.

Ecco nel processo minorile, dove non a caso non è prevista la possibilità di costituirsi parte civile, perché il minore non ha capacità economica e perché il processo tende soprattutto al recupero del ragazzo imputato, la sperimentazione della mediazione, nel dare rilievo ad una vittima per definizione assente, ha portato enorme arricchimento non solo ai ragazzi (autori e vittime) direttamente coinvolti, ma anche alle loro famiglie.

La mediazione penale accompagna gli uni e gli altri (autori, vittime e loro famiglie) in un percorso teso a vedere l’altro da sé, i diritti dell’altro, i dolori dell’altro e non solo i propri, accompagnamento fondamentale proprio alla luce del forte narcisismo ed egocentrismo che caratterizzano ogni età adolescente, in particolare nella nostra epoca storica.

È un apprendimento che, una volta acquisito, resta un patrimonio operativo e di conoscenza positivamente spendibile in occasione di ogni eventuale altro e futuro conflitto in cui il soggetto dovesse incappare. È come l’andare in bicicletta: una volta imparato non si dimentica.

Questi benefici percorsi di mediazione sono però possibili solo a tratti in funzione dell’assenza di risorse che diano stabilità ai progetti, dell’assenza di una“cultura” della mediazione e della diffidenza con cui gli appartenenti al mondo giudiziario affrontano tutto ciò che non sono in grado di “controllare.

L’introduzione della mediazione a vari livelli non solo penali, ma di comunità, o scolastici, (penso anche a fasce di età assai piccole) potrebbe portare ad attenuare il senso di insicurezza dato dalla non conoscenza del diverso da sé e a favorire la cultura dell’accoglienza.

Occorre tempo, occorre pazienza, occorre aspettare che una mentalità attecchisca, occorre l’aiuto anche da parte di coloro che fanno informazione e cultura e il loro impegno a non “giocare con le pance” delle persone.

Occorre soprattutto un investimento reale e non solo promesso che renda possibile davvero il cammino, allora ci saranno forse meno nemici.

In assenza di azioni concrete, che non possono costare zero, i diritti restano semplici parole sulla carta.



[*] Intervento tenuto a Parole di Giustizia 2016, La sicurezza tra paura e diritti, Sessione Sicurezza, intervento giudiziario, diritti, (I) Lo Stato e il nemico: reprimere; (II) Lo Stato e il nemico: riconciliare, La Spezia 15/16 aprile 2016, seminario annuale dell’Associazione studi giuridici Giuseppe Borré.

05/07/2016
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