Enuncia sin dal titolo la sua scelta questo essenziale libriccino scritto a otto mani, che vuole supportare il rifiuto alla riforma della Costituzione e del sistema elettorale non solo di robuste ragioni tecniche, ma più nel profondo, di un severo dissenso rispetto al modello di democrazia che è destinato ad esserne il frutto.
Prima di ogni illustrazione dei tanti argomenti che nel merito portano a dire NO, si sente forte negli Autori la comune ribellione alla retorica dominante che immedesima nel dissenso – a prescindere dalle sue ragioni – una espressione di “conservatorismo un po’ ottuso di chi ha paura del cambiamento”.
Difficile riuscire ad aprire una discussione su temi così profondi, quando dall’altra parte si predica a suon di slogan la bandiera del cambiamento, all’insegna dell’efficienza e della modernità.
La partita intrapresa si gioca anche sfidando la curiosità dei cittadini ad andare a vedere che cosa c’è dietro al mantra consolatorio delle riforme che salveranno il Paese: e dire NO è anche, e prima di tutto, il rifiuto alle scorciatoie della propaganda e del conformismo.
Quando poi si passa ad esaminare nel dettaglio la portata della riforma della Costituzione, da leggere sempre in parallelo con l’approvazione del nuovo sistema elettorale ora noto come Italicum (l. n.52/2015), ci si chiede se possa essere ritenuta compatibile con il procedimento di revisione costituzionale disciplinato dall’art. 138 Cost., una riforma della Carta che nasca da un’iniziativa non del Parlamento, ma del Governo. Se sul testo proposto possano essere usati strumenti (“canguri” o “tagliole” che dir si voglia) che puntano a soffocare ogni discussione e a escludere gli emendamenti proposti. Se alla revisione della Costituzione possano procedere Camere delegittimate a seguito della ritenuta illegittimità costituzionale della legge elettorale, il famigerato porcellum, con la quale sono state elette. Se infine, il referendum costituzionale che già si prepara possa essere utilizzato in chiave plebiscitaria, venendo chiamati i cittadini ad esprimersi non sul “pacchetto” che innova oltre un terzo della Costituzione, ma piuttosto sull’operato del Governo, e del suo premier.
Nel merito, è fuor di dubbio che la riforma della Costituzione punta ad un rafforzamento dell’Esecutivo con il parallelo indebolimento dei contrappesi: a partire da quel Senato che, invece di essere abolito nell’ottica del monocameralismo, sarà composto da consiglieri regionali e di sindaci, eletti dunque per funzioni affatto diverse, a cui verranno affidate funzioni disomogenee, che spaziano dalla compartecipazione alla funzione legislativa (in alcune residuali ipotesi di complessa definizione, che sicuramente apriranno la strada ad un destabilizzante contenzioso) sino alla inedita valutazione dell’attività delle pubbliche amministrazioni ed alla verifica dell’attuazione di leggi dello Stato. Scompare ogni attribuzione in materia di controllo dell’operato del Governo, primo fra tutti il voto di fiducia.
Dove poi il disegno complessivo svela tutta la sua pericolosità, è nella micidiale combinazione con la riforma del sistema elettorale (peraltro già portata all’esame dei Giudici costituzionali), dove paradossalmente sono ingigantiti quei caratteri di antidemocraticità per cui la Corte costituzionale ha già bollato il porcellum, dal momento che la previsione di un premio di maggioranza produce “eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica (…) e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto”.
Né sono decisivi in senso positivo i tanti luoghi comuni alzati a fuoco di sbarramento contro le voci contrarie: a partire da quello della tanto auspicata riduzione dei costi della politica, dal momento che il risparmio ottenuto dalla diminuzione dei membri del Senato sarà ben esiguo, in mancanza di un taglio più generale – ottenibile con legge ordinaria – dei compensi per tutte le cariche elettive. E soprattutto, di fronte all’enfasi che sottolinea l’obbiettivo di una maggiore governabilità, gli Autori ci ricordano che la stabilità si ottiene con l’adozione di programmi chiari su cui richiedere il consenso dell’elettorato, e su cui poi impostare l’azione governativa, e non con la formazione di “partiti contenitore” a vocazione maggioritaria che portano fatalmente frammentazione ed instabilità (e frequente ricorso al trasformismo, come insegna la più recente storia parlamentare).
Infine, la riflessione si completa, seppure nella sintesi che richiede lo scopo divulgativo, con la considerazione secondo cui, in fondo, tutto torna: la realizzazione di una democrazia di investitura completa il disegno di abbandono di quel modello democratico rappresentativo e partecipativo che usciva dalla chiara architettura della Costituzione del 1948. Ma i tempi sono cambiati: e l’ispirazione del nuovo non si trova certo nell’esperienza della Resistenza al fascismo, ma piuttosto nei documenti della grande banca d’affari J.P. Morgan, dove ci si duole che le Costituzioni nate dalla caduta del fascismo comportino sistemi caratterizzati da “governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; …e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo”.
“Dire NO” diventa allora un esercizio di sovranità consapevole, un gesto orgoglioso di resistenza contro l’autoritarismo e l’attacco ai diritti di tutti. Senza questa consapevolezza, non si comprende fino in fondo la partita che si è aperta.