Sommario: 1. Verso una democrazia plebiscitaria? - 2. Sui fattori di crisi della democrazia italiana. - 3.La proposta del premierato elettivo: le interne contraddizioni e l’incognita del sistema elettorale. - 4.Gli effetti del “combinato disposto” del premio di maggioranza e della riduzione del numero dei parlamentari. - 5.La drastica riduzione del ruolo del presidente della Repubblica. - 6. La “provvista” e il funzionamento degli organi di garanzia. - 7. Toccare la Costituzione “con mano tremante”.
1. Verso una democrazia plebiscitaria?
Nel dibattito politico corrente sono state già profuse a piene mani molte suggestioni, grossolane e insidiose, sulla riforma costituzionale mirante all’introduzione del premierato elettivo.
La proposta di revisione costituzionale è stata presentata con enfasi come “la madre di tutte le riforme”.
Ed è stato ripreso, per l’occasione, lo slogan “diamo un potere in più ai cittadini”. Un evergreen di tutte le operazioni demagogiche.
Addirittura, per l’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri è stata del tutto impropriamente evocata la “democrazia diretta”.
L’impressione che se ne ricava è che siano cominciate con largo anticipo due diverse campagne politiche.
La campagna elettorale per le elezioni europee che, nel nostro Paese, rischia di essere dominata o almeno largamente influenzata dal tema del premierato.
La campagna per il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione, di conferma della legge di modifica della Costituzione che ci si propone di approvare.
Referendum solo eventuale - in quanto subordinato alla mancata approvazione della legge di revisione costituzionale con una maggioranza dei due terzi ed alla domanda di «un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali» – ma con ogni probabilità non sgradito alla maggioranza di destra che governa il Paese che aspira a trasformarlo in un plebiscito.
Un plebiscito destinato a valere come suggello di un progetto di democrazia con tratti fortemente plebiscitari nel quale la priorità assoluta è rappresentata dalla concentrazione e verticalizzazione del potere nelle mani di un leader mentre non vengono affrontati e sono destinati a rimanere irrisolti i molti problemi aperti della democrazia italiana.
Che sia così è reso chiaro innanzitutto da quello che “non c’è” nelle intenzioni, nelle priorità e nelle proposte della maggioranza di destra.
2. Sui fattori di crisi della democrazia italiana
Per effetto del sistema delle liste elettorali bloccate, risalente al 2005, epoca del governo Berlusconi, e mai seriamente rimesso in discussione dai partiti di ogni colore, l’Italia ha un sistema elettorale per le elezioni delle Camere che non consente al cittadino di scegliere i suoi rappresentati in parlamento, giacché l’elezione è integralmente condizionata dalla posizione occupata dal candidato nella lista elettorale.
Nonostante questa criticabilissima peculiarità del meccanismo elettorale, che ha dato vita a parlamenti dei “nominati” dalle direzioni dei partiti ed ha sfornato parlamentari spesso privi di ogni significativo rapporto con gli elettori, coloro che propongono il premierato non si preoccupano di dire quale nuovo sistema elettorale immaginano per il Paese ma solo di scrivere in Costituzione che dovrà esservi un premio di maggioranza del 55 per cento per il partito o la colazione collegati al premier vittorioso, rimandando tutte le altre scelte ad una fase politica successiva all’introduzione del premierato elettivo.
L’accattivante parola d’ordine del dare “un potere in più” ai cittadini attraverso l’elezione diretta del presidente del Consiglio sembra solo destinata a nascondere il fatto che, ormai da quasi vent’anni, gli elettori hanno “un potere in meno”, essendo stati privati della possibilità di scegliere i propri rappresentanti in parlamento.
Per altro verso il panorama politico è caratterizzato dalla prevalenza di “partiti personali” o comunque dalla presenza di formazioni politiche che, anche quando non hanno una impronta interamente personale, non vivono una vita democratica intensa e partecipata e non conoscono una reale dialettica interna, paragonabile a quella dei partiti di altri grandi Paesi europei come la Germania o l’Inghilterra.
E però, nella maggioranza di governo nessuno pensa che alla rivitalizzazione dei partiti politici – indispensabile per una democrazia funzionante - potrebbe quanto meno “concorrere” una legge quadro, che fissi una cornice democratica per la loro esistenza e la loro attività e li renda più aperti e contendibili (beninteso da quanti partecipano attivamente alla loro vita interna e non da volenterosi simpatizzanti che votano una tantum per poi ritornare ad estraniarsi dalle scelte politiche).
Infine è sotto gli occhi di tutti che il parlamento è indebolito, fiaccato, mortificato e che è difficile rivendicarne il primato, a causa della sua clamorosa crisi di rappresentatività, della sua riduzione a organo di ratifica di decreti legge e della sua incapacità ad offrire soluzioni ai temi più controversi e spinosi, dalla disciplina del fine vita a quella dell’ergastolo ostativo.
Se sono questi i tratti della democrazia italiana non c’è da stupirsi che, nel giro di qualche decennio, il nostro sia divenuto un paese politicamente apatico, connotato da un alto e preoccupante tasso di astensionismo nelle competizioni elettorali di diverso ordine e grado e da bassi livelli di partecipazione politica.
Dati allarmanti, questi, sinistri scricchiolii dell’edificio democratico che ci consegnano l’immagine di un paese passivo, nel quale l’effettiva partecipazione alla vita politica è stata sostituita dai continui “sondaggi” elettorali, sempre più simili alle “sonde” che si inseriscono in un corpo malato per monitorarlo senza curarne i mali e senza promuoverne la guarigione.
Nell’agenda politica della destra - e per la verità anche in quella delle forze di opposizione- mancano proposte puntuali e credibili di rinnovamento sui temi sin qui evocati.
Ad occupare il campo sta invece il progetto di una forma di governo, formalmente ancora parlamentare, ma con forti tratti plebiscitari, personalistici, carismatici, che viene presentata come unico rimedio possibile alla crisi della democrazia e all’instabilità dei governi.
3. La proposta del premierato elettivo: le sue interne contraddizioni e l’incognita del sistema elettorale
Nel dibattito pubblico in corso sono state già svolte puntuali ed incisive osservazioni sulle interne contraddizioni del nuovo meccanismo costituzionale che si vorrebbe introdurre.
E’ stato, infatti, efficacemente evocato lo “spettro” del secondo premier, che, pur privo di una diretta investitura popolare, sarebbe più forte del primo, perché impossibile da sfiduciare senza lo scioglimento del Parlamento e perciò dotato di un fortissimo potere di condizionamento dei parlamentari.
Ed è stata oggetto di pertinenti rilievi la mancata attribuzione al presidente del Consiglio di quei poteri che da soli – anche in assenza di una elezione diretta - sarebbero in grado di rafforzare il ruolo del primo ministro e consentirebbero di realizzare l’obiettivo di una maggiore stabilità dei governi: il potere di nomina e revoca dei ministri e l’istituto della sfiducia costruttiva.
Le principali ragioni di critica e i maggiori fattori di inquietudine per il progetto riformatore nascono però dalle incognite che gravano su altri elementi del quadro istituzionale, primo tra tutti il sistema elettorale, e dal potenziale impatto che, nel medio periodo, i poteri del premier e della “sua” maggioranza potrebbero avere sulla provvista e sul ruolo degli organi di garanzia.
Sull’intero progetto di modifica della Costituzione aleggia infatti l’incognita relativa alla normativa sulle elezioni del parlamento e del premier.
Normativa che con leggerezza viene indicata come un posterius rispetto all’introduzione del premierato elettivo mentre essa è per più versi decisiva ai fini di una complessiva valutazione della riforma.
Se si scorrono i cinque articoli destinati ad introdurre in Costituzione la “riforma del premierato” sono molti gli interrogativi che rimangono senza risposta.
Non è infatti dato di sapere se verrà prevista una soglia di voti minima per l’aggiudicazione del premio di maggioranza del 55 per cento; se sarà contemplato un ballottaggio tra i due contendenti che raggiungono il maggior numero di voti nell’ambito di una prima tornata elettorale; con quale sistema elettorale verrà eletto il parlamento e dunque quale sarà il grado di rappresentatività e autorevolezza dei singoli parlamentari.
Rappresentatività ed autorevolezza che saranno più elevate se i parlamentari saranno scelti effettivamente dai cittadini – attraverso collegi uninominali o attraverso il voto di preferenza - o risulterà più modesto se, come ormai avviene dal lontano 2005, i membri del parlamento continueranno ad essere eletti in larga parte su liste bloccate, risultando spesso sconosciuti ai loro elettori.
4. Gli effetti del “combinato disposto” del premio di maggioranza e della riduzione del numero dei parlamentari
Tra tante incognite l’unico dato certo è, sinora, quello dell’inserimento in Costituzione di un premio di maggioranza alle liste ed ai candidati collegati al Presidente del Consiglio.
Infatti il testo dell’art. 92 Cost. che si vorrebbe introdurre prevede che: «Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono contestualmente (in una prima formulazione: «tramite un’unica scheda elettorale»). La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri».
Il Presidente del Consiglio disporrà dunque di una maggioranza in parlamento di almeno il 55% dei seggi anche se non è escluso che, in presenza di un forte effetto di traino elettorale della persona del leader e di particolari scelte legislative sul sistema elettorale, possa disporre di una maggioranza ancora più ampia.
L’elevato numero di seggi attribuito al premier ed alla “sua” maggioranza va poi letto unitamente al dato della riduzione del numero dei parlamentari, frutto della recente modifica costituzionale che ha tagliato del 36,5% il numero dei componenti di entrambi i rami del parlamento riducendo a 400 (da 630) i seggi della Camera dei deputati e a 200 (da 315) i seggi elettivi al Senato.
Il combinato disposto del futuro premio di maggioranza al 55% e del già diminuito numero di parlamentari rende infatti particolarmente agevole il raggiungimento della soglia dei tre quinti dei componenti del parlamento in seduta comune, quorum deliberativo per l’elezione dei cinque giudici della Corte costituzionale di nomina parlamentare e dei membri laici del CSM.
Per misurare un tale “effetto” basterà far riferimento alla situazione verificatasi nell’attuale parlamento, nato da una tornata elettorale nella quale la compatta coalizione di centro destra, misurandosi con uno schieramento antagonista diviso, ha ottenuto in seggi una maggioranza addirittura superiore al 55%.
Con il 43,8 % dei voti validi la coalizione di centro destra dispone oggi di una maggioranza di 350 parlamentari su un totale di 600 parlamentari, pari al 58,3 % della totalità dei membri delle Camere mentre il quorum deliberativo di tre quinti richiesto per l’elezione dei giudici della Corte e dei membri laici del CSM è di 360 parlamentari.
Ciò significa che all’attuale maggioranza basta ottenere il voto di altri 10 parlamentari per raggiungere i 360 voti necessari per eleggere giudici costituzionali e membri laici del CSM.
Una situazione di questo tipo - che può considerarsi il frutto di una congiuntura politica particolare e difficilmente ripetibile -rischia di divenire la norma quando il premio di maggioranza sarà previsto in Costituzione.
5. La drastica riduzione del ruolo del Presidente della Repubblica
Queste prime considerazioni aprono la strada ad ulteriori riflessioni sull’impatto che la concentrazione di potere nella persona del premier e nella maggioranza a lui collegata può avere sugli altri organi costituzionali.
A cominciare dal Presidente della Repubblica.
I sostenitori del premierato insistono sul fatto che le prerogative ed i poteri del presidente della Repubblica non sono incisi dal progetto di riforma costituzionale.
Se è vero che nessuna delle nuove norme investe direttamente la figura del Capo dello Stato è innegabile che nella nuova architettura costituzionale essa risulterà per più versi sminuita e fortemente condizionata dal premier e dalla maggioranza di cui questi disporrà in parlamento.
Non c’è solo l’ovvio rilievo che le differenti modalità di investitura dei due organi - elezione popolare del presidente del Consiglio ed elezione parlamentare del Capo dello Stato - conferiranno al premier una forza politica ben maggiore di quella del presidente della Repubblica.
Né l’altrettanto scontata considerazione che il presidente della Repubblica viene privato del potere di nomina del capo del governo (dovendosi limitare a conferire l’incarico al presidente del Consiglio eletto), perde di fatto il potere di rifiutare la nomina di un ministro indicato dal premier e deve procedere allo scioglimento delle Camere nel caso di sfiducia dei premier espressione della maggioranza, senza poter affidare l’incarico di formare il governo a figure tecniche come avvenuto sin qui in momenti di crisi.
Oltre a questi effetti immediati, le ripercussioni del premierato elettivo sulla posizione e sul ruolo del Presidente della Repubblica potranno essere, nel medio periodo, ancora più profonde.
In primo luogo, il premier svolgerà un ruolo determinante nell’elezione del presidente della Repubblica.
Infatti, dopo il terzo scrutinio, per eleggere il capo dello Stato sarà sufficiente la maggioranza assoluta dell’assemblea (art. 83, 3 comma Cost.), obiettivo a portata di mano della maggioranza di governo collegata al premier, anche a prescindere dai delegati regionali.
Inoltre, anche se si tratta di una ipotesi estrema, sarà ancora la maggioranza assoluta dei membri delle due Camere - cioè quella collegata al premier - a poter decretare la messa in stato di accusa del presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla Costituzione (art. 90, secondo comma Cost.)
Tanto nella fase dell’elezione quanto nello svolgimento del mandato, il presidente della Repubblica sarà dunque fortemente condizionato dal continuum presidente del consiglio – maggioranza parlamentare a lui collegata, il che renderà problematico lo svolgimento di un ruolo di arbitro e mediatore nelle situazioni di crisi.
6. La “provvista” e il funzionamento degli organi di garanzia
L’insediamento, al centro del sistema politico-istituzionale, del “monolite” costituito dal premier e dalla sua maggioranza avrà ricadute a cascata sugli organi di garanzia contemplati in Costituzione, incidendo tanto sulla loro provvista quanto sul loro funzionamento.
Nel nuovo contesto creato dal premierato è forte il rischio che sia vanificata l’istanza pluralista che ha ispirato la previsione costituzionale di un quorum funzionale di 3/5 dei voti del parlamento in seduta comune per l’elezione dei cinque giudici costituzionali eletti dalle Camere e dei membri laici del Consiglio Superiore della magistratura.
Come si è in precedenza accennato, il quorum deliberativo potrebbe essere raggiunto anche senza confronti complessivi con l’opposizione, grazie all’aggiunta di pochi parlamentari alla maggioranza di governo.
Di più. L’elezione di un presidente della Repubblica politicamente omogeneo alla maggioranza di governo, destinata a divenire una costante quando il premierato entrerà a regime, farà sì che la nomina di ben dieci giudici costituzionali- i cinque eletti dal parlamento e i cinque nominati dal presidente della Repubblica – avverrà nell’orbita politica e culturale della maggioranza parlamentare.
Analoghi rischi di pedissequo allineamento alla maggioranza di governo si verificheranno sul versante del Consiglio Superiore della Magistratura non solo in ragione di una composizione meno articolata e pluralistica della componente laica ma anche in conseguenza del legame genetico del presidente della Repubblica che è anche presidente del CSM con la maggioranza di governo.
In definitiva si ridurrà il tasso di interno pluralismo che - come segnala l’elevato quorum deliberativo previsto in Costituzione per l’elezione dei loro membri - dovrebbe caratterizzare la composizione di organi di garanzia come la Corte costituzionale ed il Consiglio Superiore della Magistratura.
7. Toccare la Costituzione “con mano tremante”
I fautori del premierato elettivo sono inclini a giustificare le contraddizioni e gli squilibri connessi all’introduzione del premierato elettivo come sacrifici necessari da celebrare sull’altare della stabilità dei governi.
Non è così. Come si è in precedenza accennato, più voci, e tutte molto autorevoli, hanno sostenuto che la stabilità dell’esecutivo può essere rafforzata senza alterare radicalmente l’architettura dei poteri, limitandosi ad introdurre nel nostro ordinamento l’istituto della sfiducia costruttiva che preclude al parlamento di votare la sfiducia al governo in carica se, nel contempo, non concede la fiducia ad un nuovo esecutivo.
Replicando così nel nostro Paese una soluzione sperimentata con successo in molti regimi democratici - dalla Germania al Belgio ed alla Spagna – dai tratti simili al nostro.
Del pari può essere rinvigorita la posizione del presidente del Consiglio dei ministri ed affermata la sua primazia nella compagine governativa, non ricorrendo all’investitura popolare diretta ma riconoscendogli il potere di nominare e revocare i membri dell’esecutivo.
Bisogna toccare la legge “con mano tremante”, ammoniva Montesquieu, invitando alla “solennità”, alle “precauzioni” ed alla “chiarezza” chi volesse assumersi il compito di cambiarla.
Non sembra che questo saggio ammonimento - che viene da un lontano passato ma conserva intatta la sua validità per la legge fondamentale - sia rispettato nella procedura che sta per prendere le mosse.
Tralasciando la “solennità”, che sembra avere abbandonato da tempo molti palazzi della politica italiana, è certamente la “chiarezza” a far difetto nel progetto di riforma costituzionale come attestano i numerosi interrogativi senza risposta suscitati dal testo reso noto all’opinione pubblica.
Né può dirsi osservato il principio di “precauzione” che suggerisce di introdurre in Costituzione solo le modifiche strettamente necessarie a conseguire gli obiettivi dichiarati e di cui si è ragionevolmente in grado di prevedere gli effetti sui complessivi equilibri costituzionali.
Dismettere i toni enfatici con cui la riforma costituzionale è stata presentata; calibrare attentamente le innovazioni sulle finalità da raggiungere; premettere ad ogni mutamento della Costituzione l’indispensabile riforma del sistema elettorale; rinunciare, in favore di una effettiva razionalizzazione dell’esecutivo, al progetto di democrazia plebiscitaria perseguito da ampi settori dello schieramento di maggioranza; sembrano queste le condizioni necessarie per realizzare, attraverso un ampio consenso, modifiche della Costituzione in grado di rendere più stabili gli esecutivi.
L’alternativa è quella di una riforma unilateralmente decisa e votata, comunque divisiva e dannosa, seguita da un referendum destinato a svolgersi all’insegna dello scontro frontale.
Comunque non un grande guadagno per la democrazia italiana.
Testo dell’intervento svolto al seminario del 23.11.2023 sul tema del premierato elettivo organizzato presso l’Università "La Sapienza" di Roma da Fondazione Basso, Associazione Salviamo la Costituzione e Movimento Europeo.