Nel recente disegno di legge sulle misure cautelari (n. 1232 nel testo da ultimo risultante dalla proposta della 2a Commissione permanente del Senato), che interviene su circoscritti e specifici profili del procedimento cautelare, vi è una previsione sui termini che rischia di introdurre una disciplina irrazionale del giudizio di riesame delle misure cautelari (artt. 309 c.p.p. e ss.).
Pur restando fermo il termine di 10 giorni a pena di inefficacia della misura per assumere la decisione (deposito del dispositivo: art. 309, comma 9 c.p.p.), vi si prevede che la ordinanza (cioè la motivazione) debba essere depositata nel successivo termine di 30 giorni, estensibile al massimo di ulteriori 15 giorni, e ciò – anche in tal caso – a pena di inefficacia della misura cautelare in corso.
Appare alquanto singolare la previsione di un termine ad effetto caducatorio con riferimento alla redazione della motivazione di provvedimenti giudiziari.
Non è previsto, per esempio, per le sentenze, che vanno redatte sì entro termini prefissati dal codice di rito (art. 544 c.p.p.), ma detti termini sono articolati secondo un più flessibile ventaglio di opzioni (motivazione contestuale ovvero differita di giorni 15, facoltà di assegnazione di un termine fino a gg. 90, prorogabile fino a altrettanti 90 gg.) e la relativa osservanza non è comunque presidiata da sanzioni di inefficacia e/o invalidità della decisione.
Al contrario, durante il decorso del termine per redigere la motivazione (ma senza che rilevi l’eventuale ritardo) la durata delle misure cautelari, ove in atto nei confronti dell’imputato, resta sospesa (art. 304, comma 2 c.p.p.).
Non si vuole certamente fare un elogio della lentezza nella redazione della motivazione delle ordinanze del riesame, il cui deposito condiziona la proponibilità del ricorso per Cassazione.
Così come non si vuole negare che l’attuale mancanza di previsioni normative ad hoc sui tempi di redazione della motivazione (unitamente alla palese inadeguatezza del termine ordinatorio di cinque giorni ex art. 128 c.p.p., previsto per la generalità delle ordinanze camerali) possa ingenerare incertezze e prassi lassiste.
Ma, volendo incidere sulla tempistica del riesame, si potrebbe introdurre comunque un range di termini più elastici e privi della pericolosa e punitiva sanzione della inefficacia della misura cautelare, che potrebbe continuare a rimanere legata al solo momento della decisione.
La funzione di piena e tempestiva garanzia della libertà personale è assicurata infatti proprio dalla immediata efficacia della decisione (con la emissione del dispositivo: v. Cass. Sezioni Unite penali sent. n. 7/1996), mentre la fissazione di termini per il deposito della ordinanza dovrebbe mirare fisiologicamente a dare impulso ai successivi passaggi dell’iter procedimentale.
Senza contare poi che la previsione del DDL comprime irrazionalmente la fase del riesame a fronte del segmento che precede (richiesta del PM --> emissione della ordinanza del GIP) e di quello che segue (fase del ricorso per Cassazione), fasi queste che continuano a non essere governate da alcuna previsione di termini, nemmeno di tipo meramente accelarotorio-ordinatorio.
Si può obiettare che durante la fase dell’esame da parte del GIP della richiesta cautelare non vi è in corso un sacrificio della libertà personale.
Tuttavia, se la funzione delle misure è quella di scongiurare il pericolo concreto e attuale di prosecuzione o reiterazione del’attività criminosa, di inquinamento delle costituende prove e/o di fuga, più il tempo scorre più tale esigenza viene frustrata.
Durante la pendenza del ricorso per Cassazione invece il sacrificio della libertà personale è ancora in corso.
Anzi sarebbe stato auspicabile un ampliamento, sia pure contenuto, del ricordato termine di 10 giorni per emettere la decisione del riesame, termine rivelatosi nella prassi spesso insufficiente a studiare la corposa mole degli atti delle indagini preliminari, soprattutto con riferimento all’ipotesi (tutt’altro che infrequente) di ordinanze su richiesta delle Direzioni Distrettuali Antimafia nei confronti di decine e decine di indagati.
Senza considerare che il tribunale del riesame (la cui competenza abbraccia l’intero distretto di corte d’appello e che in virtù delle rigide scansioni a pena di decadenza già previste non ha margini di flessibilità nella gestione del ruolo) è il primo e sostanzialmente unico momento del procedimento cautelare in cui si attua il contraddittorio sul merito.
In altri termini, è il luogo nel quale si concentrano tutte le “tensioni” della vicenda cautelare, imponendosi spesso ai giudici l’approfondimento contestuale di plurime e complesse questioni procedurali e sostanziali in tempi già oggi eccessivamente ristretti.
L’esperienza insegna che, quando ciò accade, i giudici concentrano le loro forze e il tempo a disposizione nello studio dei procedimenti in trattazione, sacrificando – necessariamente – la redazione della motivazione di decisioni già incamerate.
Il giudice del riesame rischia concretamente di essere posto nella drastica e poco funzionale alternativa tra motivare in modo sbrigativo e incompiuto l’ordinanza per evitare di provocare l’inefficacia della misura (esponendo la decisione al rischio di annullamento in Cassazione) ovvero motivare adeguatamente facendo però scadere il termine.
Si potrà infine obiettare che la vicenda cautelare richiede una cognizione probabilistica e sommaria, non di pienezza probatoria, come nel giudizio principale.
Ciò è solo parzialmente vero.
La misura cautelare ha parzialmente mutato fisionomia nel tempo, passando da incidente sommario, che interviene all’inizio delle indagini al primo embrionale insorgere di una delle esigenze indicate nell’art. 274 c.p.p., a strumento di verifica della “tenuta” delle indagini, da adottarsi quando queste – sempre più sofisticate e complesse – sono quasi del tutto concluse e si prefigura quella che sarà la piattaforma istruttoria del processo.
Il relativo onere motivazionale, anche grazie alla elaborazione della giurisprudenza, si è proporzionalmente esteso e ampliato e il termine oggi previsto appare sempre più relativamente incompatibile con la necessaria assimilazione di vicende complesse.
Che fare?
Al di là di un’auspicabile rimodulazione più razionale dei termini, per fare fronte all’adottando assetto della materia, si deve riflettere sulla opportunità di alleggerire e semplificare l’onere motivazionale del giudice del riesame (con la previsione di una motivazione concisa e/o con un più ampio e incisivo ricorso alla motivazione per relationem, etc.), e comunque sulla necessità di potenziare l’organico delle sezioni riesame (sottraendo magistrati ad altre sezioni, in tempi in cui però la coperta è troppo corta per tutti…).
A tale proposito suscita perplessità anche la previsione nel citato DDL dell’annullamento della ordinanza impugnata “se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa” (nuovo comma 9 dell’art. 309), e ciò tanto più perché sorretta dalla dichiarata ratio di volere incidere, sovvertendolo, sul principio per cui “il giudice del riesame possa sempre integrare la motivazione invalida del giudice cautelare, senza poter mai annullare il provvedimento impugnato per difetto di motivazione” (relazione di accompagnamento del DDL alla Camera dei Deputati).
Ciò per un verso non corrisponde al consolidato assetto normativo e giurisprudenziale della materia.
È già univocamente affermato che nel caso di carenza grafica oppure di apparato motivazionale inesistente perché del tutto inadeguato o basato su clausole di stile o affermazioni apodittiche senza che si dia contezza alcuna delle ragioni per cui abbia fatto proprio il contenuto dell'atto recepito o richiamato o comunque lo abbia considerato coerente rispetto alle sue decisioni, il tribunale del riesame non può integrare la insufficienze motivazionali del provvedimento impugnato, dovendolo annullare per violazione dell'art. 125, comma 2, c.p.p. (Cass. pen., sentenze n. 25631/2012, 33753/2010; v. anche art. 292, comma 2-ter c.p.p.).
Per altro verso la integrazione tra i due provvedimenti (ordinanza impugnata e ordinanza di riesame) è frutto della natura di mezzo di impugnazione devolutivo propria del riesame, discendente dalla sua configurazione codicistica, in sé non alterata.
E ciò è in linea con quanto ritenuto anche tra motivazione della sentenza di primo e secondo grado.
È nell’interesse del buon funzionamento della Giustizia e in primo luogo di chi soffre il sacrificio della libertà personale assicurare al giudice cautelare (anche nella cruciale fase del riesame) quella flessibilità argomentativa e, attraverso una equilibrata cornice di termini, quello spatium temporis necessario a fare sì che siano prese decisioni meditate e capaci di resistere nelle ulteriori fasi del giudizio.