Magistratura democratica
Magistratura e società

Sul libro di Paolo Aquilanti "Il caso Bontempelli"

di Giampiero Buonomo
consigliere parlamentare capo dell’Ufficio dell’Archivio storico del Senato della Repubblica

Nel libro Il caso Bontempelli, Paolo Aquilanti ricostruisce con acume le circostanze che portarono al diniego di convalida della carica di senatore nei confronti del narratore del “realismo magico”, candidato frontista eletto a Siena per il Senato nel 1948. Una vicenda singolare, soprattutto se raffrontata a quanto accadde in altre istituzioni, tra cui la magistratura, ed una perdita per la ricchezza del dibattito nella prima legislatura repubblicana. 

Il libro di Paolo Aquilanti, Il caso Bontempelli, Sellerio ed. 2020, potrebbe – per la felice tecnica espositiva e per la precipua contestualizzazione storica – essere annoverato nella letteratura di genere, che offre uno spaccato di vita di Palazzo: ma, nel toccare le corde dell’anima, si eleva a dramma di un uomo, che si vede ritorcere contro le parole scritte ed i comportamenti tenuti in un altro sistema politico, in un altro universo valoriale, in un’altra costellazione di interessi economici e sociali.

L’Autore riassume assai minuziosamente le circostanze che giocarono un ruolo decisivo contro il grande narratore del “realismo magico” Massimo Bontempelli: candidato frontista eletto a Siena per il Senato nel 1948, per una manciata di palline nere a voto segreto fu dichiarato “decaduto” l’anno dopo, in sede di mancata convalida da parte del Senato stesso. Incappò nella norma di cooling off introdotta nella legge elettorale per la prima legislatura, in ragione di un’antologia, da lui curata per le scuole in due edizioni a fine anni Trenta, nella quale erano presenti le consuete, sperticate lodi al regime: inserzioni di dubbia pertinenza, se non nell’ottica dello Stato assoluto che domina le menti anche indirettamente, con messaggi veicolati con ogni mezzo che intersechi la funzione educativa e formativa delle giovani generazioni. Nulla di ciò che di egregio fece successivamente, parve contare: un legalistico appiglio bastò per includerlo nella categoria degli ineleggibili e per sottoporlo alle forche caudine della contestazione del seggio.

Il fatto è che il Senato assunse, in quel caso, un atteggiamento più rigorista di pressoché tutti gli altri organi supremi dello Stato e del nuovo ordinamento costituzionale: proprio nella magistratura – per i quali si è coniato l’aforisma che l’apparenza conta tanto quanto l’essenza dell’imparzialità – si registrano casi anche autorevoli di sopravvivenza banco judicis di personaggi compromessi col fascismo, se non addirittura di prosecuzione di percorsi di carriera intrapresi con entusiastiche adesioni verso il regime. Per il resto della pubblica amministrazione, manco a parlarne: l’efficacia dell’epurazione fu contestata già nell’immediato dopoguerra ed il mancato saluto del presidente della Camera Pertini al questore Guida, alla stazione di Milano ancora nel dicembre 1969, resta un icastico segnale della persistenza di ombre su parte non piccola del personale pubblico, ereditato dal Ventennio non solo anagraficamente. 

Forse la spiegazione è proprio nella modalità di cessazione di quel regime. Una cessazione negoziata o concordata, come quella sudafricana o persino quella argentina, può dare luogo ad esperimenti intelligenti di recupero della memoria collettiva, come sono state le commissioni per la verità e la giustizia guidate da Desmond Tutu o da Ernesto Sabato: corrispondono ad una esigenza di catarsi, con cui tutta la società si affaccia a contemplare l’abisso dal quale è finalmente risalita. Lì parlare significa scoprire le ragioni dell’adulterazione dei fatti, l’alternativa diabolica tra indifferenza e complicità, la deriva valoriale in cui tutto il mainstream di una società ha abbandonato gli ormeggi per convenienza, paura o miseria morale.

Ma quando un regime crolla per la frantumazione delle sue basi di consenso, derivante dalle scelte tragiche con cui precipita un intero Paese nella rovina, allora il discorso pubblico richiede una cesura, quanto meno nella parte della sua rappresentanza pubblica che a quel cambiamento si ispira e che quel cambiamento propugna: le “clausole di raffreddamento” servono a questo e, se si va per analogia, dopo la caduta del Muro di Berlino gli ordinamenti succeduti al comunismo sono stati assai meno clementi del nostro. Gli esiti del contenzioso europeo – contro le legislazioni che limitavano l’elettorato attivo e passivo dei soggetti compromessi coi passati regimi dell’Europa orientale – ci mostrano che «la restrizione dei diritti elettorali» dei membri di una categoria di esclusi «deve essere caratterizzata da un approccio selettivo e personalizzato che consenta di tenere conto del loro reale comportamento (…). Agli occhi della Corte, la necessità di una siffatta personalizzazione diventa ancora più importante con il passaggio del tempo, nella misura in cui ci si allontani dall’epoca in cui si presume che i fatti ad oggetto della controversia abbiano avuto luogo» (§ 125 della sentenza 24 giugno 2008 della Corte europea dei diritti umani nel caso Adamsons contro Lettonia).

Prima ancora che nascesse la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (e quindi anche prima dell’articolo 3 del suo Protocollo addizionale), già il Costituente italiano aveva colto l’opportunità di porre un limite cronologico alla compressione dei diritti, nei confronti di soggetti compromessi con un regime dittatoriale. Certo, la standstill clause - introdotta per gli ex fascisti dall’Assemblea costituente per le sole elezioni della prima legislatura repubblicana - era una legge incompleta, visto che (come occhiutamente sottolinea l’Autore) ne erano escluse le cariche sindacali corporative ed invece erano inclusi i propagandisti nei libri scolastici: ma è più un difetto del metodo casistico (assai in voga all’epoca) che il frutto di una reale volontà di “norma-fotografia”. 

I nostri Costituenti operavano senza il sestante della CEDU, in acque incognite, eppure addivennero in via pratica a conclusioni analoghe a quelle cui è pervenuta la giurisprudenza dei diritti umani sessant’anni dopo. Fu nell’applicazione della normativa, piuttosto, che la “giustizia domestica” segnò clamorosamente il passo. Se pure si era scelto, nell’articolo 66 della Costituzione, di mantenere la competenza esclusiva di ciascuna Camera sui titoli di ammissione dei propri componenti, mancava ancora una convenzione - tra i partiti della neonata democrazia - per l’uso corretto del potere di far decadere l’eletto.

La “verifica dei poteri” è un procedimento che tocca corde sensibilissime della vita di ogni assemblea elettiva: in quel momento storico, poi, essa riprendeva vita dopo un quarto di secolo dalla gestione faziosa che ne aveva fatta Antonio Casertano, presidente della prima Giunta delle elezioni dopo la legge Acerbo. Molti dei senatori sapevano che riprendere il sistema statutario si prestava ad un’applicazione sul modello della “giustizia dei vincitori”, contro cui s’era levata la voce di Matteotti; meno presente era la percezione del pericolo di un’applicazione avulsa da quel principio di “personalizzazione”, che si sarebbe affermato nella coscienza collettiva solo nei decenni successivi.

Se la Lettonia ha patito la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel citato caso Adamsons, non è stato tanto perché l’ineleggibile era una guardia di frontiera (quando si consideri la funzione spesso svolta in termini di controllo dei movimenti endo-sovietici, sfuma molto la differenza con i più compromessi ricorrenti del caso Ždanoka contro Lettonia o nel caso Anchev contro Bulgaria, finiti invece con la vittoria dello Stato convenuto): «oltre all’assenza di elementi di prova che confermino la pretesa partecipazione del ricorrente ad attività antidemocratiche (…), la Corte ritiene che occorra conferire particolare importanza alla condotta del ricorrente. Ebbene, niente dimostra che il ricorrente abbia realmente appoggiato idee o tendenze antidemocratiche (…). In presenza di siffatte circostanze la Corte non rileva nella biografia del ricorrente alcun atto – nel senso largo del termine – suscettibile di testimoniare una opposizione o una ostilità al ripristino (…) del suo ordine democratico» (ivi, §§ 128-129). 

È solo da pochi mesi che anche in Italia si è affermato il principio secondo cui «il tenore dell’articolo 66 Cost. non sottrae affatto al giudice ordinario, quale giudice naturale dei diritti, la competenza a conoscere della violazione del diritto di elettorato passivo nella fase antecedente alle elezioni» (Corte costituzionale, sentenza n. 48 del 2021). Per la teoretica della carenza assoluta di giurisdizione, allora dominante, i reclami proposti in sede preelettorale a Siena vennero reiterati a Roma ad elezione avvenuta, entrando nel “dominio riservato” delle Camere. Qui il caso Bontempelli tocca vette di virtuosismo: l’esame della Giunta si dipana lungo un arco di un anno, durante il quale le carte restano consultabili solo ai suoi componenti; la relazione della Giunta conclude per la convalida, ritenendo che l’antologia non rientrasse tra i «libri o testi scolastici di propaganda fascista» la cui autorìa provocava l’ineleggibilità; la relazione di minoranza cita contenuti tratti dall’unico volume dell’edizione del 1939 disponibile, pressoché irreperibile nel mercato librario e fatto pervenire alla Giunta; l’Aula – previo inserimento improvviso all’ordine del giorno – capovolge la proposta della Giunta, che con 101 voti favorevoli resta al di sotto della maggioranza necessaria per sei voti. A queste peculiarità l’Archivio storico del Senato può aggiungere, proprio grazie alla ricerca condotta per l’Autore, la notizia che la copia del volume fu - a richiesta - restituito alla direzione nazionale del partito repubblicano italiano.

Di “personalizzazione”, che consentisse di tenere conto del “reale comportamento”, neanche l’ombra: può apparire un’atroce ironia della storia che proprio il propugnatore di un nuovo Umanesimo si sia visto mettere all’indice, in un’Italia in cui tutti facevano a gara per negare, quasi, persino di aver respirato durante il fascismo.  L’incupita reazione del professore prescinde dall’etichetta di ex «fascista della cattedra» che gli si volle cucire addosso, in quella seduta volutamente confusionaria: il testo disegna assai bene la visione del futuro che si infrangeva in quel voto, in una vicenda che sa molto di Strapaese. Condannare Bontempelli a doversi confrontare con le meschine invidie, la doppiezza di calcolo e le scombiccherate dinamiche del parlamentarismo resuscitato fu sicuramente una perdita, per la ricchezza del dibattito nella prima legislatura repubblicana. 

L’attività parlamentare di un intellettuale spesso dimostra che l’appartenenza, ad uno degli schieramenti in lotta, non fa velo alla natura libera dell’impegno politico: non è un caso che i discorsi parlamentari di Antonio Banfi – pure lui eletto nel PCI in quella legislatura, pure lui alla cattedra durante una parte del Ventennio – siano tra quelli che la Commissione per la biblioteca e l’archivio storico ha proposto per il piano editoriale triennale del Senato, sin da 19 giugno 2019. Quale ricchezza sarebbe stato affiancare, proprio in quel periodo di maggiore contrapposizione tra i blocchi, la voce in Parlamento di un rappresentante della cultura letteraria italiana con la migliore proiezione internazionale del tempo… Abbiamo, grazie alla ripubblicazione che ne fa l’ultimo capitolo del libro dell’Aquilanti, almeno il discorso reso da Bontempelli sull’unico bilancio che si trovò a votare da senatore: ed anche qui l’ironia della Storia vuole che faccia capolino, impertinente, l’argomento del valore del libro scolastico nella costruzione del genio nazionale.

22/05/2021
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