In quante occasioni un minore può trovarsi, come persona, davanti a un giudice?
Il primo che viene in mente a chi si pone questa domanda, riguarda i casi di comportamenti, per così dire irregolari, dei quali si occupa il tribunale per i minorenni.
Conviene dir qualcosa di questo giudice, che ha raccolto nella sua storia vivi consensi, come anche dissensi altrettanto accesi.
La sua nascita si deve al regio decreto legge 20 luglio 1934 n. 1404, con cui si intese affrontare in modo organico quella che oggi chiameremmo la devianza minorile con un insieme di disposizioni intese a prendersi cura delle situazioni di antisocialità dei giovanissimi.
E si stabilì che dei reati commessi da minori dovesse occuparsi un giudice appositamente creato.
Con giudici di carriera, ma non solo.
Ad essi si associarono dei componenti privati, giudici laici.
La ragione preminente , che ispirò questa innovazione era rappresentata dalla introduzione di alcune attenuazioni del rigore previsto delle norme penali allora in vigore.
La caratteristica peculiare del processo penale minorile, era rappresentata dalla introduzione dell’istituto del perdono giudiziale che poteva applicarsi ogni qual volta il giudice ritenesse la possibilità “di applicare una pena restrittiva non superiore a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore alle lire 15.000=, anche se congiunta a detta pena”.
Dall’ampliamento della concessione della sospensione condizionale della pena, in luogo del limite di un anno; dalla possibilità di più ampia concessione della liberazione condizionale.
Ricordiamoci che all’epoca, per un furto con due aggravanti – rari, allora come oggi, i furti con una sola aggravante - la pena andava dai tre ai dieci anni, che allora si scontavano tutti, perché non era ancora stata inventata la magistratura di sorveglianza .
Se questa fu l’esigenza più concreta, altre e più elevate furono le motivazioni sociali.
Tra le quali, fondamentale quella di fornire un istituto che provvedesse, dopo la pena, alla rieducazione del minore alla vita sociale.
Il principio cui la legge si ispirò è quello del riconoscimento dell’esigenza di una competenza e di una preparazione particolare in materia psicopedagogica nel giudice cui si affidavano le decisioni in materia di minori.
Per questo si ritenne di integrare la composizione del tribunale con l’inserimento di esperti, benemeriti dell’assistenza sociale, scelti tra i cultori di biologia, di psichiatria di antropologia criminale di pedagogia e di psichiatria come recita l’articolo 2.
Gli si affidò poi il compito di provvedere all’assistenza dei minori in stato di abbandono. Il sistema funzionò nei limiti che gli erano assegnati, soprattutto per la materia penale.
Leggi successive in particolare quella del 4 maggio 1983, n. 184 assegnarono a questo organo nuove competenze, tra cui una serie di potestà in ambito familiare che prima spettavano al tribunale ordinario.
Si riteneva che un giudice specializzato in materia minorile fosse quello più adatto a decidere di questioni che involgevano i figli.
Nella stessa ottica intervenne poi nell’ anno 2001, la n. 149, 28 marzo 2001.
Importante però è notare che sia la prima che la seconda espressamente stabilivano che in ogni caso, sulle questioni che lo riguardavano, doveva essere “sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore in considerazione della sua capacità di discernimento”.
Formula particolarmente fortunata, che poi sarebbe stata recepita testualmente in ambito internazionale.
Una prima osservazione.
Poiché non esiste nessun metodo di insegnamento né corso scolastico che formi l’ottimo giudice minorile, si supporrebbe che alla funzione minorile venissero destinati magistrati dotati di particolari attitudini personali specifiche per questo tipo di attività; ma questo fin dall’inizio, non avvenne e forse non poteva avvenire.
Sta di fatto che già in un intervento del 1976 uno dei giudici sicuramente tra i più esperti e tra i più sensibili di questo settore, a questo riguardo: Alfredo Carlo Moro , scriveva: deve lamentarsi che fino ad oggi le assegnazioni ai tribunali per i minorenni non sono state effettuate dal Consiglio superiore della magistratura sulla base dei indicazioni tendenti ad appurare la sussistenza dei particolari requisiti richiesti al giudice minorile e che la stessa richiesta del magistrato di assegnazione a tali organi giudiziari non sempre è stata effettuata sulla base di un’effettiva scelta vocazionale, ma è stata spesso determinata da motivi personali che nulla hanno a che fare con una reale attitudine o un effettivo interesse per il mondo minorile (per ottenere una sede, per evitare incompatibilità ecc).
Naturalmente si può obiettare: ma la competenza specialistica necessaria per queste funzioni non deve appartenere al togato: è appunto per questa ragione che il tribunale è composto anche di magistrati onorari, che appunto integrano per questo aspetto la formazione solo tecnica del giudice ordinario.
Ebbene, sotto questo profilo, ecco cosa riferisce, lo stesso Carlo Alfredo Moro, in un successivo intervento a oltre venti anni di distanza: “anche la specializzazione della componente onoraria appare assai carente e i criteri di selezione inadeguati…Permane l’anomalia di un reclutamento fatto sostanzialmente dai singoli presidenti dei tribunali per i minorenni sulla base di criteri di scelta sempre informali (perché sottratti a meccanismi concorsuali) e spesso personalistici e discrezionali (con qualche consistente preoccupazione sulla reale indipendenza dei giudici, sostanzialmente cooptati e che possono essere confermati solo se il presidente, che li ha scelti, esprima parere favorevole); sono ancora consentite permanenze nell’incarico ultradecennali…
Sarebbe stato utile prevedere espressamente la necessaria presenza di specializzazioni diverse nello steso tribunale per evitare che, come avviene principalmente nei tribunali del Sud d’Italia, la stragrande maggioranza dei giudici sia costituita solo da insegnanti o da casalinghi pensionati (42+8 su 71).
Dunque si potrebbe dire, i presupposti teorici su cui l’istituto fu costruito apparvero fin dall’inizio vacillanti.
Questo giudice ebbe fautori appassionati, come contestatori altrettanto accesi.
L’occasione che dette luogo a una sorta di sollevazione pubblica contro la giustizia minorile ebbe luogo negli anni 1988 e 1989, allorchè prima il tribunale per i minorenni, poi la Corte di appello sezione minori di Torino avevano allontanato una bambina filippina di circa due anni dalla coppia che l’aveva portata in Italia presentandola – falsamente - come figlia del marito.
Ne era derivata una accesissima discussione pubblica sui limiti degli interventi della giustizia minorile, e contro i servizi sociali.
Si era parlato di delirio di onnipotenza, e ne scaturì anche un libro di Natalia Ginzburg, “Serena Cruz o la vera giustizia” .
Nulla poi accadde, come è regola nel nostro paese.
Al di là di questo specifico episodio, anche in sede dottrinaria, si contestò specificamente le modalità di esercizio del potere del tribunale, che deliberava e delibera nelle forme del decreto, ai sensi dell’articolo 737 codice di procedura civile, ossia in camera di consiglio, anche di ufficio, con provvedimenti esecutivi, nonostante l’articolo 111 della Costituzione; norma successivamente in qualche misura corretta.
Raccogliendo questi rilievi, il Ministro della giustizia Castelli, elaborò un progetto di riforma che, in sostanza, manteneva in vita il tribunale per i minori solo per la materia penale, ed assegnava tutte le questioni civili riguardanti i minori a sezioni specializzate del tribunale ordinario, composto da tre magistrati togati.
Escludeva la partecipazione di giudici onorari, e richiedeva che i giudici fossero scelti tra coloro che avessero titoli tali da evidenziare una specifica competenza in materia.
La caduta del governo bloccò il tentativo di riforma, peraltro accolta sfavorevolmente dai giudici minorili.
Dopo questo fugacissimo excursus, svolgo alcune osservazioni.
La specializzazione è una bella cosa.
Ma bisogna evitare di farne un mito.
Nel mondo del diritto come in ogni professione è impossibile prescindere dal possesso di una conoscenza specifica quando si affrontino settori che per la complessità della normativa richiedono inevitabilmente uno studio approfondito imposto dalla autonomia e complessità del settore.
La materia societaria, l’urbanistica, i rifiuti, il fallimentare; ogni giudice per necessità come del resto ogni avvocato è specializzato in qualche settore.
Ora questo apparato normativo autonomo nel campo minorile non esiste, per cui parlare di specializzazione è un po’ una forzatura.
Il che però non vuol dire che il mestiere di giudice minorile non abbia una sua specificità.
Ma la caratteristica professionale essenziale riguarda le capacità di ascolto, la sensibilità personale, l’attitudine a farsi carico dei bisogni e delle attese del bambino, la disponibilità al dialogo e alla comprensione.
Per questo era giusto che il giudice dei minori non fosse chiuso in un suo separato universo, ma continuasse ad avere esperienze e contatti anche con realtà del vivere comune, come il progetto Castelli prevedeva.
Anche perché, la esclusività delle competenze e dei suoi poteri, può presentare il rischio di considerare la materia come un dominio incontrastato, e sentirsi dotato, grazie alla separatezza, di un potere assoluto nelle decisioni che investono la persona, senza tenere sempre presente che il minore, specialmente quando ha capacità di discernimento e di espressione, non è cosa che si possa trattare come creatura destinata per la sua condizione ad assoggettarsi alla altrui volontà.
E su questo punto conviene ricordare che nei documenti che a livello interno come internazionale si occupano di minori si prevede l’obbligo del suo ascolto, perché condizione essenziale per il rispetto dei suoi diritti e della sua persona, è che il minore abbia modo di manifestare, se capace di discernimento, la sua volontà e i suoi desideri.
Basta ricordare, in materia di adottabilità, la legge 28 marzo 2001 n. 149, che all’articolo 14 stabilisce che “devono essere sentiti il tutore, ove esista, e il minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche il minore di età inferiore, che abbia capacità di discernimento”.
E negli stessi termini il principio era consacrato nell’articolo 156 del codice civile, in tema di affidamento.
Per non parlare delle prescrizioni in ambito internazionale.
La convenzione di Strasburgo – ratificata con legge 20 marzo 2003 n. 77 – stabilisce all’articolo 3 che al minore interessato in un procedimento davanti all’autorità giudiziaria spetta il diritto a) di ricevere ogni informazione pertinente e b) di essere consultato ed esprimere la propria opinione…L’articolo 4 conferisce al minore il diritto di richiedere la designazione di un rappresentante speciale nei procedimenti che lo riguardano, e- articolo 6 – ha diritto che si tenga conto della sua opinione (ovverosia che si motivi se e perché essa sia disattesa).
Così pure la convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 dispone che al minore capace di discernimento spetta il diritto di esprimere la sua opinione su ogni questione che lo interessa, e che esse vanno tenute in considerazione: “a tal fine si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne….”.
Finalmente, leggi recentissime riaffermano con particolare incisività questo concetto.
Mi riferisco alla legge delega 10 dicembre 2012 n . 219, per la revisione delle disposizioni in tema di filiazione, dove il punto i) dell’articolo 2 stabilisce che il governo debba dettare la “disciplina delle modalità di esercizio del diritto all’ascolto del minore che adeguata capacità di discernimento, precisando che, ove l’ascolto sia previsto nell’ambito di provvedimenti giurisdizionali, ad esso provveda il presidente del tribunale o il giudice delegato”.
E il decreto legislativo emesso in base a questa direttiva, 28 dicembre 2013 n. 154 , nell’articolo 337 octies riafferma ancora una volta che prima dell’emanazione dei provvedimenti che riguardano i figli (di cui al 337 ter)…il giudice dispone inoltre l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.
Dispone, ossia deve disporre.
Se poi v’è da decidere il luogo in cui il minore deve essere cresciuto allora l’articolo 371 del codice ne impone l’ascolto se ha compiuto gli anni dieci.
Ma ecco la sorpresa: lo stesso decreto in un altro articolo – il 336 bis introduce une deroga: “se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto con provvedimento motivato”.
Dunque il governo, nel dare esecuzione alla legge delega approvata dal Parlamento, ha introdotto un’ eccezione che la legge non prevedeva, e quindi non consentiva: in base ad essa, anche il ragazzo che ha compiuto i 12 anni, può non essere ascoltato, quando il giudice lo ritenga superfluo, basta che in sentenza ne dia atto.
E di questa eccezione la giurisprudenza si è subito impadronita, anche a livello di cassazione, affermando, dopo aver riconosciuto che questo diritto esiste, che esso però ( sezione prima 7 ottobre 2014, e 21 novembre 2014 n. 24863) può essere ignorato con varie giustificazioni, del tipo evitare “l’ulteriore aggravio per lo stato d’animo della bambina”, oppure “l’elevata conflittualità tra i genitori”… come se non fosse proprio l’elevata conflittualità a determinare il contenzioso e a richiedere semmai a maggior ragione il colloquio col minore; e come se a turbare lo stato d’animo della bambina o del bambino non fosse il trauma di sapere che uno dei due genitori da allora in poi non vivrà più nella stessa casa, ma il fatto che il giudice gli chieda, con l’auspicabile massimo garbo possibile, mi vorresti dire con chi preferisci stare?
Di fatto, è sufficiente che il giudice attesti di aver valutato la non opportunità di procedere all’ascolto, per evitare l’adempimento dell’obbligo.
V’è qualcosa di ancor meno condivisibile.
Perché assai spesso quando all’ascolto si fa luogo, lo si fa, diciamo così, per delega.
Molti tribunali hanno trovato il modo di evitare questo certamente delicato adempimento anche quando formalmente lo si rispetta, inventando la metodologia dell’ascolto indiretto.
Cioè dell’ascolto delegato ad un terzo, nominando un consulente esterno.
Mi chiedo: ma se l’atto di più squisita delicatezza viene affidato ad altre mani o ad altri cervelli, a che serve la creazione di un giudice che si vuol dire specializzato? E come è possibile ignorare che in realtà il giudice in questo modo non ascolta il minore, ascolta il soggetto che ha sentito il minore, ossia il giudizio che costui si è fatto sulle cose che il ragazzo gli ha detto o gli ha fatto dire; e come è possibile, in assenza di una videoregistrazione, che non è prevista come obbligatoria per quanto leggo tra i protocolli che formalizzano questa prassi, capire quanto ci sia o non di spontaneo in quel che viene riferito?
Indipendentemente dalla sicura arbitrarietà di questa prassi, che le leggi non prevedono (ad es. anche in penale, l’articolo 498 stabilisce che le domande al ragazzo le fa il presidente, che può avvalersi dell’ausilio di un familiare o di un esperto; ma non che le domande le fa l’esperto), essa tradisce il valore anche umano oltre che giuridico che tutte le leggi anche internazionali hanno voluto proclamare; quello per cui quando un uomo ha da decidere cose che riguardano un bambino, deve vederlo, questo bambino e parlarci, e ascoltarlo per conoscere se ha un qualche pensiero da esporre.
E il rischio che l’impostazione professionale dell’esperto invada il resoconto del colloquio, è ben superiore al rischio della presunta inadeguatezza del giudice.
Che non dovrebbe neppure ipotizzarsi, dato che si presume la specializzazione del magistrato.
È la separazione del giudice dal contatto diretto con il caso umano, che ha consentito che trovasse credito, presso vari giudici, una ideologia che ha elaborato principi in astratto ineccepibili, ma che finisce a volte col sacrificare proprio quei diritti che assume di voler valorizzare.
È il caso del documento, a firma di un nutrito gruppo di psicologi, non so se anche di psichiatri, che è stato pubblicizzato come “documento psicoforense sugli ostacoli al diritto alla bigenitorialità”.
Che afferma il principio, sacrosanto, del diritto del minore a “rapportarsi in maniera armonica ed equilibrata” con i propri genitori. Si assume che a volte il genitore presso cui il figlio è collocato gli trasmette l’ostilità verso l’altro, e che tale situazione dà luogo a una sindrome scientificamente definita come sindrome di alienazione genitoriale.
Vale a dire uno stato morboso (sindrome è, dice il Palazzi, il complesso di tutti i sintomi che si riscontrano in un malato), caratterizzato dal “rifiuto ingiustificato e comunque talora solo parzialmente giustificato da parte del figlio di frequentare uno dei genitori”.
La terapia è rappresentata dalla “messa in atto di interventi e di provvedimenti psicosociali e giudiziari volti alla tutela dei diritti stessi”.
La formula è ambigua, ma il concetto è chiaro.
Per amore o per forza.
Ora non v’è dubbio che se una madre – è il caso di scuola – istiga il figlio a detestare il padre, o a disprezzarlo, si è in presenza di un comportamento, più che riprovevole, inaccettabile.
Ma, in primo luogo, per scoprire se questa sia effettivamente la situazione che si respira in casa, è proprio il colloquio diretto col bambino, che deve essere lo strumento principe per chiarire se la sua ostilità sia indotta, o derivi da ragioni proprie dello stesso bambino (magari perché il padre lo intimorisce, o è violento in famiglia).
Dunque dove esiste un rifiuto all’apparenza immotivato, il giudice dovrebbe per prima cosa, domandarsi e cercar di capire perché.
Ma proprio allora diventa irrinunciabile sul piano umano prima di tutto, che con questo bambino il giudice ci parli, e non solo per vergare quattro righe in un verbale, ma per capirne i sentimenti, gli affetti e le idee.
Delegare questo compito ad altri, è una fuga dalle proprie responsabilità.
In questo modo il giudice tradisce il suo dovere primario, che è quello di decidere secondo il proprio intimo sentire, perché è a lui che si affida la scelta di ciò che è giusto.
E questa scelta non può essere delegata ad altri, senza scadere dal ruolo di giudice, per trasformarsi in burocrate della giustizia.
L’abuso che a volte si fa, nominando veri o presunti esperti, e senza una specifica istanza di parte, tra l’altro con aumento di costi, è una prassi da condannare.
È dunque dovere indeclinabile del giudice, prima di tutto ascoltare, e, salvo che emergano ragioni specifiche che richiedano un qualche approfondimento medico, decidere, secondo coscienza; soprattutto con l’obiettivo primario di non usare violenza al minore, non solo fisica, (che mi pare comunque inconcepibile come con estrema rozzezza si fece col piccolo Leonardo, prelevato a forza dall’ambiente scolastico, cui un genitore affida i figli pensando che siano tutelati come in casa propria), cercando di capire quanto di scelta propria c’è, se c’è, in questo rifiuto.
E se il rifiuto risultasse ingiustificato, non è comunque con la forza che si può pensare di favorire un riavvicinamento; che semmai accresce l’odio, non l’amore.
Salvo i casi è ovvio di maltrattamenti o abusi; nei quali peraltro non è il figlio che dovrebbe essere allontanato, ma l’autore delle violenze.
Perciò il mestiere del giudice minorile, delicato, ma anche ricchissimo di umanità come pochi altri, richiede un atteggiamento di umiltà e di disponibilità anche a recepire le ragioni di un bambino, che nessun’altra funzione giudiziaria richiede.
Era per questo che Moro parlava di vocazione.