Magistratura democratica
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Presidenzialismo e premierato: i riflessi sul giudiziario *

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia

Nel dibattito in corso sul presidenzialismo e sul cd. "premierato", è sin qui rimasto relativamente in ombra il tema dell’impatto che le due diverse prospettive riformatrici avrebbero sui generali equilibri tra i poteri e, segnatamente, sull’assetto del potere giudiziario. A questa tematica va riservata un’attenzione particolare non dettata da miopi preoccupazioni di ruolo o di natura corporativa, ma nascente dalla consapevolezza di quanto sia necessario salvaguardare gli equilibri costituzionali nell’attuazione di processi di riforma. 

1. Prospettive di riforma costituzionale e assetto del giudiziario / 2. Presidenzialismo ed equilibrio tra i poteri / 2.1. La presidenza del Csm / 2.2. La nomina presidenziale di cinque giudici costituzionali / 2.3. Il potere di grazia / 3. Il cd. “premierato” / 4. Un’osservazione conclusiva  

 

 

 

1. Prospettive di riforma costituzionale e assetto del giudiziario

Nel confronto in atto tra politici e studiosi sul presidenzialismo e sul cd. premierato, un tema è sin qui rimasto relativamente in ombra: l’incidenza di queste diverse prospettive riformatrici sul giudiziario. 

È una lacuna che una rivista promossa da magistrati dovrà impegnarsi a colmare, stimolando una pluralità di interventi.  

Naturalmente è fondamentale che, come cittadini e come giuristi, i magistrati si interroghino sugli aspetti “generali” di un eventuale mutamento del quadro costituzionale; ma sarebbe innaturale che essi non riservassero specifica attenzione alle relazioni che intercorrono tra le prospettate trasformazioni e l’assetto del potere giudiziario.  

Un'attenzione non dettata da miopi preoccupazioni di ruolo o di natura corporativa, ma nascente dalla consapevolezza di quanto sono importanti gli equilibri tra poteri e di quanto sia necessario salvaguardarli nell’attuazione di processi di riforma costituzionale. 

Del resto, questa attenzione non è affatto una novità se si ha presente che – accanto ai numerosissimi interventi pubblicati negli anni sui profili costituzionali della giurisdizione e dell’amministrazione della giurisdizione – Questione giustizia dedicò, nel 1997, un fascicolo speciale, intitolato «Giustizia e Bicamerale», all’analisi delle proposte in tema di giustizia contenute nel progetto di riforma costituzionale approvato dalla Commissione bicamerale[1]

È con lo stesso spirito di allora che oggi tentiamo di scrutare l’orizzonte, anche se esso appare ancora avvolto dalla nebbia delle idee vaporose e cangianti che animano il dibattito politico, e che assumiamo con i lettori l’impegno di seguire da vicino e in tutte le sue fasi la vicenda delle riforme istituzionali. 

 

2. Presidenzialismo ed equilibrio tra i poteri

I tratti della forma di governo presidenziale e del sistema politico semipresidenziale sono troppo noti per dover essere qui analiticamente ricordati. Così come sono note le differenze, a volte profondissime, ravvisabili tra le numerose varianti di questi modelli. 

Basterà ricordare che negli Stati Uniti e in Francia – i cui regimi rappresentano gli archetipi del presidenzialismo e del semipresidenzialismo – il Presidente è espresso direttamente dal corpo elettorale e da tale investitura popolare trae forza e legittimazione per l’esercizio di funzioni di governo e di indirizzo politico. 

Il passaggio, nel nostro Paese, a un regime presidenziale o semipresidenziale – contrassegnati entrambi dall’elezione diretta alla carica presidenziale – implicherebbe per il Presidente della Repubblica l’assunzione di un ruolo fortemente e direttamente politico e la contestuale cancellazione dei tratti che oggi caratterizzano la sua figura: l’indipendenza dall’indirizzo della maggioranza politica; il ruolo di potere autonomo, non riconducibile all’esecutivo, al legislativo e al giudiziario; l’attitudine a realizzare, grazie alla pluralità delle sue funzioni e a una costante azione di moral suasion, un efficace raccordo tra i diversi poteri. 

Come è noto, la “politicità” delle funzioni del Presidente è stata ricostruita dalla dottrina costituzionalistica in termini differenti: 

- come forma di intervento di un organo imparziale, che non partecipa agli indirizzi politici prevalenti nel Paese, ma svolge una funzione di controllo sul rispetto del metodo democratico nella realizzazione di tali indirizzi[2]

- come potere di influenza, «anche nel merito e positivamente», sullo svolgimento dell’indirizzo politico della maggioranza, «pur senza poter giungere a determinare in modo preciso i modi e i limiti dell’esercizio di tale funzione»[3]

- come espressione di un «indirizzo politico costituzionale» diverso da quello della maggioranza, ma in grado di apportare ad esso correzioni per orientarlo alla realizzazione dei fini della Costituzione[4].

In definitiva, il Presidente non è ritenuto estraneo alla determinazione dell’indirizzo politico, ma la sua “cooperazione” a tale indirizzo si esprime solo in forma di influenza indiretta e di garanzia del suo regolare svolgimento e non è in alcun modo assimilabile al ruolo politico forte che deriverebbe da un’elezione diretta. 

È perciò evidente che l’attrazione del Presidente della Repubblica nell’agone politico e il radicale mutamento della sua fisionomia istituzionale avrebbero immediate ricadute sui poteri che attualmente la Carta costituzionale gli attribuisce nell’area del giudiziario: la presidenza del Csm, la nomina di cinque membri della Corte costituzionale, il potere di grazia.  

Iniziamo a guardare più da vicino le ripercussioni nella sfera del potere giudiziario di una riforma in senso presidenzialista della forma di governo. 

 

2.1. La presidenza del Csm

L’autonomia del Consiglio superiore dagli organi di indirizzo politico della maggioranza è attualmente garantita e rafforzata dalla presidenza di un capo dello Stato a sua volta indipendente dall’indirizzo politico di maggioranza. 

La prima, inevitabile ricaduta sul giudiziario dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica sarebbe perciò una sostanziale incompatibilità con il ruolo di presidente del Csm, determinata dall’esigenza di preservare la separazione dei poteri e di non compromettere l’indipendenza del Consiglio superiore[5]

E infatti, nella proposta di legge costituzionale sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica,  presentata nella scorsa legislatura dal partito Fratelli d’Italia, divenuto partito di maggioranza relativa nelle elezioni del 2022, era previsto che la carica di presidente del Csm non fosse più ricoperta dal Presidente della Repubblica, ma assunta dal primo presidente della Corte di cassazione[6]

Soluzione, questa, che segnerebbe una evidente deminutio dell’organo di governo autonomo, privato della guida della prima carica dello Stato e della incisiva garanzia rappresentata dalla sua presidenza. 

Alla mirabile architettura costituzionale, che mira ad assicurare, anche attraverso la presidenza del capo dello Stato, il massimo livello di indipendenza e prestigio dell’istituzione consiliare, si sostituirebbe un impianto istituzionale inevitabilmente più modesto, più ripiegato su se stesso, connotato da una impronta corporativa. 

Una scelta che può essere ritenuta valida solo da quanti auspicano una riduzione del ruolo e del raggio di azione dell’organo di governo autonomo e una complessiva svalutazione del Consiglio e dell’attività da esso svolta. 

Per comprendere la posta in gioco, è utile rievocare il confronto che si svolse nell’Assemblea costituente sulla composizione e sulla presidenza del Consiglio superiore, nel quale si fronteggiarono due posizioni. 

La prima, auspicata dai magistrati e dai più rigidi sostenitori della divisione dei poteri, immaginava un Consiglio composto solo da magistrati. 

La seconda – consapevole dei rischi di una magistratura “separata e irresponsabile”, “casta chiusa e intangibile”, “Stato nello Stato” – propugnava un Consiglio composto in maniera paritetica di laici e togati. 

Nell’art. 97 del progetto originario di Costituzione era prevista una composizione paritaria di membri laici e di membri togati, con l’attribuzione del ruolo di vicepresidente al primo presidente della Corte di cassazione. 

Nel contrasto tra tali posizioni, fu accolto l’emendamento proposto dall’On. Scalfaro, che prevedeva un Consiglio composto per due terzi da membri togati e per un terzo da membri laici, e si optò inoltre per il conferimento della presidenza al capo dello Stato per le esigenze di simmetria istituzionale evocate dall’On. Leone e per evitare che il Consiglio rischiasse di divenire, come sostenne Calamandrei, una specie di «cometa» che potesse «uscire per conto suo dall’orbita costituzionale»[7].

Dover rinunciare, per il Csm, alla presidenza del capo dello Stato, cioè alla soluzione voluta dai costituenti per scongiurare il corporativismo e l’autoreferenzialità della magistratura e del suo organo di governo autonomo, sarebbe dunque un ritorno indietro rispetto al compromesso alto raggiunto in seno alla Costituente, e il segno di una anacronistica regressione corporativa di cui non si sente il bisogno. 

 

2.2. La nomina presidenziale di cinque giudici costituzionali

La sapiente distribuzione, in Costituzione, del potere di nomina dei quindici giudici della Corte tra Parlamento, magistrature superiori e Presidente della Repubblica mira a garantire un livello elevato di competenza tecnico-giuridica, l’indipendenza e l’imparzialità nonché la varietà di sensibilità e di culture dei componenti della Corte. 

Per quanto riguarda i membri di nomina parlamentare, più diretta espressione della politica, la necessità di maggioranze qualificate per l’elezione preclude, di regola, che la nomina avvenga da parte della sola maggioranza e impone il raggiungimento, in seno alle assemblee rappresentative, di un più ampio consenso.  

A sua volta, il potere del Presidente della Repubblica di nominare cinque giudici costituzionali è stato concepito come uno strumento per integrare ed equilibrare la composizione della Corte in modo da assicurare il bene prezioso del pluralismo ideale e culturale. 

Come è stato autorevolmente osservato, ripartendo la scelta dei giudici tra tre organi (la magistratura, il Presidente, il Parlamento), il Costituente «si è proposto di utilizzare in modo autonomo le diverse capacità possedute da ciascuno di essi e tale intento risulterebbe frustrato se la maggioranza parlamentare riuscisse ad influire sulla nomina stessa non solo per il terzo ad essa spettante con l’elezione diretta, ma anche in via diretta, attraverso il governo che è sua espressione, per l’altro terzo di nomina presidenziale»[8]

Difficilmente il compito di misura e di equilibrio assegnato al Presidente dal Costituente potrebbe essere assolto da un Presidente della Repubblica che avesse ricevuto l’investitura da parte della maggioranza del corpo elettorale e avesse, perciò, assunto una diretta funzione politica. 

Al contrario, sarebbe forte la tendenza della maggioranza e del Presidente elettivo di “annettersi”, insieme al maggior numero dei membri di nomina parlamentare, anche i giudici di nomina presidenziale, alterando così la fisionomia della Corte voluta dal Costituente e trasponendo in seno alla Consulta i rapporti di forza politica esistenti nella società in un dato momento storico. 

Dunque, anche il potere presidenziale di concorrere alla provvista del giudice costituzionale, sperimentato con positivi risultati nell’arco dell’esperienza repubblicana, sarebbe revocato in dubbio dalla nuova fisionomia   assunta dalla figura del capo dello Stato a seguito dell’elezione diretta. 

Nel tessuto costituzionale si aprirebbe uno strappo difficile da ricucire giacché, se il potere di nomina presidenziale fosse cancellato, diverrebbe problematico immaginare una forma di provvista della Corte costituzionale equilibrata come quella attuale, mentre, se esso venisse, nonostante tutto, mantenuto, la Corte rischierebbe di non essere e di non apparire più la stessa agli occhi dei cittadini e degli operatori del diritto. 

Le vicende, sempre travagliate, della nomina dei giudici della Corte suprema da parte del Presidente degli Stati Uniti stanno a dimostrare che le preoccupazioni espresse non sono frutto di illazioni, ma sono ampiamente giustificate dall’esperienza. 

 

2.3. Il potere di grazia

Apparentemente, l’elezione diretta del Presidente e la conseguente accentuazione del suo ruolo politico non sembrerebbero destinate a entrare in aperta rotta di collisione con il mantenimento, in capo al Presidente, del potere di concedere grazia e commutare le pene previsto dall’art. 87, comma 10 della Costituzione. 

Si tratta, infatti, di un potere tipicamente presidenziale che, se si guarda al passato, presenta evidenti analogie con il potere di «far grazia e commutare le pene» attribuito al Re dall’articolo 8 dello Statuto albertino e, se si guarda al di là dei confini nazionali, trova riscontri in altri ordinamenti, primo tra tutti quello statunitense. 

E però una osservazione più approfondita fa emergere problemi anche sotto questo versante. 

La funzione adempiuta dai provvedimenti di grazia – consistente nel venir meno degli effetti di una condanna definitiva – ha indotto la più autorevole dottrina a ritenere che tali provvedimenti rientrino nella «competenza propria del Capo dello Stato, nella sua veste di organo dell’unità nazionale, tale da offrire garanzia che il suo esercizio si svolga all’infuori dell’influenza di interessi di parte, e che pertanto la controfirma apposta al decreto dal Ministro Guardasigilli abbia solo carattere formale»[9]

Questa impostazione è stata poi fatta propria dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 200 del 2006 che, nel decidere il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato in relazione della concessione della grazia a Ovidio Bompressi (voluta dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi e contrastata dal Ministro della giustizia Roberto Castelli, che rifiutava la controfirma) dichiarò che «non spettava al Ministro della giustizia di impedire la prosecuzione del procedimento volto alla adozione della determinazione del Presidente della Repubblica relativa alla concessione della grazia ad Ovidio Bompressi»[10]

Ora, è difficile negare che l’esercizio del potere di grazia ad opera di un Presidente elettivo, diretta espressione della maggioranza, offrirebbe minori garanzie di imparzialità e sarebbe maggiormente esposto a critiche e accuse di partigianeria.   

Del resto, i rischi di un uso deliberatamente partigiano del potere di grazia in un regime presidenziale sono esemplati nell’esperienza degli Stati Uniti ove, al lontano precedente della “grazia preventiva” concessa a Richard Nixon dal Presidente Gerald Ford dopo le dimissioni per lo scandalo Watergate, ha fatto seguito, più di recente, l’esercizio, tra aspre polemiche, del potere presidenziale a favore di finanziatori del Presidente o di personaggi legati all’amministrazione presidenziale. 

 

3. Il cd. “premierato”

Se le ripercussioni di una svolta “presidenzialista” sugli equilibri costituzionali e, in particolare, sul potere giudiziario sono profonde e abbastanza chiaramente delineate, non altrettanto può dirsi per l’opzione istituzionale che va sotto il generico nome di “premierato”, racchiudendo in sé ipotesi riformatrici del ruolo e dei poteri del Presidente del Consiglio molto diverse tra di loro. 

Sul gradino più basso di una ideale scala di differenti versioni del premierato sta una proposta “debole”, che, con salutare realismo, suggerisce di porre rimedio alla cronica instabilità dei governi introducendo l’istituto della sfiducia costruttiva e attribuendo al Presidente il potere di dismettere i ministri. Si propone,  in sostanza,  di rafforzare il ruolo del Presidente del Consiglio lasciando però immutato l’attuale meccanismo di nomina[11] ed evitando una cascata di modifiche di norme e istituti della Costituzione.  

All’estremo opposto delle varianti riformatrici si colloca l’elezione diretta del “premier” – eventualmente in coincidenza temporale con le elezioni delle assemblee rappresentative – accompagnata dall’attribuzione al capo del Governo di ampi poteri tra cui quello, strategico, dello scioglimento delle Camere. 

La prospettiva minimale – che punta a rafforzare i poteri del Presidente del Consiglio nei confronti della compagine ministeriale e a favorire la stabilità dell’esecutivo in carica subordinando la sfiducia all’effettiva esistenza di una alternativa di governo – lascia sostanzialmente inalterati gli equilibri tra poteri, senza influire né sul ruolo autonomo e neutrale del capo dello Stato né sull’assetto del giudiziario. 

Al contrario la versione “forte” del premierato, connotata dall’elezione diretta del Presidente del Consiglio, inciderebbe in profondità sulla relazione tra premier e capo dello Stato e, per questa via, sul complessivo equilibrio tra i poteri dello Stato. 

Al riguardo si è opportunamente osservato che l’elezione diretta del premier «aprirebbe la strada ad un sistema bicefalo» caratterizzato dallo squilibrio tra «un premier eletto direttamente dal popolo con una forte legittimazione politica e un Presidente della Repubblica eletto dal Parlamento, con minore legittimazione ma con forti poteri di intervento»[12]

Si è inoltre sottolineato che, se un premier elettivo «acquisisce il potere principale del capo dello Stato che è la nomina del Presidente del Consiglio e il potere di scioglimento delle Camere», risultano modificati tanto il ruolo del capo dello Stato quanto la fisionomia della Repubblica parlamentare, «che non è compatibile con un’investitura diretta né del premier né del capo dello Stato»[13]

Infine si è posto l’accento sul fatto che l’elezione diretta del premier non è di per sé garanzia di stabilità degli esecutivi e che, nel contesto italiano, il rafforzamento dei poteri del premier può essere meglio realizzato con una razionalizzazione della forma di governo che resti parlamentare[14]

Del resto, è stato da più parti ricordato che l’elezione diretta del premier costituirebbe un novum con un solo – infelice – precedente nell’elezione diretta del Primo ministro nello Stato di Israele, introdotta nel 1996 e abbandonata nel 2003, con un bilancio nettamente fallimentare. 

In definitiva, sono molti i politici e gli studiosi che auspicano un processo riformatore che resti nell’alveo della nostra tradizione costituzionale, riuscendo a contemperare una meditata innovazione – un Presidente del Consiglio più forte dell’attuale e governi più stabili – con il mantenimento della risorsa, rivelatasi preziosa, di un capo dello Stato operante come potere neutrale e come garante dell’equilibrio tra i poteri.   

Imboccare questa strada ridurrebbe al minimo le modifiche da apportare alla Carta e i rischi di uno squilibrio tra poteri e, last but not least, manterrebbe inalterate le garanzie offerte dall’attuale figura del capo dello Stato sul versante della presidenza del Csm, della nomina di cinque giudici costituzionali e di un esercizio non partigiano e arbitrario del potere di grazia. 

 

4. Un’osservazione conclusiva

Mentre scriviamo, non sono ancora note le proposte che verranno avanzate dal Governo e dalla sua maggioranza, ma nel dibattito politico corrente vengono già spesi gli argomenti e le parole d’ordine della futura “campagna” a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio (prevedibilmente destinato ad assumere, in caso di  elezione popolare, la qualifica e i poteri di “Primo ministro”).  

Tra gli slogan già messi in campo, uno svetta sugli altri: l’elezione diretta del capo politico sarebbe "un potere in più" messo a  disposizione del cittadino per determinare la politica del Paese, un decisivo guadagno della democrazia e un passo avanti sulla via della valorizzazione della volontà popolare. 

Nell’offrire generosamente "un potere in più" si dimentica però che, nel nostro ordinamento, da quasi vent’anni i cittadini italiani hanno, nelle elezioni politiche, "un potere in meno": quello di scegliere i propri rappresentanti nelle assemblee rappresentative. 

Infatti i sistemi elettorali succedutisi dal 2005 ad oggi hanno – in uno spirito di sostanziale concordia del “ceto” politico – mantenuto in vita liste elettorali bloccate, che hanno precluso l’effettiva libertà di scelta agli elettori, compromesso e in molti casi azzerato il rapporto sul territorio tra rappresentanti e rappresentati, e assegnato ai dirigenti dei partiti un ruolo e un potere decisivi nell'individuazione dei candidati con reali chance di essere  eletti. 

Evidentemente non è questa la sede per affrontare una tematica così complessa, segnata dal succedersi di diverse leggi elettorali, di sentenze della Corte costituzionale e oggetto di approfondite analisi della dottrina costituzionalistica[15]

Basterà sottolineare che ogni impegno riformatore delle istituzioni repubblicane, serio e rispondente ai principi democratici, non potrà eludere gli obiettivi cruciali del ripristino della libertà di scelta degli elettori e del potenziamento del ruolo del Parlamento, senza dei quali il rafforzamento dei poteri del Governo rischia di determinare ulteriori squilibri se non di innescare una deriva autoritaria. 


 
[1] Questione giustizia, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, n. 3/1997, con prefazione di S. Rodotà e scritti di V. Borraccetti, Livio Pepino, G. Gilardi, E. Bruti Liberati, N. Rossi.

[2] Cfr., al riguardo, G. Guarino, Il presidente della Repubblica italiana, in Riv. Trim. di diritto pubblico, 1951, p. 903 e ss.

[3] In questi termini C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. II, Cedam, Padova, 1969, p. 608, riporta l’orientamento di alcuni Autori, tra cui T. Marchi, Il Capo dello Stato, in P. Calamandrei e A. Levi (a cura di), Commentario sistematico della Costituzione italiana, vol. II, G. Barbèra, Firenze, 1950, p. 114, e A.M. Sandulli, Il Presidente della Repubblica e la funzione amministrativa, in Riv. amm., n. 1/1950, p. 151.

[4] È questa la posizione di P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 2/1958, pp. 307 ss.

[5] Nel dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente fu forte la preoccupazione, espressa dall’On. Leone,  di recidere il «vincolo di soggezione» della magistratura all’esecutivo e di costituire la stessa «in un ordine che per essere a sua volta autogovernato, cioè indipendente da ogni altro potere», assicurasse l’indipendenza dei suoi componenti.

[6] Proposta di legge costituzionale, Meloni ed altri: «Modifiche alla parte II della Costituzione concernenti l’elezione diretta del Presidente della Repubblica», AC 716, presentato l’11 giugno 2018.

[7] Nella consapevolezza che il Presidente della Repubblica non avrebbe potuto partecipare alla vita dell'istituzione consiliare, si pensò poi di affiancargli un vicepresidente operante come organo ausiliario incaricato della presidenza effettiva del Consiglio e, dopo aver scartato le ipotesi originarie del Ministro della giustizia e del  primo presidente della Cassazione, si scelse la figura del vicepresidente eletto tra i membri laici del Consiglio.

[8] Così C. Mortati, Istituzioni, op. cit., p. 618, che sottolinea come la nomina in questione sia atto tipicamente presidenziale, appartenente alla sfera di discrezionalità del capo dello Stato e non inquadrabile nella figura dell’atto complesso.

[9] C. Mortati, Istituzioni, op. cit., p. 732.

[10] Nella sentenza si afferma che: «qualora il Presidente della Repubblica abbia sollecitato il compimento dell'attività istruttoria ovvero abbia assunto direttamente l'iniziativa di concedere la grazia, il Guardasigilli, non potendo rifiutarsi di dare corso all'istruttoria e di concluderla, determinando così un arresto procedimentale, può soltanto rendere note al Capo dello Stato le ragioni di legittimità o di merito che, a suo parere, si oppongono alla concessione del provvedimento. Ammettere che il Ministro possa o rifiutarsi di compiere la necessaria istruttoria o tenere comunque un comportamento inerte, equivarrebbe ad affermare che egli disponga di un inammissibile potere inibitorio, una sorta di potere di veto, in ordine alla conclusione del procedimento volto all'adozione del decreto di concessione della grazia voluto dal Capo dello Stato. Il Presidente della Repubblica, dal canto suo, nella delineata ipotesi in cui il Ministro Guardasigilli gli abbia fatto pervenire le sue motivate valutazioni contrarie all'adozione dell'atto di clemenza, ove non le condivida, adotta direttamente il decreto concessorio, esternando nell'atto le ragioni per le quali ritiene di dovere concedere ugualmente la grazia, malgrado il dissenso espresso dal Ministro. Ciò significa che, a fronte della determinazione presidenziale favorevole alla adozione dell'atto di clemenza, la controfirma del decreto concessorio, da parte del Ministro della giustizia, costituisce l'atto con il quale il Ministro si limita ad attestare la completezza e la regolarità dell'istruttoria e del procedimento seguito. Da ciò consegue anche che l'assunzione della responsabilità politica e giuridica del Ministro controfirmante, a norma dell'art. 89 della Costituzione, trova il suo naturale limite nel livello di partecipazione del medesimo al procedimento di concessione dell'atto di clemenza».

[11] In questi termini si è espresso Sabino Cassese nell’intervista resa al quotidiano La Repubblica l’8 maggio 2023: Bisogna garantire durata e coesione ai governi. No all’uomo solo al comando. Sulla stessa lunghezza d’onda le dichiarazioni di Luciano Violante al quotidiano Il Foglio, riportate nell’articolo pubblicato il 10 maggio 2023, Il premierato è di sinistra, a firma di Annalisa Chirico. Il presidente emerito della Camera si dice contrario alle ipotesi di presidenzialismo e di elezione diretta del premier e a favore di un rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio.

[12] Così L. Violante nell’intervista citata alla nota precedente.

[13] Così il professor Massimo Villone nell’intervista resa il 9 maggio 2023 a Il Domani: Il premierato svuoterà i poteri del Quirinale. Meloni non divida il paese.

[14] È questa la posizione espressa da Francesco Clementi nell’intervista a La Stampa dell’8 maggio 2023: Non indebolire il capo dello Stato, si rischia una riforma populista.  

[15] Per un'accurata analisi dei sistemi elettorali delle Camere e delle pronunce della Corte costituzionale, cfr. G. Ferri, I sistemi elettorali delle Camere dopo le sentenze della Corte costituzionale (n. 1/2014 e n. 35/2017) e la legge n. 165/2017, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2017 (www.osservatoriosullefonti.it/mobile-saggi/fascicoli/3-2017/1129-i-sistemi-elettorali-delle-camere-dopo-le-sentenze-della-corte-costituzionale-n-1-2014-e-n-35-2017-e-la-legge-n-165-2017/file).

[*]

Il presente articolo è un'anticipazione al fascicolo n. 1/2023 di Questione giustizia  trimestrale, di prossima pubblicazione.

17/05/2023
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