1. – Svolgerò qualche breve considerazione sulla riforma del bicameralismo e della legge elettorale, il primo dei due temi che oggi dibatteremo con l’aiuto degli studiosi che hanno accettato, generosamente, il nostro invito.
Sono considerazioni non certamente da studioso. Non credo, del resto, che ai magistrati tocchi dare un parere “tecnico” sulla riforma costituzionale. Questo è un compito che assai meglio di noi svolgono i costituzionalisti, come appunto gli studiosi oggi raccolti attorno a questo tavolo.
Discutere della Costituzione ed esprimersi sulla sua riforma è, invece, per i magistrati, esercizio di un diritto di partecipazione alla vita democratica del Paese.
Un diritto che è anche un dovere, perché la democrazia si nutre della partecipazione dei cittadini, senza la quale deperisce inesorabilmente.
Questo diritto spetta ai magistrati come a tutti gli altri cittadini, rispetto ai quali i magistrati hanno in più soltanto l’obbligo di preservare sempre la loro credibilità, che vuol dire soprattutto – a parte ovvie considerazioni sulla correttezza delle forme – estraneità a centri di potere politico o economico. Rispettata questa condizione, la partecipazione dei magistrati è, al pari di quella di ogni altro cittadino, utile e doverosa; con il valore aggiunto, semmai, trattandosi della Costituzione, di una più sperimentata sensibilità per i valori costituzionali, che sono il fondamento dell’ordinamento giuridico che essi quotidianamente applicano nel loro lavoro.
2. – La stretta connessione tra la riforma della Costituzione approvata in seconda lettura lo scorso 12 aprile e la riforma del sistema elettorale della Camera dei deputati (legge 6 maggio 2015, n. 52 cd Italicum) va ben al di là del carattere “paracostituzionale” delle leggi elettorali. Tra l’una e l’altra riforma esiste infatti un legame dichiarato, l’una essendo presupposto dell’altra in vista dell’obiettivo – parimenti dichiarato, anzi rivendicato – di assicurare la governabilità del Paese. Basti pensare che l’applicazione della riforma elettorale, promulgata il 6 maggio 2015, è stata espressamente differita al 1° luglio 2016 (art. 1, lett. i), legge n. 52/2015), data per la quale era prevista l’approvazione della legge di revisione costituzionale; o che la legge di revisione costituzionale innalza il quorum necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica anche dopo il terzo scrutinio (3/5 dei votanti), sull’evidente presupposto del carattere maggioritario della nuova legge elettorale.
Ed è proprio in questa connessione che si annidano, a mio parere, le più gravi criticità del complessivo disegno riformatore.
L’obiettivo dichiarato, si è già visto, è la governabilità, icasticamente evocata con lo slogan: si conoscerà il nome del Presidente del Consiglio «la sera stessa delle elezioni» (individuando evidentemente anche in questa fulmineità un valore in sé).
Per realizzare questo obiettivo si è ritenuto necessario superare il bicameralismo paritario, che caratterizzava invece l’impianto originario della Costituzione (e per la verità non era andato esente, sin dall’inizio, da critiche motivate), attribuendo il potere di fiducia nei confronti del Governo alla sola Camera dei deputati, eletta con l’assegnazione di un premio di maggioranza su base nazionale. L’altra Camera non è stata soppressa, ma ha cessato di essere elettiva (il sistema elettorale della Camera dei deputati, con premio di maggioranza attribuito su base nazionale, non avrebbe potuto, a Costituzione invariata, essere replicato per il Senato, ostandovi il disposto dell’art. 57, primo comma, per il quale il Senato «è eletto a base regionale») ed ha conservato compiti invero eterogenei e “minori”, pur continuando a svolgere una significativa partecipazione alla funzione legislativa.
È opinione di molti – che mi sento di condividere – che l’obiettivo della governabilità sia stato perseguito a prezzo di un sacrificio eccessivo e non giustificabile della rappresentatività del Parlamento.
Non si tratta di mettere in discussione il fine di favorire la formazione di governi possibilmente stabili. È però una questione di misura, come ci ha ricordato anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2014 (che ha dichiarato illegittimi vari aspetti della precedente legge elettorale), perché le esigenze della governabilità vanno bilanciate con quelle, pure fondamentali, della rappresentatività.
La legge n. 52 del 2015 è troppo sbilanciata verso la governabilità per ragioni che attengono essenzialmente a tre profili: l’entità del premio di maggioranza, l’elezione dei capilista, la possibilità di candidature plurime.
2.1. – La legge attribuisce il premio di maggioranza alla lista che abbia ottenuto almeno il 40 % dei voti; nel caso in cui nessuna lista raggiunga tale soglia, si procede a un ballottaggio tra le due più votate e quella che ottiene il risultato migliore avrà diritto a 340 seggi; tutte le altre liste si divideranno i seggi restanti in proporzione dei voti riportati.
Tale meccanismo dovrebbe servire, nelle intenzioni, a superare i rilievi di illegittimità formulati dalla Corte costituzionale (sentenza n. 1/2014, cit.) nei riguardi della legge n. 270 del 2005 (cd Porcellum) per la mancata previsione di una soglia minima di consensi quale condizione per il riconoscimento del premio di maggioranza (soglia oltre la quale la governabilità sarebbe stata non semplicemente “favorita”, ma piuttosto “imposta” a tutto danno della rappresentatività).
In disparte la valutazione se il 40 % sia o meno una soglia ragionevole (si tenga conto che assicura un premio del 14 % circa), resta il fatto che il premio può essere attribuito anche nel caso (attualmente il più probabile, data la distribuzione dei consensi tra le varie forze politiche) in cui tale soglia di consensi non venga raggiunta, grazie al meccanismo del ballottaggio tra le due liste più votate.
Si obbietta che la lista che vince il ballottaggio ottiene un consenso addirittura maggioritario. Il consenso registrato nel ballottaggio, però, è cosa assai diversa dal consenso elettorale vero e proprio. Prova ne sia che la stessa legge lascia invariato il numero dei seggi da attribuire alla lista vittoriosa – 340, corrispondente al 54 % circa del totale – anche se questa abbia ottenuto una percentuale di consensi maggiore.
La verità è che la scelta compiuta in sede di ballottaggio dagli elettori (salvo quelli che già al primo turno avevano votato una delle due liste rimaste in lizza) è una scelta di risulta, un ripiego per evitare il peggio; non esprime adesione a una linea o a un progetto politico (infatti la legge – art. 1, lett. f) – espressamente esclude «ogni forma di collegamento tra liste o di apparentamento tra i due turni di votazione») e perciò non è idonea a dare base a una vera e propria rappresentatività.
È, inoltre, una scelta alla quale gli elettori, disinteressati, tendono a sottrarsi disertando le urne, come insegna l’esperienza di tutti i ballottaggi svoltisi finora per le elezioni dei sindaci.
2.2. – L’art. 1, lett. g), della legge n. 52/2015 dispone che «sono proclamati eletti, fino a concorrenza dei seggi che spettano a ciascuna lista in ogni circoscrizione, dapprima i capolista nei collegi, quindi i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze».
Ciò vuol dire che, dei 340 deputati eletti nella lista vincente, fanno parte anzitutto i 100 capilista (tanti sono i collegi elettorali) scelti da chi ha presentato le liste, ossia dal partito di cui le liste sono emanazione e dal suo leader, Presidente del Consiglio in pectore.
Quanto, poi, alle forze politiche di minoranza, la preponderanza numerica dei capilista è anche più forte, dato il minor numero di seggi che esse ottengono, assai più prossimo, o addirittura inferiore, alla soglia di 100.
Vi è dunque un numero notevole di deputati che sanno di dovere la propria elezione più al leader che agli elettori e che, dunque, a quel leader si sentono particolarmente legati.
Sia per la lista di maggioranza, sia per le liste di opposizione, questo meccanismo produce un effetto di “verticalizzazione” del potere, di spostamento di esso nelle mani di chi determina la composizione delle liste, a discapito dei rappresentanti (apparentemente) eletti dal popolo.
2.3. – La verticalizzazione e gli effetti distorsivi sulla volontà espressa dagli elettori sono poi aggravati dal terzo dei punti critici della nuova legge elettorale sopra indicati, quello relativo alla possibilità di candidature plurime (fino a 10 collegi diversi), con conseguente diritto di opzione e dunque di incidenza discrezionale sulla composizione della Camera, che l’art. 1, lett. b), della legge riconosce ai soli capilista, ossia ai candidati più omogenei ai vertici delle forze politiche, cui debbono la loro vantaggiosa collocazione in lista.
3. – Il sistema che ne scaturisce presenta, in definitiva, un saldo eccessivamente sfavorevole alle esigenze della rappresentanza, in favore di quelle della governabilità: esigenze che invece dovrebbero essere sapientemente bilanciate tra loro.
Peraltro i suoi effetti finiscono col riflettersi, senza alcuna giustificazione, anche su istituzioni di garanzia, che sono del tutto estranee alle esigenze della governabilità, come il Consiglio superiore della magistratura e la stessa Corte costituzionale.
3.1. – Quanto alla Corte costituzionale, andrebbe svolto un discorso complesso e articolato, in particolare con riferimento al cd giudizio preventivo di costituzionalità delle leggi sull’elezione delle Camere parlamentari introdotto con la modifica dell’art. 73 Cost., che finisce col determinare un improprio coinvolgimento del giudice delle leggi nel procedimento legislativo. Qui non c’è il tempo di affrontarlo e andremmo fuori dello stretto tema dell’incontro di oggi.
Restando, però, al tema della connessione tra legge elettorale e riforma costituzionale, può osservarsi che le maggioranze qualificate necessarie per l’elezione dei 5 giudici di nomina parlamentare, previste dall’art. 3 della legge costituzionale n. 2 del 1967, restano immutate, ma almeno alla Camera, grazie alla forte impronta maggioritaria della sua composizione, sono più facilmente raggiungibili: a conti fatti, basterà alla maggioranza convincere 38 deputati delle opposizioni (essendo i 3/5 di 630 deputati pari a 378). Potrà darsi, allora, che il partito di maggioranza percorra, saggiamente, la via della ricerca di un accordo con tutte le opposizioni, ma non può escludersi a priori che, dati i numeri necessari, esso preferisca ricercare il consenso solo di talune di esse e/o di singoli deputati.
3.2. – Con riferimento alla elezione dei componenti laici del Consiglio superiore della magistratura, mi fa piacere rispondere qui a una garbata critica che il prof. Ceccanti rivolse, a suo tempo, al documento con cui Magistratura Democratica aveva espresso la propria adesione al Comitato per il NO presieduto dal prof. Pace.
Il prof. Ceccanti osservò che non poteva darsi l’ipotesi, da noi prospettata, di una elezione della componente laica del Csm da parte della sola maggioranza parlamentare, dato che la legge n. 195 del 1958 (art. 22) prevede una maggioranza qualificata per tale elezione – 3/5 dei votanti – che la nuova legge elettorale non assicura al partito che vince le elezioni.
Rispondo che questo è vero, ma è anche vero che la legge che stabilisce l’indicata maggioranza dei tre quinti non è una legge costituzionale, bensì una legge ordinaria; dunque basterebbe, per modificarla, una legge ordinaria votata dalla sola Camera dei deputati a composizione fortemente maggioritaria. E questo al netto delle considerazioni appena svolte, parlando della Corte costituzionale, sulle modalità di formazione della maggioranza necessaria grazie alla composizione maggioritaria della Camera dei deputati, non efficacemente bilanciata dalla presenza dei senatori, il cui numero è stato ridotto a meno di un sesto dei deputati.
Ed è proprio il ridimensionamento del Senato (non eleggibile, secondo la Costituzione in vigore con legge analoga a quella emanata per la Camera, come si è già visto) a mettere in collegamento legge elettorale e riforma costituzionale anche sotto il profilo in esame.
4. – Quelle sin qui evidenziate sono criticità molto gravi, che motivano un convinto e preoccupato dissenso dalla riforma, perché l’alterazione del giusto equilibrio tra governabilità e rappresentatività, a danno di quest’ultima, incide sulla qualità della democrazia non solo direttamente, per i suoi effetti distorsivi della volontà popolare espressa dagli elettori, ma anche indirettamente, alimentando la disaffezione per la politica da parte di quei cittadini che non si sentono rappresentati, scoraggiandone la partecipazione e aumentando quella distanza tra “il palazzo” e la società civile che tanta parte ha nella crisi della politica nel nostro Paese.
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*intervento tenuto al seminario promosso da AREA Cassazione e Distretto di Roma, il 23 giugno 2016