Sommarietto: 1. Premessa. – 2. La legge elettorale proporzionale del 1948 e le ragioni sistemiche della sua persistenza; - 3. L’esperienza del ventennio 1993-2013; - 4. La legge elettorale (c.d. Italicum): prime considerazioni
1.- Pur in via preliminare ed in modo sintetico, obiettivo di queste iniziali considerazioni è quello di dar conto di alcune delle principali ragioni che hanno portato all’adozione della legge elettorale c.d. Italicum, segnalando alcuni degli aspetti che si ritengono più utili ad incentivare un meccanismo di rafforzamento di una democrazia europea di tipo bipolare e decidente contenuti, appunto, nella legge 6 maggio 2015, n. 52.
2.- In tema di legislazione elettorale, salvo il brevissimo periodo in cui la continuità fu interrotta dalla legge 31 marzo 1953, n. 148 – la legge di tipo maggioritario fortemente voluta dalla Democrazia cristiana durante l'intermezzo di funzionamento, appunto, di tipo maggioritario della nostra forma di governo, nella quale, per un'eterogenesi dei fini, la polarizzazione su Alcide De Gasperi e sul Fronte Popolare determinò il realizzarsi di una forma di governo all'inglese (pur nella reciproca delegittimazione politica, evidentemente, non eliminabile) -, l'esperienza dell'ordinamento italiano ha visto applicata per quarantasei anni la legge elettorale di tipo proporzionale introdotta nel 1948, ricalcata sullo schema adottato per la Assemblea Costituente.
Quella scelta, come noto, fu operata da un lato, perché il sistema elettorale proporzionale rappresentava il corrispettivo dell'immodificabilità nel posizionamento —internazionale ed interno — del nostro Paese in ragione della c.d. guerra fredda, rappresentando infatti la traduzione sul piano del sistema elettorale di quella conventio ad excludendum del Partito comunista dall'area del governo, poi delineata in dottrina da Leopoldo Elia; dall’altro, perché la scelta proporzionale consentiva liberamente agli sregolati arbitri assoluti della decisione politica nel nostro ordinamento costituzionale, cioè i partiti politici, di determinare dinamiche di movimento tra di loro, crescendo ed alleandosi liberamente a volte con l’uno a volte con l’altro, senza che ciò stesso avesse potuto determinare scelte che avrebbero arrecato danni sistemici reali alla neo-nata Repubblica, sorta sulle ceneri del regime fascista.
Eppure, nel progressivo apprendimento della democrazia da parte di tutti gli attori politici e nell’immodificabilità politica della cornice sistemica di posizionamento esterno del Paese, la legge elettorale proporzionale tuttavia non venne mai costituzionalizzata. Perché ciò non avvenne?
La ragione trova fondamento nella consapevolezza propria delle stesse forze politiche, le quali ben sapevano che le ragioni del proporzionalismo a livello nazionale erano legate, appunto,ad uno specifico contesto internazionale, potenzialmente transeunte; pertanto sarebbe stato un eccesso di rigidità costituzionalizzare la legge elettorale, come la ben nota esperienza di Weimar mostra.[1]
D’altronde, come scriveva nella sua relazione per l’elaborazione della legge elettorale per l’Assemblea costituente lo stesso Ministero per la Costituente«nessun procedimento elettorale è perfetto; tutti sono relativi alle condizioni politiche e sociali di un popolo in un dato periodo storico e i risultati dipendono non tanto dal mezzo strumentale, quanto dalla coscienza e dalla maturità politica di chi ne usa».[2]
Se dunque la legge elettorale è uno testo espressivo di un contesto, uno strumento scevro – se si vuole – di particolari cariche valoriali, va detto che su questa base, per quasi cinquanta anni, l’ordinamento costituzionale repubblicano, fondato su un bicameralismo indifferenziato pensato per frenare la decisione politica, si è determinato in piena consapevolezza, tanto dei leaders dei partiti politici, quanto, più largamente, delle stesse elites dirigenti, dentro la scelta di un meccanismo proporzionale di trasformazione dei voti in seggi quasi puro, per appunto le ragioni di apprendimento democratico, di integrazione sociale e di mantenimento delle scelte internazionali storicamente definite, allora, tra il Patto di Salerno e il Piano Marshall.
Pertanto, la logica proporzionalistica che, tra sistema elettorale, sistema politico-partitico e forma di governo, aveva dominato dal 1948 trova il suo punto di rottura solo quando vengono meno tanto le ragioni politico-istituzionali di contesto esterno che proteggevano il sistema elettorale da un suo cambiamento[3], quanto quelle di contesto interno[4].Così, nonostante più volte si sia dimostrata la sua incapacità di offrire prestazioni sul piano della governabilità – tanto invocata a parole, poco voluta nei fatti - la legge proporzionale entra definitivamente in crisi, a fortiori già fiaccata dall’esito del referendum elettorale del 9 giugno 1991, che chiedeva l'abrogazione della preferenza plurima nella legge elettorale della Camera dei Deputati, per essere poi abbattuta definitivamente tramite il referendum del 18 aprile 1993.
Pertanto, nell’agosto di quell’anno, il sistema politico-partitico in fase di grande transizione si dota di due nuove leggi elettorali per ciascuna camera — le leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277 —, basate su un chiaro impianto di tipo maggioritario, che giornalisticamente presero il nome di «Mattarellum», dal nome del suo relatore alla Camera, Sergio Mattarella.
3. Nel momento in cui l'ordinamento italiano introduce la sua terza (ossia il c.d. Mattarellum, le leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277) e poi, dieci anni dopo, la sua quarta legge elettorale (ossia il c.d. Porcellum, la legge 21 dicembre 2005, n. 270), si può ormai iniziare a valutare quel ventennio (1993-2013) di un diverso bipolarismo, fondato tendenzialmente sull’alternanza tra centro-sinistra e centro-destra, che ha caratterizzato la seconda fase della Repubblica.
Questo periodo - fatto di sei elezioni, tredici governi e due leggi elettorali (e se si vuole, per relationem, pure di tre fallite Commissioni bicamerali per le riforme costituzionali)– si viene a caratterizzare per alcuni evidenti continuità che, nonostante le differenze tra i meccanismi e gli strumenti di funzionamento delle stesse due leggi elettorali adottate, appunto, in quell’arco temporale, producono per larga parte gli stessi effetti.
Innanzitutto, nel mantenimento di un sistema di bipolarismo incerto e fragile, caratterizzato da alternanza politica, si ritrova chiaramente il primo vulnus del nostro modello democratico, ossia una debolezza ed un'instabilità politica ancora troppo rilevante dei governi post-elettorali. Infatti, nonostante i notevoli passi avanti rispetto all'instabilità degli esecutivi del periodo 1948-1993, appare a tutti evidente, anche semplicemente in termini numerici, che la bassa tenuta del governo post elettorale durante tutta la legislatura rappresentiancora uno dei punti non risolti di una transizione politico-istituzionale aperta che, nei vent’anni trascorsi, non è ancora conclusa.
D’altronde, la natura ibrida di entrambe le leggi elettorali, incapaci di stabilizzare definitivamente il bipolarismo, non riuscendo ad eliminare da esse gli elementi spuri, ne contaminava la logica di tipo bipolare e maggioritaria, tipica di una democrazia decidente e dell’alternanza (ad esempio, nelle leggi Mattarella, la parte proporzionale del 25%, che, insieme con lo scorporo, per ben due volte (1999 e 2000) si è riuscita a salvare, grazie all’aiuto dei partiti, dall’essere abrogata per via referendaria; oppure, nella legge Calderoli, i premi al Senato su base regionale, che hanno rappresentato non poco il problema di una ingovernabilità assicurata, volutamente perseguita).
E poi vi erano le incoerenze che venivano incentivate nel formare coalizioni politiche eterogenee fra loro, con soggetti politici che stavano insieme più per convenienza che per convinzione (come si dice spesso: per vincere, più che per governare).
Inoltre come non considerare che l’aver alimentato una diffidenza, per non dire una vera e propria resistenza, ad un riconoscimento politico reciproco tra le stesse forze politiche in Parlamento di fronte all’alternanza del governo, ha portato ad una delegittimazione continua dell’avversario, pur dovendo, come noto, le stesse forze politiche, poi, tentare comunque un accordo, lungo e duraturo, in vista delle necessarie riforme costituzionali?
Questa schizofrenia ha reso così oltremodo difficile rendere chiaro all’elettore quale logica, di volta in volta, veniva perseguita a maggior ragione nelle campagne elettorali da parte dei partiti, che si presentavano all’elettore, oscillando tra una propaganda “modello-Westminster” e una modello “resistenza-al-fascismo”.
Pertanto, pur nella consapevolezza chiara delle due matrici distinte, si può dire sinteticamente[5], che le due leggi elettorali del primo ventennio del bipolarismo, in fondo, siano accumunate dall’essere state entrambe incoerenti rispetto agli obiettivi che, in via generale, cercavano di perseguire[6], evidenziando ed alimentando, proprio grazie alle loro incoerenze tra logiche di funzionamento solo in parte di tipo maggioritarie ed effetti, invece volutamente, di tipo proporzionali, sia gravi fenomeni di trasformismo parlamentare (basti pensare alla progressiva crescita numerica del gruppo misto nella XIII Legislatura), sia un uso, che nel tempo si è trasformato in abuso, dei rimborsi elettorali, essendo il finanziamento pubblico uno strumento difficilmente rinunciabile – soprattutto a partire dal 2002 - per chi ha continuato a vivere in una logica politica di tipo proporzionale.
Le scelte, gli effetti e le linee di tendenza nell’evoluzione della legislazione elettorale italiana nell'ultimo ventennio fanno emergere allora le incoerenze - ma anche le continuità nella logica di funzionamento dei due sistemi elettorali che sono stati adottati - di un ordinamento che, dalla crisi del 1991-1993, non è ancora riuscito a riallinearsi su un’identità più stabile e definita, marcando quella cultura del bipolarismo, dell’alternanza, e dell’accountability tra eletti ed elettori, basata su una stabilità (e un’efficacia) del governo post-elettorale in quanto consapevolmente vocata a rendere il cittadino, con il suo voto, arbitro del governare.
Da qui, a maggior ragione dopo lo stallo politico del 2013 (con un astensionismo pari al cinquantadue per cento e con un quadro politico-partitico caratterizzato sostanzialmente da tre partiti, uno dei quali che si preferisce auto-qualificare come un «non-partito», politicamente alternativi l'uno rispetto agli altri due, con la presenza di un quarta formazione — Scelta civica — troppo debole per poter essere determinante nel dar vita ad un governo con maggioranza omogenea a quella della Camera), emerge con chiarezza la necessità di una nuova legge elettorale, vieppiù dopo la ri-elezione del presidente della Repubblica - un unicum che certifica lo stato di blocco del sistema politico-partitico – e poi, a maggior ragione, qualche mese più tardi in seguito alla sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, che dichiara l'incostituzionalità parziale della legge Calderoli, nella parte in cui la legge elettorale prevede un premio di maggioranza senza soglia minima, ritenuto eccessivamente disproporzionale, e nella parte relativa alle liste, ritenendo che vi sia una carenza nell'identificare gli eletti, essendo le liste stilabili ad libitum.
4. Sulle ragioni, sia pur sinteticamente qui delineate, viene ad emergere allora quella che sarà poi approvata come la legge 6 maggio 2015, n. 52, ossia testo di riforma del sistema di elezione della Camera dei deputati: il c.d. Italicum.
Si tratta di un testo che aggredisce, a mio avviso positivamente, in almeno tre punti, i problemi e le aporie che, negli scorsi vent’anni, le altre due leggi elettorali non sono riusciti a sanare.
Innanzitutto, risolve in termini di chiarezza il tema della responsabilità del governare. Ciò avviene, tanto dal lato della governabilità quanto da quello della rappresentanza, poiché, attraverso il premio di maggioranza, la disproporzionalità che viene ad emergere è equilibrata sulla base di un potenziale ballottaggio, che scatta automaticamente laddove non venga superata la soglia del 40%. E questo non è poco a garanzia di una rappresentatività reale della maggioranza numerica di venticinque seggi in più (340 su 315) che il premio garantisce al partito vincente. Al tempo stesso, ciò può favorire la possibilità di formarsi un’identità politica forte anche per chi sta all’opposizione, nel senso che consente, in una lettura dinamica degli effetti delle leggi elettorali, l’incentivo verso la costruzione di un’opposizione al governo, essendo una legge elettorale che esalta il raggiungimento del premio di maggioranza come obiettivo strategico per ciascun partito che miri al governo del Paese.
In secondo luogo, pur avendo una soglia di accesso alla rappresentanza parlamentare non molto alta (3%), questa consente tuttavia di tener viva la formazione di un’opposizione vera e non di una semplice somma di minoranze, garantendo, al tempo stesso, il massimo del pluralismo.
Infine, garantendo il rispetto della sentenza, questo testo recupera - almeno in parte, ma è già qualcosa - la chiarezza dello schema proprio della maggioranza dei Paesi di democrazia stabilizzata nella identificazione dei candidati (o liste bloccate corte, con candidati chiaramente identificabili; o collegi uninominali; o entrambe le opzioni), aprendo inevitabilmente a forme di rafforzamento della trasparenza della decisione partitica nell’ambito della competizione elettorale che, inevitabilmente, non potrà non portare alla definizione di una legge sulle c.d. elezioni primarie così come di una legge sull’attuazione dell’art. 49 della Costituzione, tale da dare una soluzione definitivamente organica al problema della natura del partito politico nell’ordinamento italiano.
Se si aggiunge il legame strettissimo tra questa legge elettorale e la riforma del bicameralismo in senso europeo – con la Camera, che espressione del voto popolare, da sola concede la fiducia; e il Senato, espressione della forma dello Stato, non direttamente elettivo–allora si coglie il senso della trasformazione in corso; la quale con chiarezza mira a non cadere negli errori del passato, ossia nel non voler affidare l’intera trasformazione del sistema politico-istituzionale innanzitutto sulle spalle della sola legge elettorale (ed infatti, va di pari passo, con la riforma costituzionale, anche in ragione dell’entrata in vigore nel luglio 2016 appunto della legge elettorale), e a non dover più considerare l’instabilità governativa come un male “endemico”, strutturale del Paese.
[1]Invece, dove le fratture sociali erano etniche e linguistiche, ossia tendenzialmente permanenti, la Costituente le consacrò formalmente, non a caso, negli statuti speciali. È notissima, tuttavia, la tesi di Carlo Lavagna - ormai decisamente superata - che ritiene intrinsecamente legata con l'ordinamento repubblicano, anzi, potenzialmente implicita nell'impianto stesso della Carta costituzionale, la scelta per il sistema elettorale proporzionale. Si v. C. Lavagna, Il sistema elettorale nella Costituzione italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 849 ss.
[2]Il riferimento è alla pagina 18 della Relazione, che si può leggere oggi sul sito della Camera dei Deputati a questo link . In ogni modo, si vedano tutti gli atti in: Ministero per la Costituente (a cura di), Atti della Commissione per la elaborazione della legge elettorale politica per l'Assemblea costituente, Roma, Tip. U.E.S.I.S.A., 1946.
[3] Da un lato, la fine della contrapposizione Est-Ovest, con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e l'entrata in vigore del Trattato di Maastricht in vista di un’Unione economica e monetaria con l'introduzione della moneta unica entro il 1999: scelta che determinò un forte processo di forte ristrutturazione delle economie, della finanza e delle amministrazioni degli Stati nazionali, attraverso — fra l'altro — la definizione di nuovi parametri anche economici di convergenza comune; e, dall’altro, la grave crisi economica del 1991-1992 legata all'alto debito pubblico, che ridusse drasticamente la possibilità di usufruire dei fondi pubblici senza limiti.
[4]In particolare, si tratta dello sfarinamento del sistema politico-partitico nato sul patto costituzionale che aveva dato vita alla Costituzione; un fatto che emerge in maniera palese anche al grande pubblico in ragione dell'esplosione, dal febbraio del 1992, dell'inchiesta della magistratura sui fenomeni di corruzione (la c.d. Tangentopoli).
[5] Per una disamina più approfondita, ci si permetta di rinviare amplius, a F. Clementi, Vent’anni di legislazione elettorale (1993-2013). Tra il già e il non ancora, in “Rivi. sta Trimestrale di Diritto pubblico”, n. 2, 2015, pp. 557 e ss.
[6] Sinteticamente, le ragioni possono essere definite intorno a questi tre punti principali: un’alternanza bipolare di governi post-elettorali, fondati su maggioranze stabili ed efficienti, rispondenti al mandato chiesto agli elettori; gruppi parlamentari coesi ed omogenei a tutela e promozione del programma elettorale presentato alle elezioni; un sistema politico moderno di tipo pluralistico, fondato sulla reciproca legittimazione tra le due parti politiche.