Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Seconda Repubblica *

di Alessandra Algostino
professoressa ordinaria di diritto costituzionale, Università di Torino

Pubblichiamo il testo della relazione presentata all’incontro Parole di Giustizia 2024, dedicato a Democrazia e autoritarismi (Urbino-Pesaro 18-20 ottobre 2024)

1. Seconda Repubblica e realismo dell’esistente

Muovo da una piccola contestazione, una annotazione critica sul titolo. “Seconda Repubblica?”: no, grazie. È una locuzione che evoca con immediatezza la progressiva involuzione della Repubblica nata dalla Resistenza e disegnata dalla Costituzione del 1948, ma presenta il rischio di assumere una valenza descrittiva e, per così dire, convalidante, nel senso che reca con sé una legittimazione e accettazione dell’esistente. 

Preciso: non intendo ragionare irenicamente della democrazia come di un eden perduto[1], ma sottolineare come, nella tensione – e distanza – fra il progetto costituzionale, che, non a caso, richiede una trasformazione, e la realtà, sia stata completamente abbandonata la rotta rispetto alla concretizzazione del disegno costituzionale. Il realismo emancipante della Costituzione si è tramutato in un realismo dell’esistente.

Con una chiosa, ovvia ma insieme necessaria: il processo degenerativo che ha accompagnato il passaggio alla cosiddetta seconda Repubblica e l’atrofia che ha colpito la Costituzione non sono fenomeni naturali ma oggetto di scelte politiche tese alla neutralizzazione del carattere sociale e conflittuale della democrazia disegnata nel 1948.

L’allontanamento dalla democrazia della Costituzione è imputabile a responsabilità politiche per così dire autoctone (e trasversali), ma al contempo è legato a mutamenti del contesto geopolitico mondiale e alla crescente egemonia di un modello economico che ha reso vieppiù eterodirette le scelte politiche, legislative e istituzionali degli Stati. 

Posto che la realtà è somma e interdipendenza di fattori e non deterministicamente prodotta da un solo elemento[2] – la prospettiva della complessità di Edgar Morin –, affiora la centralità del potere economico, che sovrasta politica e diritto, e tracima a plasmare un modello sociale e antropologico (l’homo oeconomicus o l’«homme compétitif»[3]). 

Come è stato osservato con una formula efficace, «è più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo»[4]. Il modello neoliberista mostra di essere estremamente pervasivo, colonizzando i territori e le coscienze, abilissimo nel marketing di se stesso, resiliente – preciso, “resilienza” è una “parola oscura”, in quanto indica una capacità di adeguamento che tende a riprodurre l’esistente, passando dal finanzcapitalismo di una libera concorrenza senza vincoli a un welfare neoliberale che non disdegna protezionismo, aiuti e salvataggi di Stato, sino al keynesismo bellico dell’ultimo Rapporto Draghi. 

Non è un modello amico della democrazia, il suo abbraccio con la democrazia non è «insieme vitale e mortale», come lo definiva Bobbio, ma mortale[5]; basti ricordare l’«eccesso di democrazia» lamentato dalla Commissione Trilaterale nel 1975[6] e gli «esecutivi deboli» oggetto delle critiche della J. P. Morgan nel 2013[7].

È in questo contesto segnato dal tornante geopolitico del 1989, dall’accelerazione ordoliberale, mistificata dietro il volto della cittadinanza europea, del Trattato di Maastricht del 1992, che si avvia il processo degenerativo della democrazia nostrana. Questo, senza enfatizzare i Trenta Gloriosi o il decennio di disgelo costituzionale (1969-1978); ma anche senza scordare come quest’ultimo ricordi come sia – per dirlo con le parole di Rosa Luxemburg – il «movimento delle masse», con la sua «pressione», «un potente correttivo» de «il faticoso meccanismo delle istituzioni democratiche»[8].

Si diffondono a segnare il periodo di transizione sintagmi come postdemocrazia[9], “democrazia illiberale”, “democrazia senza democrazia”, “democrazia a bassa intensità”, “autocrazia elettiva”, “democrazia plebiscitaria”. 

Fra le date cardine si può citare il 1993, la svolta in senso maggioritario con i referendum elettorali; fra le caratteristiche dell’imbarbarimento della democrazia, mi limito a qualche veloce annotazione sui fattori che inficiano elementi cardine, quali il pluralismo e i presupposti sostanziali della democrazia, ovvero la democrazia come conflittuale e sociale (ricordando, con Mortati e Basso, che la democrazia o è sociale o non è).

Quanto al pluralismo, cito soltanto: sistemi elettorali escludenti, svuotamento della rappresentanza, metamorfosi dei partiti (leggeri, catch all, liquidi, parassitari rispetto alle istituzioni), esautoramento del Parlamento, verticalizzazione del potere, repressione del dissenso.

Quanto all’eguaglianza sostanziale: dismissione dello stato sociale, assunzione della prospettiva del trickle-down, logica meritocratica, abbandono del lavoro all’asimmetria dell’autonomia delle parti, fiscalità sempre meno “redistribuente” e progressiva, colpevolizzazione della povertà. 

È un processo, con evidenti responsabilità multipartisan; basti ricordare i tanti progetti nel segno della concentrazione di potere nell’esecutivo susseguitisi negli anni: Commissione bicamerale per le riforme istituzionali “Bozzi” (1983-1985), passando per la Commissione parlamentare per le riforme istituzionali “De Mita-Iotti” (1992-1993), al crescendo di verticalizzazione in senso semipresidenziale della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali “D’Alema” (1997-1998) – come delle riforme “Berlusconi”, nel segno del «premierato assoluto»[10] e della «monocrazia»[11], e “Renzi-Boschi” (in connubio con l’Italicum)[12], rispettivamente respinte dai referendum oppositivi (non confermativi) nel 2006 e 2016. 

Intanto, con l’acquiescenza del Parlamento e troppo rari e troppo “leggeri” interventi del Presidente della Repubblica (non sempre sono sufficienti la moral suasion o generici richiami), si è insediato un premierato di fatto, con l’inversione del rapporto di responsabilità politica: è il Parlamento ad essere responsabile nei confronti del Governo nel ratificare in modo rapido ed efficiente le sue decisioni.

Si pensi alle prassi che hanno costruito, e costruiscono, il dominio dell’esecutivo sulla legislazione: dall’abuso ormai “storico” della decretazione di urgenza (cito solo l’ultima sentenza della Corte, n. 146 del 2024) e dal ricorso sistematico alla questione di fiducia[13] alle più recenti conversioni “minotauro” e “matrioska”, dalla prassi dei maxi-emedamenti governativi al monocameralismo “alternato” o “di fatto”[14], dall’evanescenza dei principi e criteri direttivi in relazione alla decretazione legislativa delegata alla scarsità delle leggi di iniziativa parlamentare[15].

E poi l’ansia – tradotta in leggi elettorali che hanno costretto la Corte costituzionale a ricordare i fondamentali della rappresentanza e della sovranità popolare[16] – di individuare il giorno dopo le elezioni il Presidente del Consiglio, con tutti gli annessi della democrazia immediata[17]; un’ansia legata a doppio filo ad un altro disturbo: la caduta nel mito della governabilità[18].  

E, parallelamente, la distruzione dello stato sociale, il definanziamento, la privatizzazione e l’aziendalizzazione, che hanno colpito sanità, scuola e università; la destrutturazione del diritto del lavoro e dei diritti dei lavoratori, la medievalizzazione della contrattazione capitale-lavoro. In sintesi, l’abbandono del progetto di emancipazione, personale e collettiva, al più mistificato dal ricorso a sussidi temporanei e bonus (non di rado elargiti secondo il criterio della rapidità del click), misure una tantum, che ondeggiano tra l’essere strumento di propaganda politica, elargizione caritatevole, ammortizzatore sociale, segnando in ogni caso la distanza dalla prospettiva della giustizia sociale.

Lo scivolamento verso un «cesarismo regressivo» con il governo Meloni ha subito un’accelerazione; preciso: quel tipo di cesarismo regressivo che può esistere – come osserva sempre Gramsci – «anche senza un cesare, senza una grande personalità “eroica”»[19].      

Il riferimento, evidentemente, è al progetto di premierato, con l’ulteriore dis-equilibrio dei poteri e la sovranità popolare ridotta ad acclamazione del capo, dell’«uomo di fiducia di tutto il popolo»[20], al quale, per l’appunto ci si affida, come ad un foucaultiano pastore che cura e sorveglia; con la rappresentanza che da politica e plurale diviene simbolica e unitaria, surrogando la dialettica e la mediazione proprie di una forma di governo parlamentare con la decisione di un organo monocratico.

Nel contempo, l’altra grande riforma (per non citare quella della magistratura), l’autonomia differenziata à la Calderoli, sancisce l’abbandono dell’orizzonte dell’uguaglianza e della solidarietà; baratta diritti universalmente garantiti con la mera determinazione di qualche livello essenziale; apre nuovi mercati alla privatizzazione.  

Agenda neoliberista e democrazia decidente hanno occupato tutto lo spazio politico istituzionale, di governo; un TINA (“There Is No Alternative”) che ha condotto a denigrare, espellere e criminalizzare l’alternativa.

È una rivoluzione passiva che nella sua lotta «condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere»[21], tende verso una nuova forma di stato che mi pare sempre più configurarsi come un “neoliberismo autoritario”, che sviluppa l’assonanza colta da Polanyi tra fascismo ed economia di mercato[22]

 

2. Una visione dai margini: la costruzione del nemico

Vorrei riflettere in particolare sulla deriva autoritaria, muovendo da una angolatura specifica, una visione “dai margini”, ovvero dalla prospettiva del “nemico”, come figura che tiene insieme la neutralizzazione del conflitto sociale, la sostituzione dello stato sociale con lo stato penale, la repressione del dissenso, trovando una “corrispondenza di amorosi sensi” con il clima bellico che sta normalizzando la guerra e militarizzando le democrazie.  

La chiusura dello spazio politico trova fertile terreno in un populismo attraversato da paure e plasmato da narrazioni omologanti e semplificatrici. Il terreno è politicamente arido. Non è solo questione delle drammatiche percentuali di astensione dal voto (63,9% i votanti alle elezioni politiche del 2022; 49,69% alle elezioni europee del 2024) e della disaffezione politica; l’aridità ha seccato le radici della società. L’humus sociale è saturato dal populismo, con la sua passività, il suo acritico affidamento, la sua propensione al decisionismo. 

È una società destrutturata nel legame sociale e nei suoi corpi intermedi dall’individualizzazione sfrenata; una società dove dilaga il dominio della tecnica, con la sua spoliticizzazione. È una società facile preda di un populismo identitario (quell’identità che Remotti riconduce in ultima istanza ad una logica di sopraffazione)[23], che la dicotomia schmittiana “amico-nemico” compatta in chiave escludente. 

Alla moltitudine disgregata e autoreferenziale dell’homo oeconomicus, attraversata da diseguaglianze vieppiù stridenti, si indica come elemento di distrazione il nemico e, nel contempo, nel nemico si riversa quell’eccedenza che deve essere occultata o repressa: la marginalità sociale e la divergenza politica, oltre, ça va sans dire, lo straniero, il migrante, nemico per eccellenza. 

Parte dal nemico la costruzione della tela repressiva che oscura lo spazio democratico. 

Provo a ricostruire alcuni nodi del filo nero con il quale è tessuta, soffermandomi su due punti in particolare: a) trasformazione dei concetti di sicurezza, ordine pubblico, emergenza; b) costruzione del diritto del nemico. 

 

2.1. Sicurezza, ordine pubblico, emergenza

Muta di senso il concetto di sicurezza, da sicurezza come terreno fertile per la garanzia dei diritti[24] e dalla sicurezza sociale alla sicurezza come ordine pubblico.

Quanto all’ordine pubblico, nell’impossibilità in questa sede anche solo di esplorare la pluridimensionalità e la molteplicità di accezioni di un sintagma, che è in sé vago, ambiguo, declinato come ideale, materiale, internazionale, economico, costituzionale[25], si sottolinea come esso perimetri la frontiera tra autorità e libertà; sia cerniera fra sistema giuridico e realtà sociale; possieda una indeterminatezza strutturale che veicola una discrezionalità pericolosa in quanto legittimazione prêt-à-porter per politiche al servizio del dominio.  

Osservava Gramsci: «l’ordine e il disordine non sono concetti assoluti, ma relativi agli schemi sociali dei giudicanti»[26].

Se proprio, ammesso e non concesso, si ritiene imprescindibile il richiamo all’ordine pubblico occorre sostanziarlo attraverso la connessione con principi e diritti costituzionalmente garantiti, in concreto e in modo specifico, senza scordare che esso non può prescindere dal rispetto dei caratteri della democrazia, conflittuale, pluralista, sociale e costituzionale e, quindi, in primis, dal riconoscimento del conflitto e dal perseguimento dell’emancipazione.

Detto altrimenti, un ipotetico ordine pubblico coerente con il costituzionalismo si configura – provocatoriamente – come «disordine costituzionale»; un disordine che si sostanzia nella natura plurale e conflittuale della democrazia e che, in quanto «costituzionale», è limitato (nel potere e dal compito di garanzia dei diritti, come libertà e come liberazione) e non corrisponde, dunque, al caos di rapporti di forza allo stato puro (il che lo inscriverebbe in logiche di dominio e diseguaglianza, contradditorie rispetto all’aggettivazione come «costituzionale»). 

L’ordine pubblico, invece, viene configurato sempre di più nei termini di una coesione sociale intesa come neutralizzazione del conflitto (una contraddizione per una democrazia conflittuale). E qui è opportuno un richiamo critico a quella giurisprudenza della Corte[27] che, dimenticando la sana diffidenza mostrata dai costituenti, assimila l’ordine pubblico al fine di pacifica convivenza sociale, insiste sulla «pace sociale» o sull’«ordinato vivere civile»[28], sino a «escludere che con la enunciazione del diritto di libera manifestazione del pensiero la Costituzione abbia consentito attività le quali turbino la tranquillità pubblica». Si insinua in tal modo una accezione di ordine pubblico ideale[29], che «porta ad identificarlo con lo Stato: e allora l’argomento «prova troppo», perché di fronte a questa sorta di «ragion di Stato» cadrebbero tutte le garanzie costituzionali delle libertà»[30]. Sul punto, non si può non ricordare il privilegio riservato alle forze di polizia nel disegno di legge in materia di sicurezza pubblica in discussione al Senato (A.S. n. 1236), che si inscrive in una concezione dello Stato inteso come autorità, che evoca sudditi e non cittadini.

L’ordine pubblico si accompagna al ricorso alla categoria dell’emergenza, alla normalizzazione dell'emergenza, con un processo che coinvolge contesti diversi: dalla legislazione antiterrorismo post 2001 alla gestione dell'immigrazione (in contrasto con il carattere strutturale della stessa). Suoi strumenti sono i decreti sicurezza che si susseguono negli anni, in un’ottica multipartisan; restando ai più significativi: decreto Pisanu del 2005; legge sulla sicurezza n. 94 del 2009, governo Berlusconi; pacchetto “Minniti”, 2017; decreti Salvini, 2018-2019; il governo Meloni si distingue per l’intensa attività: decreto rave, decreto Cutro, legge “eco-vandali”, ddl sicurezza (A.S. n. 1236).

 

2.2. Costruzione del diritto del nemico 

Lo spazio politico è oscurato da fattispecie penali che limitano l’esercizio dei diritti.

Lo stato sociale è progressivamente sostituito dallo stato penale, si surroga la risoluzione delle questioni sociali con la loro attrazione nella sfera penale: un populismo penale o panpenalismo.

Possiamo ragionare di un trittico del nemico: disagio sociale, dissenso e migranti. 

È la colpevolizzazione della povertà, che devia le responsabilità dalle strutturali diseguaglianze di un modello economico predatorio: chi vive le diseguaglianze non è un oppresso, un subalterno, ma un imprenditore di se stesso che ha fallito.

È la disumanizzazione delle persone che migrano e, in senso ampio, dello straniero, sino alla messa in atto di necropolitiche[31]. Si aggiunga che i migranti, come spesso accade, sono laboratorio politico, per sperimentare misure restrittive dei diritti, di libertà come sociali. 

È la criminalizzazione del dissenso: «ad un certo punto l’avversario politico diventa un delinquente comune e quindi la legge lo colpisce come tale», osservava Concetto Marchesi in Assemblea costituente[32].

La soluzione è la stessa: denigrazione, ovvero disconoscimento; criminalizzazione ed espulsione.

La legislazione è usata come – cito le parole di Walter Benjamin – «creazione di potere e, in quanto tale, un atto di manifestazione diretta della violenza»[33]; è strumento nella guerra del neoliberismo che si blinda contro chi lo contesta e contro chi subisce i suoi effetti.

Le “armi” utilizzate contro il nemico sono molte, provo a citarne alcune: introduzione e reviviscenza di nuove fattispecie di reato (la punizione dei rave, il blocco stradale), aggravamento delle pene (come nel caso di occupazioni di terreni ed edifici), spesso con fattispecie indeterminate, in violazione dei principi costituzionali in materia penale (tassatività, offensività, proporzionalità, ragionevolezza); utilizzo di qualificazioni giuridiche inappropriate, ovvero sovradimensionate; deviazione dalla punizione del fatto verso un diritto penale fondato sul tipo di autore; abuso di misure di prevenzione e cautelari; utilizzo in chiave repressiva del diritto civile o amministrativo attraverso richieste di risarcimenti danni e multe; similmente, nei rapporti di lavoro, con licenziamenti, sanzioni disciplinari, vincoli al diritto di sciopero; criminalizzazione della solidarietà (dalle navi delle ONG che salvano naufraghi ai movimenti per la casa); restrizione della libertà di manifestazione del pensiero attraverso l’utilizzo della citazione per diffamazione e sanzioni disciplinari. Quanto alla libertà di espressione, le limitazioni si accompagnano alla delegittimazione attraverso qualifiche come intollerante, putiniano, antisemita, estremista, e alla creazione dell’area dell’“indicibile”, parole e concetti che non si possono dire; il tutto nel quadro dell’occupazione degli «organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, parlamento», per modellare «l’opinione e quindi la volontà politica nazionale»[34].

Vorrei soffermarmi in particolare su uno strumento, il daspo urbano, perché incarna emblematicamente la costruzione e il “trattamento” del nemico: nel suo intento originario esso interviene sul disagio sociale e nella sua estensione applicativa include altresì il dissenso.

Esso consiste in una misura di allontanamento costruita sulla falsariga del c.d. daspo sportivo, ovvero il divieto di avvicinamento previsto per contrastare forme di violenza in ambito sportivo (di cui alla legge n. 401 del 1989 e successive modifiche). È introdotto dal decreto Minniti in tema di sicurezza urbana come «misura «a tutela del decoro di particolari luoghi» (art. 9, co. 1, decreto legge n. 14 del 2017) ed è quindi oggetto di una costante linea incrementale da parte dei decreti legge n. 113 del 2018, n. 53 del 2019, n. 120 del 2020 e n. 123 del 2023. 

Affiora, con il daspo urbano, la logica della colpevolizzazione e della criminalizzazione della povertà, nascosta dietro il decoro. Sotteso alle politiche nel nome del decoro – come nuova accezione dell’ordine pubblico – non è l’intento di eliminare il disagio sociale rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale, come prescrive l’art. 3, c. 2, Cost., ma il tentativo di occultarlo, espellendolo. Non solo: il decoro evoca un quid legato all’esteriorità, all’estetica, e in questo segna la distanza da una Costituzione che è attenta alla sostanza, alla materialità delle condizioni economiche e sociali (per tutti, il «di fatto» dell’art. 3, c. 2, Cost.). 

Il decoro viene a sovrapporsi ad un concetto di ordine pubblico ideale in quanto veicola l’occupazione dello spazio, fisico, sociale e politico da parte dell’ideologia egemone e diventa parte della governamentalità che identifica il nemico in chi diverge dall’ortodossia dominante: l’emarginato, il povero, il migrante, il dissenziente.

Ancora. Dietro il decoro si cela una sterilizzazione dello spazio pubblico, inteso come costruzione di socialità e di azione politica. Si svuota così il senso della cittadinanza, privandola materialmente e sostanzialmente della sua natura quale veicolo di eguaglianza, inclusione e partecipazione. E allora non è un caso che il daspo urbano sia utilizzato anche contro il dissenso. Emblematici sono i provvedimenti adottati nei confronti delle azioni di disobbedienza civile degli eco-attivisti; sebbene raramente tali provvedimenti superino il vaglio giudiziario contribuiscono, oltre che a reprimere direttamente azioni di protesta, a creare un clima di “intimidazione istituzionale”, con un intento deterrente e dissuasivo.

Il daspo urbano è anche sintomatico di una amministrativizzazione della sicurezza, in collisione con il principio di tassatività e legalità in materia penale (art. 25 Cost.), le garanzie della libertà personale (art. 13), i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 

 

3. Democrazia, conflitto e Costituzione

La costruzione del nemico, con la dicotomia amico/nemico, con la logica di guerra che compatta in una fittizia e mistificatoria identità sudditi e oligarchi del finanzcapitalismo[35] contro chi sta “al di fuori”, che sia mendicante, senzatetto, migrante o dissenziente, è funzionale al mantenimento dello stato di cose presente.

Con la sterilizzazione del conflitto scompare la prospettiva del cambiamento, della trasformazione, in favore di un neoliberismo autoritario, schiacciato sul presente, di una politica senza alternative e di una società senza emancipazione.

Il conflitto consente l’espressione dei subalterni, degli oppressi, delle vite di scarto (Bauman), dei dannati della terra (Fanon), ne riconosce l’esistenza e la legittimazione a lottare per la propria dignità e autodeterminazione. Il conflitto, dunque, produce riconoscimento, inclusione ed emancipazione. È emancipazione in sé e veicola emancipazione.

Il conflitto è il motore che anima la dialettica della storia. La storia è «storia di lotta di classi», «di oppressori e oppressi», che «sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese»[36]; «sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi», «tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro»[37]. Il conflitto è un elemento dinamico, che veicola trasformazione. Chi avversa il conflitto tende a mantenere lo status quo, le relazioni di dominio e di diseguaglianza esistenti. 

È attraverso i conflitti che nascono i diritti, si esercitano e si preservano.

Il conflitto è il fondamento della democrazia; insieme ad una visione all’insegna della complessità, rende vivo il pluralismo; con la mobilitazione e l’attivismo che reca con sé sconfigge l’apatia, l’indifferenza, la passività, favorendo la partecipazione, che della democrazia è il cuore. 

Preciso: il conflitto si pone in antitesi alla guerra. Si situa nell’orizzonte della complessità e della differenza, del riconoscimento reciproco, della discussione e della convivenza, mentre la guerra tende alla semplificazione identitaria, ad una artificiale e coartata omogeneità, alla delegittimazione del nemico, e, in definitiva, alla sua eliminazione. La guerra è perfettamente coerente con la costruzione del nemico e la chiusura dello spazio politico.

Vengo alla chiusura: «il capitalismo aggredito nella borsa diventa una bestia feroce», affermava Matteotti[38]. La competitività sempre più aggressiva di un modello economico e di politiche di potenza che stanno rivelando la propria natura in modo sempre più brutale e diretto – penso alla Palestina, dove si sta consumando un genocidio che evoca gli eccidi coloniali del passato e sperimenta il trattamento riservato agli “eccedenti” – si riverbera sulla democrazia; si riflette nella metamorfosi della democrazia, che ne subisce i voleri e ne recepisce i caratteri. Seconda repubblica, periodo di interregno, di transizione, nuova forma di Stato, neoliberismo autoritario?

Invero, forse, nella consapevolezza che la storia non si ripete, ma anche che il conflitto fra dominio ed emancipazione, la lotta per l’uguaglianza è una costante della storia, direi “meglio la prima repubblica”: non per tornare indietro, ma per uscire dalla gabbia del presente, che chiude l’orizzonte del futuro, e per recuperare la visione dialettica della storia.

La Costituzione, incardinata nella storia del costituzionalismo, della limitazione del potere e della garanzia dei diritti, sta dalla parte dell’emancipazione e può essere terreno comune contro l’autoritarismo, per costruire una egemonia altra, muovendo dal basso, dalle insorgenze sociali esistenti e rivitalizzando il ruolo di soggetti politici collettivi in grado di rappresentare, in forma organizzata, visioni del mondo in un virtuoso moto circolare con la società, il pluralismo e i conflitti. È necessario un conflitto costituzionalmente orientato per resistere allo scivolamento nell’autoritarismo e restare – tornare? – nella democrazia.


 
[1] Cfr., fra gli altri, con sguardo disincantato, A. Di Giovine, Dal principio democratico al sistema rappresentativo: l’ineluttabile metamorfosi, in Rivista AIC, n. 1/2020, pp. 59 ss.; A. Mastropaolo, Fare la guerra con altri mezzi. Sociologia storica del governo democratico, il Mulino, Bologna, 2023.  

[2] Si veda E. Morin, La sfida della complessità, a cura di A. Anselmo, G. Gembillo, Le Lettere, Firenze, 2017.

[3] P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive Approdi, Roma, 2013.

[4] Nell’incerta attribuzione del fortunato adagio (a Slavoj Žižek o a Fredric Jameson), si rinvia qui alla sua citazione in M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018.

[5] Definisce «mortale» l’abbraccio tra capitalismo e democrazia, M. Bovero, Salus mundi, Castelvecchi, Roma, 2022, p. 102, andando “oltre Bobbio”, che lo definiva «insieme vitale e mortale».

[6] M. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, New York, 1975.

[7] J. P. Morgan, Europe Economic Research, The Euro area adjustment: about halfway there, 28 May 2013.

[8] R. Luxemburg, Zur russischen Revolution (1918), trad. it. La Rivoluzione russa, Bolsena, 2004, p. 74.

[9] C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, 2003; si veda R. Tarchi, Le “democrazie illiberali” nella prospettiva comparata: verso una nuova forma di stato? Alcune riflessioni di sintesi, in DPCE On line, n. 3/2020, pp. 4155 ss. e, spec., sul tema, G. Azzariti, Diritto o barbarie. Il costituzionalismo moderno al bivio, Laterza, Roma-Bari, 2021; M. Camau, G. Massardier, Démocraties et autoritarismes. Fragmentation et hybridation des régimes, Paris, 2009.

[10] L. Elia, Il premierato assoluto, 22 settembre 2003, ora in Id., La Costituzione aggredita. Forma di governo e devolution al tempo della destra, il Mulino, Bologna, 2005, p. 62.

[11] G. Ferrara, Verso la monocrazia. Ovvero del rovesciamento della Costituzione e della negazione del costituzionalismo, in Costituzionalismo.it, n. 1/2004.

[12] Legge 6 maggio 2015, n. 52. Il connubio citato è monito a non scordare un’interpretazione delle ipotesi di riforma che tenga conto del sistema elettorale, di quello vigente al momento delle riforme, e di quello “possibile”, ossia dei rischi che possono derivare dalle riforme se muta la formula elettorale.

[13] In media – dati aggiornati ai primi due anni della XIX legislatura ­– sono state 2,72 al mese le questioni di fiducia, 67 in totale nei due anni; nel governo Renzi, su 33 mesi, 68; nel governo Draghi, 55; nel governo Monti, 51 (dati Openpolis, https://www.openpolis.it/esercizi/le-questioni-di-fiducia/, 10 ottobre 2024).

[14] «Delle 311 leggi approvate nella XVIII Legislatura, solo in 34 casi si è attivato il meccanismo delle navette e si è dato corso a più di due letture» (per riflessioni sul punto, in senso ampio, cfr. A. Vernata, Bicameralismo dimezzato, perimetro costituzionale e sostanzialità delle forme. Il monocameralismo come limite e fondamento, in Costituzionalismo.it, n. 3/2022, pp. 148 ss.).

[15] Qualche dato: nel corso dei primi due anni della XIX legislatura, sono entrate in vigore 151 leggi (in linea con le precedenti legislature); delle leggi entrate in vigore, il 75,5% sono di iniziativa del Governo, il 41,7% sono conversioni di decreti legge (dati Openpolis, https://www.openpolis.it/esercizi/i-dati-dellattivita-legislativa/, 2 ottobre 2024).

[16] Il riferimento è alla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (c.d. Porcellum) e alla legge 6 maggio 2015, n. 52 (c.d. Italicum), entrambe oggetto di dichiarazione di incostituzionalità (Corte costituzionale, rispettivamente sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017).

[17] Secondo la nota classificazione di Duverger, la democrazia immediata è connotata dal principio per cui il governo – e in particolare il suo capo – ha una investitura diretta con le elezioni, da parte del popolo, in una presunta applicazione “autentica” del principio della sovranità popolare; per un primo approfondimento del concetto e del dibattito sulla “democrazia immediata”; cfr., recentemente, A. Campati, La «democrazia immediata»: prospettive a confronto, in Teoria politica, 10, 2020, pp. 297 ss.

[18] Si vedano G. Ferrara, La crisi del neoliberismo e della governabilità coatta, in Costituzionalismo.it, n. 1/2013; G. Zagrebelsky, Moscacieca, Laterza, Roma-Bari, 2015; sia consentito rinviare anche a A. Algostino, La legge elettorale del neoliberismo, in Democrazia e diritto, n. 2/2014, spec. pp. 83 ss.

[19] A. Gramsci, Quaderni del carcere, v. II, Quaderni 6-11 (1930-1933), a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 2014, Quad. 9, par. 133, pp. 1194-1195 (nonché Id., Quaderni del carcere, v. III, Quaderni 12-29 (1932-1935), a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 2014, Quad. 13, par. 27, pp. 1619-1620).

[20] C. Schmitt, Verfassungslehre, 1928, trad. it. Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984, p. 459.

[21] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 12.

[22] Il socialismo, scrive Karl Polanyi (The Great Transformation, 1944, trad. it. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, ed. 2010), è «essenzialmente la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica» (p. 294), mentre il fascismo è «una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche» (p. 297).

[23] F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari, p. 140.

[24] Cfr. Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.

[25] Nell’amplissima bibliografia, ci si limita a richiamare, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, due studi recenti: M. C. Amorosi, L’ordine pubblico tra tutela costituzionale dei diritti ed emergenza. Lineamenti teorici e paradigmi applicativi di una nozione evanescente, Editoriale Scientifica, Napoli, 2022; A. Ciervo, Le metamorfosi dell’ordine pubblico nell’esperienza costituzionale italiana, Editoriale Scientifica, Napoli, 2023.

[26] A. Gramsci, Il disordine, 17 luglio 1918, in Id., Sotto la mole. 1916-1920, Einaudi, Torino,1960, p. 419.

[27] … nell’ambito di una giurisprudenza oscillante e debole nel tentativo di individuare un’accezione costituzionalmente coerente.

[28] Corte cost., sent. n. 2 del 1956.

[29] Corte cost., sent. n. 120 del 1957, che richiama la sent. n. 1 del 1956; in senso ampio, il riferimento è in specie alle pronunce che salvaguardano alcuni dei c.d. reati di opinione, promuovendone unicamente una circoscrizione»; in senso critico, fra gli altri, cfr. P. Caretti, I diritti fondamentali, Libertà e Diritti sociali, Torino, Giappichelli, 2011, pp. 372-373; per un approfondimento, cfr. A. Di Giovine, I confini della libertà di manifestazione del pensiero, Milano, Giuffrè, 1988; di M. Manetti, Art. 21. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, con A. Pace, in G. Branca, A. Pizzorusso, Commentario della Costituzione, Rapporti civili, Bologna, 2006, spec. pp. 250 ss.

[30] P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, il Mulino, 1984, p. 268.

[31] A. Mbembe, Necropolitics, 2003, trad. it. Necropolitica, ombre corte, Verona, 2016.

[32] Assemblea costituente, I sottocommissione, 19 settembre 1946.

[33] W. Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, 1921, trad. it. Per la critica della violenza, ed. a cura di M. Tomba, Alegre, Roma, 2010, p. 95.

[34] A. Gramsci, Quaderno 7 (VII), 1930-1931, in Quaderni del carcere, v. II, Quaderni 6-11 (1930-1933), a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 2014, par. 83, p. 915.

[35] Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011.

[36] K. Marx, F. Engels, Manifest der Kommunistischen Partei, 1848, ed.it. Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma, 1986, 54.

[37] N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro I, IV, ed. Rizzoli, Milano, 2023, p. 71.

[38] G. Matteotti, Discorso alla Camera dei Deputati, 31 gennaio 1921, citato da Id., Questo è il fascismo, Edizioni e/o, Roma, p. 42.

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Testo della relazione presentata all’incontro Parole di Giustizia 2024, Democrazia e autoritarismi, Urbino-Pesaro 18-20 ottobre 2024.

19/11/2024
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Seconda Repubblica

Pubblichiamo il testo della relazione presentata all’incontro Parole di Giustizia 2024, dedicato a Democrazia e autoritarismi (Urbino-Pesaro 18-20 ottobre 2024)

19/11/2024
Oltre la separazione delle carriere di giudici e pm. L’obiettivo è il governo della magistratura e dell’azione penale

Se per “separazione delle carriere” dei giudici e dei pubblici ministeri si intende una netta divaricazione dei percorsi professionali e la diversità dei contesti organizzativi nei quali vengono svolti i rispettivi ruoli professionali, allora bisogna prendere atto che, a seguito degli interventi legislativi degli ultimi venti anni e segnatamente della recente legge. n. 71 del 2022, la separazione si è sostanzialmente consumata. Ed infatti le quattro proposte di legge di revisione costituzionale presentate in questa legislatura alla Camera dei deputati ed in discussione dal 6 settembre di quest’anno, e quella presentata in Senato, pur formalmente intitolate alla “separazione delle carriere”, hanno obiettivi sostanziali che vanno ben oltre la creazione di due itinerari professionali differenti con diversi accessi e distinti “governi” delle professioni. Esse mirano infatti a ridefinire, a vantaggio del potere politico, i complessivi equilibri di governo della magistratura, a cancellare la valenza costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e ad annullare il principio per cui i magistrati si distinguono solo in base alle funzioni svolte. Nel nuovo ambiente istituzionale creato dalle riforme dell’ordinamento giudiziario, molte delle argomentazioni tradizionalmente addotte a favore o contro la separazione delle carriere hanno ormai perso attualità ed effettiva rispondenza alla realtà. Così che, nel dibattito pubblico che accompagnerà l’iter della progettata revisione costituzionale, occorrerà chiarire all’opinione pubblica quale è la reale posta in gioco e quali le implicazioni di modifiche costituzionali che vanno ben oltre l’assetto e gli equilibri propri del processo penale per investire il complessivo rapporto tra il potere politico e il giudiziario. 

04/09/2023
Presidenzialismo e premierato: i riflessi sul giudiziario

Nel dibattito in corso sul presidenzialismo e sul cd. "premierato", è sin qui rimasto relativamente in ombra il tema dell’impatto che le due diverse prospettive riformatrici avrebbero sui generali equilibri tra i poteri e, segnatamente, sull’assetto del potere giudiziario. A questa tematica va riservata un’attenzione particolare non dettata da miopi preoccupazioni di ruolo o di natura corporativa, ma nascente dalla consapevolezza di quanto sia necessario salvaguardare gli equilibri costituzionali nell’attuazione di processi di riforma. 

17/05/2023
Verso una Costituzione di minoranza per una democrazia dell'onnipotenza*
Dobbiamo decidere non tanto se vogliamo la Costituzione del ’48 a causa del suo prestigio e del suo valore simbolico, ma dobbiamo decidere tra democrazia parlamentare e sistema sostanzialmente autocratico, monocratico, che non è una questione di forma
02/05/2016