Magistratura democratica
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L'autonoma valutazione del giudice della cautela

di Tiziana Coccoluto
Giudice del Tribunale di Roma
Prime note a commento alla legge 16 aprile 2015, n.47

Nel perenne dibattito esistente tra principio di non colpevolezza, o di presunzione di innocenza, di cui all’art. 27, co. 2 Cost., e la contestuale esigenza di tutelare il la collettività, si inserisce l’ intervento manipolatorio riferibile al ddl 1232b, adesso Legge n. 472015, avente ad oggetto l’intero capo del codice di procedura penale dedicato alla regolamentazione dei margini di intervento cautelare personale, ante iudicium ed in itinere iudici , geneticamente innestato su di un solco legislativo compresso tra gli effetti devastanti del sovraffollamento carcerario, sanzionati nella Sentenza Torreggiani, e l’aspettativa di rimodulazione di un sistema cautelare in termini strettamente funzionali alla corretta definizione del processo, escludendone gli effetti anticipatori e, strictu sensu, sanzionatori.

Ritenendo centrale la discussione teorica sui margini di tollerabilità della cautela personale all’interno del perimetro costituzionale dato, il legislatore interviene direttamente sui presupposti di applicabilità della restrizione tanto sui canoni ermeneutici di valutazione della cautela, direttamente ricavabili da un articolato motivazionale vincolato.

Ridotto il catalogo di reati con pena edittale legittimanti l’intervento custodiale carcerario, recepiti su base normativa gli esiti degli interventi della Consulta in materia di presunzioni cautelari legate al titolo del reato, eletti gli arresti domiciliari - anche assistiti da dispositivi di controllo elettronico - a misura di prima scelta, esclusa una valutazione prognostica di recidivanza “non attuale” e  collegata esclusivamente alla gravita’ del reato contestato, il prodotto giurisdizionale, come desumibile dalla arricchita formulazione dell’art. 292 c.p.p. deve essere , a pena di nullità, rilevabile anche d’ufficio, riconducibile ad una valutazione “autonoma” del giudice, in grado di esprimere i passaggi conoscitivi ed interpretativi dell’intero materiale indiziario in atti , oltre che dei sintomi di rilevazione cautelare.

E’ evidente la necessità di fornire al giudice della cautela una linea guida ermeneutica che, partendo dalla provvista indiziaria, si snodi attraverso i parametri di individuazione della prognosi di recidivanza, fino alla indicizzazione della scelta della misura concretamente applicabile: una sorta di garantismo motivazionale codificato.

Andando alla analisi degli interventi normativi, gli stessi si spiegano lungo tre linee direttrici che vedano manipolazioni sostanziali sugli artt. 274, 275, 276 e 280 c.p.p. , in combinato disposto con l’art. 292 c.p.p. relativo al contenuto essenziale dell’ordinanza cautelare.

 

Artt. 274 e 280 c.p.p.

Gli articoli 1 e 2 del provvedimento – integralmente recepiti dal Senato nella loro originaria  formulazione alla Camera – vanno a precisare il contenuto del pericolo di reiterazione di cui all’art. 274, lett. c. c.p.p., definendolo, oltre che concreto anche attuale, e pertanto, non desumibile in via esclusiva, dalla gravita’ del titolo di reato per cui si procede.

La formulazione di fatto poco innova rispetto al solco giurisprudenziale che ha chiarito i termini di reale concretezza del pericolo di recidivanza legittimante la adozione della misura cautelare, necessariamente ancorato ad un “perdurante collegamento dell’imputato con l’ambiente in cui il reato e’ maturato” o “ alla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati…oltre che di elementi concreti sulla base dei quali sia possibile affermare che l’imputato ( rectius) indagato, potra’ commettere reati rientranti fra quelli contemplati nella suddetta norma processuale”.[1]

Il dato, per essere recepito nella sua reale potenzialità, deve essere coordinato con la seconda delle interpolazioni normative per cui attualità e concretezza del pericolo di recidivanza non possono essere dedotti in via esclusiva dalla gravita’ ( astratta) del titolo di reato per cui si procede: ne deriva la necessaria ricerca di  di  un quid pluris in termini di attualizzazione delle singole situazioni analizzate, tanto piu’ stringenti quanto più ampio e’ il lasso temporale dal fatto contestato, sia pure nella sua massima gravita’.

In tali termini si era già pronunziata da ultimo la Suprema Corte[2] in materia di associazione tipica di cui alla’art. 74 D.P.R. 30990 , andando a precisare come, a fronte di condotte risalenti nel tempo ed in assenza di quei tratti sintomatici dell’associazione di cui all’art. 416 bis – vincolo associativo strutturato su base territoriale, assistito dall’evocazione di una diretta forza di assoggettamento e di conseguente omertà – la sussistenza delle esigenze cautelari “attuali” deve desumersi da specifici elementi positivi in fatto e dall’assenza di  elementi contrari attestanti il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo (v. Corte cost., sent. n. 231 del 2011).

Diversamente, devono ritenersi fuori norma, le opzioni ermeneutiche per cui [3] la corretta valutazione del concreto pericolo di reiterazione dell'attività criminosa può essere desunto anche dalla molteplicità dei fatti contestati, considerati quali indici sintomatici, unitamente alle modalità della condotta, di una personalità proclive al delitto, indipendentemente dall' attualità di detta condotta e quindi anche nel caso in cui essa sia risalente nel tempo. 

La specifica qualificazione in termini di attualità dei pericula inserita dal legislatore definisce in modo testuale il punto di estensione massima della previsione di recidivanza, escludendo ogni ragionamento di immediata identificazione tra tipologia di reato e sussistenza del periculum , nel suo realistico e prossimo verificarsi: il decorso del tempo tra il fatto ed il momento di adozione della misura diviene questione di fatto e di diritto, legittimante l’adozione del provvedimento.

Il coordinamento con l’art. 280 c.p.p., gia’ modificato dall’articolo 1, comma 1, decreto-legge n. 78 del 2013, convertito nella L. 94 del 2013, ha determinato una precisazione sulla tipologia dei reati di cui si prevede la reiterazione e che possano sostenere lì applicazione della custodia in carcere, necessariamente riconducibili a delitti per i quali e’ prevista una reclusione non inferiore ad anni 5: i limiti di ammissibilita’ della cautela incidono necessariamente sul prospetto prognostico, non potendo ammettersi la custodia cautelare in carcere per delitti, pur rientranti nel catalogo di cui all’art. 280 c.p.p. se il pericolo di recidiva si dimostra attuale e concreto per delitti di specie diversa ma al di sotto della soglia edittale minima, residuando in questo caso il ricorso a misure cautelari alternative.

 

Artt. 275 e 276 c.p.p.

L’art. 275 c.p.p. e’ il protagonista indiscusso del ddl 1232b, ora L. 4715.

Ampiamente interpolato e implementato costituisce il nucleo centrale della modifica laddove sintetizza a chiare lettere la assoluta residualita’ della custodia cautelare in carcere nel sistema processuale dato, offrendo all’interprete un percorso di scelta delle misure, ancora una volta rafforzato, attraverso il ricorso agli obblighi motivazionali sanzionabil.

In primis, il  primo periodo del comma 3, viene sostituito dal seguente “La custodia cautelare in carcere puo’ essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate”: dal punto di vista degli esiti applicativi questa e’ sicuramente la previsione più dirompente, sia perché bypassa il fronte di un orientamento giurisprudenziale ultimo, pressoché granitico e negativo, in tema di cumulabilità delle misure, sia perché offre al giudice una piu’ vasta gamma di scelte operative calibrabili sulla specificità del caso, potendo combinare un divieto di dimora con un obbligo di presentazione alla p.g. – garantendo un controllo specifico rispetto a reati collegati direttamente con il territorio - o una sospensione dell’esercizio di un pubblico ufficio correlata ad divieto temporaneo di esercitare determinate professioni – evitando che un sistema di abuso e corruttela all’interno di una P.A. possa trasferirsi direttamente nell’ambito del sistema economico privato.

La felice intuizione normativa risponde in modo preciso alla ratio del sistema per cui deve essere consentita, essendo come tale imposta, l'adozione del trattamento meno afflittivo tra quelli idonei ad assicurare le esigenze cautelari del caso di specie, atteso che proprio la combinazione tra i vincoli derivanti da più misure può consentire la rinuncia a provvedimenti di tipo custodiale  altrimenti necessari, nei limiti in cui queste siano tra di loro omogenee e compatibili.

Una soluzione questa che si pone come il precipitato applicativo delle indicazioni di adeguatezza, proporzionalità e gradualità della misura da applicare, sub specie  di monitoraggio costante  della scelta cautelare del giudice, il più possibile aderente al caso di specie, nella sua esplicitazione oggettiva e soggettiva: la possibilità di modulare la restrizione attraverso il ricorso agli effetti congiunti di diverse misure cautelari cumulativamente applicate, consente di giustificare la lesione che ne deriva con le concrete esigenze di tutela di ben determinati interessi.

Ragionando in termini sistematici ciò comporta un “vulnus” nel sistema della previsione legale della tipologia delle misure cautelari, profilandosi provvedimenti a contenuto variabile, ma rispondenti comunque alla ratio primaria di contenere al minimo l’intervento di una cautela inframuraria evitando afflitivita’ superflue se non del tutto anticipatorie della sanzione.

Nella stessa linea può leggersi la previsione demolitoria – art. 4 legge cit. - delle presunzioni cautelari, come conosciute, di cui al secondo periodo del comma 3 dell’art. 275 c.p.p., rispondente all’impalcatura Costituzionale – ridisegnata da ultimo dalla Sentenza n. 48 del 2015 che ha escluso dalle possibili ipotesi di valutazione delle presunzioni legali il concorso esterno all’associazione di cui all’art. 416 bis c.p. – e idonea a raggiungere il sotteso scopo deflattivo rispetto al sovraffollamento carcerario.

Residuo di un potere di cattura predeterminato, legittimato dalla presunzione  di esigenze non diversamente governabili in una assai varia casistica di reati, la previsione in esame ha offerto il fianco a costanti interventi adeguativi della Consulta, rispetto ad invertite  coordinate del principio di adeguatezza, laddove la regola finisce per essere costituita dall’adozione della misura e l’eccezione invece dal rispetto del diniego, in evidente contrasto con il principio di non colpevolezza diversamente coniugato rispetto agli addebiti mossi.

Una volta confinata nell’ambito delle ipotesi di cui agli artt. 270, 270 bis e 416 bis c.p. la presunzione legale di idoneità esclusiva della custodia cautelare in carcere, il residuo catologo di reati – quali ad esempio quelli di cui all’art. 51 commi 3 quinquies e 3 quater c.p.p., 575, 600 bis etc. – rimane sottoposto a doppio vaglio di sussistenza positiva del periculum e negativa di idonea applicazione di misure diverse da quella custodiale inframuraria: per entrambe vige la clausola di salvezza della acquisizione in atti di elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari ( prima ipotesi) o, in relazione al caso concreto, che le esigenze cautelari posano essere soddisfatte con altre misure (seconda ipotesi).

A chiusura, dopo il comma 3 dell’art. 275 c.p.p., l’art. 4 del  ddl in esame inserisce un comma 3-bis per cui “Nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275 bis, comma1”:  ancora un ostacolo motivazionale che , per ambito di inserimento e dicitura testuale, attribuisce alla misura degli arresti domiciliari, assistita dal controllo elettronico, la funzione di reale misura alternativa al carcere, sulla cui comparazione il giudice dovrà esprimersi in modo concreto espresso e specifico, prima di addivenire ad un secco giudizio di inidoneità.

Una inidoneità che deve essere valutata nel corso di tutta la durata della misura, dunque sia in fase genetica che dinamica, anche a fronte di una violazione degli obblighi e delle prescrizioni imposte a tutela del divieto di allontanamento dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, ove le stesse siano di lieve entita’ e comunque arginabili con la conservazione della misura domiciliare: trattasi dell’ennesima abolizione di un automatismo cautelare che dequalificava nella sua originaria idoneità, la detenzione domiciliare e cio’ a seguito di qualunque tipologia di condotta in parte o in toto violativa degli obblighi connessi al vincolo imposto.

Anche in questo caso la norma si appropria di elaborazioni applicative sperimentate dai giudici della cautela  - e recepiti in parte dalla Suprema Corte [4]-  rispetto a ipotesi di irrilevante sforamento dei tempi autorizzati di allontanamento dal domicilio, o di spostamento in pertinenze attigue all’abitazione e comunque destinate ad attività di vita  privato.

Rispetto alla ipotesi di revoca automatica di cui al precedente art. 276, comma 1-ter, la Suprema Corte, nell’ottica conservativa di una coerenza delle norme con i principi costituzionali, ed in particolare con gli artt. 3,13 e 27 Cost. come peraltro ribadito dalla stessa Consulta con la sentenza n. 40 del 2002, aveva ritenuto tale disposto normativo un caso ragionevole di presunzione di inadeguatezza degli arresti domiciliari, tutte le volte in cui la misura si fosse rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione al suo contenuto essenziale.

Una volta che alla nozione di allontanamento dalla propria abitazione si riconosca, come effettuato nella stessa sentenza n. 40, la valenza rivelatrice in ordine alla sopravvenuta inadeguatezza degli arresti domiciliari, non è escluso che il fatto idoneo a giustificare la sostituzione della misura, tipizzato dal legislatore nella anzidetta formula normativa, possa essere apprezzato dal giudice in tutte le sue connotazioni strutturali e finalistiche, per verificare se la condotta di trasgressione in concreto realizzata presenti quei caratteri di effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la violazione che la norma impugnata assume a presupposto della sostituzione. Una simile affermazione, peraltro, non vale a contraddire la lettera della legge che impone al giudice di disporre l'aggravamento quando abbia verificato una vera e propria "trasgressione", mentre vale, piuttosto, a sottolineare come sia onere del giudice verificare le caratteristiche strutturali della condotta dell'indagato e la sua idoneità ad essere qualificata come effettiva "trasgressione" nei termini di cui alla norma.

Il legislatore ha dunque contenutisticamente declinato l’offensivita’ della trasgressione con il parametro della lieve entita’, tale essendo ogni condotta che, valutata nella sua concretezza ed espressione ( in relazione agli aspetti oggettivi e soggettivi che la costruiscono), non possa essere ritenuta realmente violativa del contenuto essenziale della misura imposta.

I primi interrogativi sulla corretta interpretazione ed applicazione della norma non possono non tener conto dell’elaborazione giurisprudenziale data, per cui la trasgressione di lieve entita’ , inidonea all’automatica revoca della misura domiciliare, e’ quella che non e’ in grado di mettere in discussione la capacità contenitiva della misura, ma che non incide sull’effettiva integrazione dell’eventuale reato di evasione: la lieve entita’, per come contemplata dalla norma, deve essere coordinata con la funzione della cautela e della attuale idoneità della misura che si ritiene violata, rimanendo impregiudicato il successivo o concomitante giudizio di responsabilita’ ex art. 385 c.p.

Diversa la verifica sulla particolare tenuita’ del fatto in cui alla base si riscontra una prognosi di non punibilita’ del reato stesso, con iter motivazionale del tutto diverso che si fonda sull’insussistenza stessa di una trasgressione identificabile con il reato di evasione.

La ricostruzione normativa si completa non l’adeguamento dell’art. 284  c.p.p., il quale prevede – secondo la riformulazione operata dall’art. 6 L. 4715 –che il giudice possa comunque permettere l’adozione degli arresti domiciliari ( in luogo della custodia in carcere) ove sulla base di elementi specifici, ritenga che il fatto – oggetto di sentenza di condanna per evasione nei 5 anni antecedenti al fatto – sia di lieve entita’ e che gli arresti domiciliari soddisfino le esigenze cautelari.

 

Artt. 289- 308 c.p.p.

L’incentivazione all’utilizzo delle misure interdittive passa attraverso una ragionevole modifica procedimentale tracciata dall’art. 7 dell’articolato in esame, per cui all’art. 289, comma 2, e’ aggiunto il seguente periodo: “Se la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio e’ disposta dal giudice in luogo di una misura coercitiva richiesta dal pubblico ministero, l’interrogatorio ha luogo nei termini di cui al comma 1-bis dell’art. 294

Nonostante la previsione di termini di efficacia più ampi già introdotti dalla Legge Severino, la concreta operatività delle misure interdittive , quale alternativa valida alla proposta cautelare custodiale, scontava il rischio della necessaria discovery imposta dalla previsione di un interrogatorio preliminare quale condizione di applicabilità della misura. La ratio genetica della previsione normativa – peraltro circoscritta ai procedimenti per reati contro la P.A. era essenzialmente collegata[5] alla necessità che nel giudizio cautelare il giudice potesse valutare il contrapposto interesse della P.A. alla continuita’ della funzione, arrivando al rigetto della richiesta cautelare in presenza di un concreto, ed insopportabile, pregiudizio della funzione amministrativa a seguito della temporanea sospensione dell’indagato dal suo servizio.

La Suprema Corte  ne ha di fatto esteso effetti ed applicazione a tutte le ipotesi di reato cui e’ collegato il possibile ricorso alla misura interdittiva, quindi sia con riferimento ai delitti contro la pubblica amministrazione sia a quelli comuni e plurioffensivi, pur sempre qualificati dalla posizione e qualità soggettiva dell’agente, con un conseguente un ampliamento del diritto di difesa in ragione della qualità soggettiva svolta ed a prescindere dalla tipologia di condotta integrata.

Era evidente in quest’ottica che proprio rispetto ai fatti di corruzione, assistiti da un compendio indiziario grave, accompagnato da una concreta ed attuale esigenza cautelare, il pregiudizio reale  per la P.A. e’ costituito dalla permanenza del funzionario corrotto piuttosto che dalla sua rimozione, mentre del tutto vanificate risultavano gli ulteriori sviluppi investigativi da una scelta procedimentale che imponeva l’apertura del contraddittorio su tutto il fascicolo.

Il legislatore interviene dunque – sia pure parzialmente – secondo lo schema indicato, autorizzando il giudice della cautela ad opzionare la misura interdittiva senza dover ricorrere al preventivo interrogatorio di garanzia che potra’ essere differito secondo i termini ordinari di cui all’art. 294, comma 1-bis c.p.p.

Trattandosi di intervento aggiuntivo l’effetto rimane incomprensibilmente limitato ai casi in cui il PM si sia determinato a chiedere una misura coercitiva ed il giudice decida diversamente di applicare, sola o cumulata , una misura interdittiva: ne deriva un sistema per cui l’accesso agli atti rimane ancorato alla proposta procedimentale del PM che, se ritiene ab origine di dover applicare una misura interdittiva, si trovera’ a dovere esporre l’indagine ai rischi di  inquinamento di un preventivo interrogatorio di contestazione.

La previsione deve a questo punto essere valutata in termini restrittivi ed eccezionali,  riferibile esclusivamente al momento della prima decisione sulla richiesta cautelare della pubblica accusa, dovendo escludersi la necessita’ di espletare l’interrogatorio stesso in caso di misura interdittiva adottata dal T.d.L. in sede di appello avverso il rigetto da parte del giuidice della cautela. L’evolutiva elaborazione degli Ermellini aveva gia’ precisato come, se è vero che, nell'ipotesi di presentazione da parte del P.M. di un appello avverso l'ordinanza di rigetto dell'iniziale richiesta, il tribunale adito ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen. decide, nei limiti del devolutum, con gli stessi poteri del primo giudice, è anche vero che tale organo collegiale provvede "sull'impugnazione" più che, propriamente, "sulla richiesta" del P.M.

La regola del previo interrogatorio di garanzia di cui al considerato art. 289, comma 2, c.p.p., viene meno, infatti, nelle fasi successive a quella delle indagini preliminari, nelle quali l'instaurazione del rapporto processuale, con la conseguente possibilità per le parti di interloquire direttamente con il giudice, dinanzi al quale far valere le proprie ragioni, porta ad escludere la necessità di quell'eccezionale forma di anticipazione del contraddittorio, per finalità cautelari, in tutti i casi in cui sia stato integrata la possibilità di un confronto sulla regiudicanda. Ed allora, se pure l'intervento del tribunale dell'appello ex art. 310 cod. proc. pen. può indifferentemente esplicarsi "nel corso delle indagini preliminari" come nelle fasi successive, l'instaurazione del procedimento incidentale di impugnazione integra un contraddittorio delle parti sulla tematica de libertate, venendo meno quel bisogno di anticipazione della facoltà di interlocuzione che ispira la disposizione de qua.[6]

In linea con il processo di implementazione delle misure interdittive si pone altresi’ la sostanziale modifica dell’art. 308, comma 2, c.p.p. con una previsione di termini  comuni, a prescindere dal titolo del reato, di un diverso termine massimo, modulabile dal giudice della cautela, non superiore ai 12 mesi, salvo possibili rinnovazioni nella misura del doppio in presenza di esigenze probatorie.

 

Art. 292, comma 2, lett. c e c-bis c.p.p.

L’art. 8 chiude il cerchio dell’intervento legislativo sugli obblighi motivazionali del giudice della cautela, rafforzando, attraverso l’inserimento dell’”autonoma valutazione”, sia in punto di esposizione degli elementi indiziari e cautelari che hanno imposto la adozione della misura cautelare, sia in termini di valutazione delle specifiche e concrete ragioni che non hanno consentito il ricorso a misure alternative alla custodia carceraria“, l’ambito del controllo giurisdizionale sulla richiesta degli organi inquirenti.

L’introduzione specifica di un dato qualitativo del provvedimento positivo  risponde all’esigenza primaria di una chiara intelligibilità’ dell’iter logico-argomentativo che ha condotto il giudice ad adottare il provvedimento coercitivo, onde evitare “motivazioni apparenti” che di fatto eludono la copertura costituzionale di cui all’art. 13 Cost.

Un’esigenza talmente avvertita dal legislatore da sottoporla ad una sanzione di nullita’ rilevabile d’ufficio dal Tribunale del Riesame, cui viene revocato il potere integrativo diretto rispetto ad ipotesi di motivazioni assenti o prive del requisito di autonomia.

La specifica previsione di tale nullita’, con interpolazione additiva dell’art. 309, comma 9, c.p.p., modifica essenzialmente l’ambito di intervento del Tribunale del Riesame che, da gravame puro con possibilita’ di integrazione totale e reciproca del provvedimento impugnato,  vede aumentare il poteredovere di annullamento rispetto rispetto a motivazioni inesistenti o anche semplicemente apparenti.

Se da un lato sembra conservarsi integra la possibilita’ del Tribunale della Liberta’ di valutare “ultra petita” gli elementi indiziari e cautelari posti a fondamento del provvedimento coercitivo, confermandolo anche per ragioni diverse da quelle indicate dal giudice della cautela, nessun intervento ad adiuvandum e’ consentito rispetto a provvedimenti che non palesino la preesistenza di una effettiva conoscenza, diretta e autonoma da parte dell’autorita’ giurisdizionale adita delle ragioni del provvedimento richiesto e adottato[7].

La censura sembra immediatamente riferibile alla c.d. motivazione per relationem, tanto nei casi di dichiarazione diretta nell’incipit del provvedimento, quanto nel caso di ricezione acritica degli atti e della richiesta: cosi’ quando l'apparato argomentativo, nel recepire integralmente il contenuto di altro atto del procedimento, o nel rinviare a questo, si sia limitato all'impiego di mere clausole di stile o all'uso di frasi apodittiche, senza dare contezza alcuna delle ragioni per cui abbia fatto proprio il contenuto dell'atto recepito o richiamato o comunque lo abbia considerato coerente rispetto alle sue decisioni.

E’ evidente come la ratio della norma sia indirizzata ad evitare provvedimenti coercitivi privi di un titolo sostanzialmente riferibile ad un giudice terzo, rispetto ai quali l’indagato in vinculis non abbia la possibilita’ di comprendere immediatamente le ragioni della decisione cautelare onde esercitare i propri diritti di difesa. Sicche’ viene normativizzato il principio per cui in ipotesi di accertata nullità del provvedimento coercitivo, per violazione di legge, a causa della mancanza assoluta di motivazione in ordine ad uno dei presupposti che legittimano l'applicazione della misura, rimane precluso al giudice del riesame l'esercizio del potere integrativo e sanante il cui esercizio è attribuito al predetto dall'art. 309, comma 9, c.p.p., trattandosi di un potere di intervento che postula una motivazione unicamente insufficiente ma non radicalmente inesistente.

A ciò induce anche la considerazione del sistema delle competenze funzionali previsto dal codice di rito nell'ambito del subprocedimento cautelare: legittimando il Tribunale del riesame a motivare ex novo una ordinanza coercitiva del tutto priva di motivazione, si finirebbe con l'attribuirgli, in ammissibilmente, l'esercizio di poteri-doveri funzionalmente riservati al primo giudice.

In tale contesto, con la previsione di una nullita’ immediatamente rilevabile d’ufficio e la necessita’, in caso di conferma, di una motivazione da depositarsi in termini perentori, il legislatore ha inteso evitare periodi di detenzione non coperti da un titolo valido, o sottoposti a copertura  giurisdizionale differita.

Il cambio culturale richiesto e’ del tutto coerente con una lettura costituzionalmente orientata dell’intero sistema delle cautele personali, oltre che evidentemente in linea con le spinte deflattive espresse dalla Sentenza Torreggiani.

 



[1]  Sez. 5, Sentenza n. 24051 del 15/05/2014 Cc.  (dep. 09/06/2014 ) “ In temi di reati personali, ai fini della valutazione del pericolo che l'imputato commetta ulteriori reati della stessa specie, il requisito della "concretezza", cui si richiama l'art. 274, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., non si identifica con quello di "attualità" derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, dovendo, al contrario, essere riconosciuto alla sola condizione, necessaria e sufficiente, che esistano elementi "concreti" (cioè non meramente congetturali) sulla base dei quali possa affermarsi che l'imputato, verificandosi l'occasione, possa facilmente commettere reati che offendono lo stesso bene giuridico di quello per cui si procede.”

[2] Sez. 6, Sentenza n. 52404 del 26/11/2014

[3]  Sez. 3, Sentenza n. 3661 del 17/12/2013 Cc.  

[4]  Sez. 3, Sentenza n. 4369 del 12/12/2013 Cc.  (dep. 30/01/2014 )

Ai fini della valutazione della configurabilità della trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari, per stretta pertinenza dell'abitazione deve intendersi il luogo che sia da questa immediatamente raggiungibile senza soluzione di continuità spaziale e che, per le sue caratteristiche strutturali, risulti destinato esclusivamente alla vita privata di chi dimora nel fabbricato in cui è compreso l'appartamento o la casa. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio il provvedimento di aggravamento degli arresti domiciliari nei confronti di soggetto che si era recato in un'area condominiale circondata dai muri perimetrali del fabbricato in cui risiedeva).

[5] La norma in esame, come noto, venne modificata dall'art. 2, comma 1, legge 16 luglio 1997, n. 234, approvata al termine di un iter parlamentare che aveva avuto come suo punto di partenza, tra l'altro, il disegno di legge n. 910, presentato presso il Senato della Repubblica il 9 luglio 1996, nella cui relazione di presentazione si legge che l'introduzione dell'obbligo per il pubblico ministero, che durante le indagini preliminari chieda al giudice la sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio, di procedere all'interrogatorio dell'indagato, avrebbe avuto "lo scopo di evitare il clamore e i disagi, anche per l'utenza, da una sospensione disposta inaudita altera parte, rispetto alla quale l'interrogatorio del giudice delle indagini preliminari nei dieci giorni dall'esecuzione appare comunque tardivo. Se il pubblico ufficiale indagato, relativamente al quale non sussistono quelle stringenti ragioni di cautela processuale che impongono il regime inaudita altera parte per l'applicazione delle misure coercitive, é in grado, presentandosi al pubblico ministero, di fornire una ricostruzione dei fatti che renda superflua la misura, si sarà realizzata al tempo stesso economia di atti processuali, tutela del prestigio della pubblica amministrazione e funzionalità della medesima". In tal senso si era’ espressa la Consulta, con sentenza del 2260 n. 229, conservando la ragionevolezza della scelta normativa rispetto a ipotesi analoghe.

[6]  Cfr. Sez. 2, Sentenza n. 29132 del 12/03/2013 Cc.  (dep. 09/07/2013 ) Rv. 256346

“Il tribunale del riesame che, in sede di appello ex art. 310 cod. proc. pen., disattendendo la richiesta del P.M. di applicazione di misura cautelare personale, applichi, invece, la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio, non ha l'obbligo di procedere al previo interrogatorio dell'indagato”. 

[7] Vedi da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 12537 del 04/12/2013 Cc.  (dep. 17/03/2014 )

 

20/05/2015
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