Che le intercettazioni telefoniche siano tra i temi “caldi” della dialettica tra magistratura e politica non è certo una novità. Periodicamente l’argomento si ripropone nel dibattito pubblico, soprattutto in occasione di vicende di cronaca giudiziaria che riguardano politici e pubblici amministratori, poi il dibattito si sopisce, a prescindere dal fatto che siano state o meno intraprese iniziative di riforma. E questo andamento è ormai diventato ciclico.
La ragione di tanta attenzione riposa, certamente, sulla efficacia probatoria dello strumento in relazione allo svolgimento delle vicende giudiziarie. Le intercettazioni telefoniche, infatti, consentono di acquisire elementi fondamentali di prova, provenienti dalla viva voce dei protagonisti. Sono quindi risultanze difficilmente confutabili che, nella maggiori parte dei casi, pongono l’indagine al riparo da ogni critica strumentale, che faccia leva sull’opinabilità della ricostruzione investigativa quando non sulla sua infondatezza e strumentalità a non mai precisati disegni oscuri perseguiti dagli organi inquirenti.
Le intercettazioni, quindi, proprio per l’oggettività della prova che consentono di acquisire sono strumento assai temuto anche soltanto in relazione agli effetti che producono sul piano strettamente processuale. Ecco la ragione dei ripetuti tentativi di ridurne l’utilizzabilità o renderla comunque più difficoltosa.
Ma quello processuale non è l’unico piano sul quale le intercettazioni delle conversazioni esplicano i loro effetti.
C’è poi un piano politico e sociale conseguente al disvelamento all’opinione pubblica dei contenuti delle conversazioni quando, ciò è compatibile con la fase processuale in cui versa l’indagine.
In questo campo gli effetti sono ancor più immediati e dirompenti, atteso che le conversazioni intercettate spesso contengono, oltre alla prova dei reati commessi, anche il riscontro di atteggiamenti e linguaggi che non di rado si rivelano incompatibili con l’immagine pubblica ed il ruolo istituzionale dei protagonisti, evidenziando, al di la delle singole condotte penalmente rilevanti, un atteggiamento eticamente criticabile che, agli occhi dell’opinione pubblica, coinvolge l’intera immagine personale dei protagonisti, mettendo in moto ondate di riprovazione che sempre più spesso mettono in discussione, almeno nel breve periodo, la possibilità di poter proseguire nell’impegno politico pubblico e nell’esercizio delle cariche istituzionali al momento rivestite dai protagonisti. Ciò determina, in ragione di dinamiche meramente politiche, medianiche e di opinione, l’anticipazione degli effetti sociali che la vicenda giudiziaria porrebbe solo all’esito del suo, lunghissimo, decorso.
Non c’è da meravigliarsi, quindi, che queste dinamiche siano esecrate da quanti fondano sull’immagine pubblica il loro percorso di politici e di amministratori della cosa pubblica.
A cavallo della scorsa estate si è svolta l’ultima puntata di questo confronto. Il riscontro che ne rinveniamo oggi leggendo le iniziative legislative che ha prodotto è ben poca cosa rispetto all’attenzione che ha suscitato tra i protagonisti e nell’opinione pubblica; tanto che per ricostruirne puntualmente i temi e le rispettive posizioni appare molto più utile partire dalle cronache giornalistiche piuttosto che dai lavori parlamentari.
In questo caso le occasioni che hanno riacceso l’attenzione sull’argomento sono state più di una e hanno riguardato leader politici con incarichi istituzionali di primissimo livello, non coinvolti nelle indagini, ma comunque attinti da intercettazioni telefoniche relative ad altre persone. In tutti i predetti casi, i contenuti delle interecettazioni che li riguardano hanno prodotto imbarazzo politico per i soggetti interessati e per i relativi partiti politici, conducendo, in uno dei casi, alle dimissioni di un ministro.
Il tema dei limiti alle intercettazioni, quindi, si è posto in relazione ad una sua inedita declinazione, che riguarda l’utilizzazione negli atti giudiziari e la successiva pubblicazione da parte degli organi di informazione, di intercettazioni relative a conversazioni dal contenuto non incriminante e intercorse con persone non indagate.
In verità solo in un primo momento e per un breve lasso di tempo il dibattito pubblico è sembrato orientarsi verso la possibilità di prevedere interventi legislativi volti a fissare limiti formali di inutilizzabilità per le intercettazioni che coinvolgono i “terzi”. Ma le reazioni critiche, non solo della magistratura ma di ampi settori del mondo politico hanno sconsigliato di proseguire nell’iniziativa vagheggiata attraverso dichiarazioni pubbliche estemporanee. In verità appaiono condivisibili le considerazioni da più parti svolte circa l’assoluta impraticabilità di tale soluzione se non a costo di un consistente depotenziamento dello strumento investigativo.
In primo luogo la spesso difficile definibilità dei ruoli dei diversi soggetti nel corso delle indagini preliminari non consentirebbe di operare una distinzione tra soggetti coinvolti e soggetti terzi se non in una fase prossima all’esercizio dell’azione penale, con l’effetto di ritardare di molto l’operatività di un eventuale filtro, che rischierebbe di operare ex post .
Per altro verso è quasi subito sembrato chiaro che anche le conversazioni intrattenute con soggetti estranei alle indagini possono avere un significativo valore probatorio o in quanto contengano dichiarazioni auto accusatorie rese al “terzo” dall’autore del reato o in quanto comunque utili a ricostruire il c.d. “contesto” in cui si svolge l’azione criminale, che tanto rilievo può assumere sia in chiave indiziante e, soprattutto, in chiave cautelare.
Con il termine “contesto” si indica, prevalentemente, quell’insieme di elementi che, pur non essendo direttamente ed univocamente indizianti, evidenziano quale sia l’ambiente in cui opera il soggetto criminale, le sue entrature ed i suoi rapporti relazionali, gli atteggiamenti personali e culturali nei quali si inseriscono le condotte illecite. In tal senso non è privo di interesse, ad esempio, evidenziare se ed in che misura un imprenditore che opera nell’illegalità abbia conoscenze e rapporti, anche del tutto leciti, con soggetti che rivestono cariche pubbliche; se dimostri di avere un atteggiamento insofferente al rispetto delle regole e dei principi di legalità, se dimostri spregiudicatezza nella gestione dei propri affari anche quando rimane in un’area di liceità, se vanti relazioni influenti per conseguire risultati ancorché leciti, ecc.
Questo patrimonio di informazioni non può certamente definirsi a priori irrilevante. Spetta all’autorità giudiziaria in modo esclusivo stabilire, in relazione alla singola indagine, in che misura ed a che fine darne riscontro nel contesto degli elementi acquisiti ed utilizzati a sostegno del quadro indiziario o probatorio propriamente detto.
In questo campo spetta al magistrato e soltanto ad esso individuare il punto di equilibrio, nel caso concreto, tra l’esigenza di suffragare adeguatamente il quadro accusatorio in vista di un miglior risultato dell’accertamento giudiziario e l’esigenza di tutelare la privacy dei terzi estranei all’indagine che, comunque, in nessun caso può essere illimitatamente ed arbitrariamente pregiudicata.
E’ certo che la vicenda giudiziaria che riguarda altre persone non può costituire l’occasione per dare rilievo pubblico e condotte o comportamenti di terzi che, per quanto “compromettenti”, siano del tutto estranei all’indagine e vengano inseriti in provvedimenti giudiziari al solo fine di renderli pubblici. Gli abusi che dovessero essere perpetrati in materia tradiscono l’essenza stessa della giurisdizione e la funzione del giudice quale custode dei diritti di tutti i soggetti, anche occasionalmente, attinti dall’indagine giudiziaria.
La materia, per la sua delicatezza, non si presta di certo, però, ad ulteriori interventi del legislatore e sul punto deve essere garanzia sufficiente quella costituita dalla professionalità del magistrato, eventualmente ulteriormente rafforzata da indicazione di criteri e linee guida come quelle adottate dal alcuni uffici requirenti.
Il dibattito si è poi concentrato sul diverso tema della pubblicabilità di tali contenuti da parte degli organi di informazione. In particolare, il problema posto riguarda le intercettazioni dei “terzi” che, legittimamente effettuate, vengano poi utilizzate per la motivazione dei provvedimenti giudiziari. Per queste ultime si è sostenuta l’opportunità di introdurre limiti alla loro pubblicazione al fine di salvaguardare la privacy (meglio sarebbe dire la reputazione) dei soggetti intercettati ma estranei alle indagini.
La discussione pubblica sull’argomento è stata caratterizzata da accenti e soluzioni differenti: da parte di alcuni si è sostenuto si dovesse introdurre un divieto assoluto di pubblicazione delle intercettazioni, anche di quelle riportate nei provvedimenti giudiziari, a prescindere dal fatto che riguardino gli indagati o i terzi; altri hanno ipotizzato di rafforzare il filtro costituito dalla c.d. udienza di stralcio delle intercettazioni irrilevanti; altri ancore hanno ipotizzato un limite alla pubblicazione delle sole intercettazioni dei terzi ancorché inserite nelle motivazioni dei provvedimenti. C’è anche chi ha evidenziato che nei diversi momenti nei quali avviene la discovery degli atti di indagine, vengono messi a disposizione delle parti (e fatalmente poi degli organi di informazione) i contenuti di intercettazioni non utilizzate per la motivazione dei provvedimenti giudiziari e ciò determinerebbe una loro diffusione del tutto ingiustificata.
È evidente che il tema della pubblicazione delle intercettazioni interferisce più con la libertà di informazione che con la funzionalità del processo; non a caso da parte di numerosi giornalisti ed intellettuali che hanno partecipato al dibattito si è lanciato un allarme contro il rischio che venisse imposto un “bavaglio all’informazione”.
Non vanno però sottovalutati i profili di intersezione tra il mondo giudiziario e quello dell’informazione né i valori sottesi al pieno esercizio della libertà di stampa in tema di cronache giudiziarie.
In particolare la piena e corretta conoscibilità e pubblicabilità degli esiti dell’attività giudiziaria costituisce un presidio a garanzia delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione repubblicana ai cittadini.
Non può definirsi Stato di diritto quello nel quale non siano pienamente conoscibili, controllabili e quindi criticabili le motivazioni poste a fondamento di una condanna o peggio della limitazione della libertà dei cittadini. Ridurre la conoscibilità diffusa dei provvedimenti giurisdizionali attraverso la loro pubblicazione determina un minor controllo sociale e politico sull’azione della magistratura ed aumenta la possibilità dell’arbitrio o, all’opposto, consente di operare critiche non adeguatamente motivate e, soprattutto, non verificabili che rischierebbero di ridurre ingiustificatamente la credibilità del sistema giudiziario.
Ciò è tanto più inevitabile quando si persegue un modello di magistratura che si tenga lontana dalla esternazione massmediatica delle proprie determinazioni e che parli all’opinione pubblica soltanto attraverso le argomentazioni inserite nelle motivazioni dei provvedimenti.
Intervenire senza criterio in questa materia rischia, quindi, di alterare gli equilibri democratici fissati dalla Costituzione e di produrre storture e devianze ancor più dannose degli effetti che si intende prevenire.
Peraltro, anche dal punto di vista meramente pratico appare assai difficile svolgere correttamente la funzione dell’informazione zigzagando tra contenuti motivazionali ostensibili e contenuti non pubblicabili, determinando inevitabilmente l’incompletezza e quindi l’apoditticità e la scarsa comprensibilità delle informazioni offerte al pubblico.
Per questo dovrebbero essere evitate le soluzioni che selezionano all’interno dei contenuti inseriti nei provvedimenti giudiziari ciò che è pubblicabile da ciò che non lo è. Più condivisibili appaiono invece le soluzioni che consentirebbero di pubblicare tutto ciò che viene inserito nei provvedimenti, comprese le intercettazioni che coinvolgono i terzi, ma non ciò che pur essendo stato acquisito nel corso delle indagini non viene utilizzato per chiedere ed ottenere provvedimenti. L’effetto di tale limitazione sarebbe quello di salvaguardare la conoscibilità dei contenuti dei provvedimenti giudiziari e, al contempo salvaguardare la privacy di quei soggetti, anche indagati, rispetto alla diffusione di loro conversazioni non utilizzate dall’autorità giudiziaria.
Si eviterebbe, pertanto, quel surplus nella diffusione di comportamenti e di fatti, non utili alle indagini, anche personalissimi, che quasi sempre segue alla piena discovery del materiale raccolto in fase di indagini.
Le lunghe settimane di dibattito pubblico, che sono state ricostruite per i loro tratti salienti, hanno alla fine prodotto una norma, l’art. 30 lett. a) della proposta di legge delega al Governo per la modifica del codice penale e di procedura penale, che è stata approvata alla Camera ed ora, cessata l’urgenza, giace al Senato.
Il contenuto della norma in questione è sufficientemente generico ed ambiguo da lasciar prevedere che, in futuro, il tema dovrà essere nuovamente dibattuto.
Si prevede che in materia di intercettazioni debbano essere adottate dal Governo, nel provvedimento normativo delegato, disposizioni “dirette a garantire la riservatezza delle conversazioni telefoniche, attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni, avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento”.
Una formulazione sibillina che lascia libero il Governo di intraprendere ogni soluzione normativa, comprese quelle, subito escluse dal dibattito politico, di ridurre o escludere del tutto l’utilizzabilità delle intercettazioni dei “terzi” nei provvedimenti che chiedono od adottano misure cautelari.
Appuntamento alla prossima puntata.