1. Il disegno di legge delega per l’efficienza del processo civile e la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie ha, tra i suoi punti di forza, una implementazione dell’Ufficio per il processo nato nel 2014 dall’inserimento dell’art. 16-octies nella L. 221/2012, che aveva dettato le prime disposizioni per la giustizia digitale.
Esistevano già i tirocini formativi a norma dell’art. 73 DL 69/2013 e quelli previsti dall’art. 37, comma 11, DL 98/2011, che nl 2014 sarebbero stati integrati nell’Ufficio per il processo.
Soprattutto esistevano già esperienze virtuose, promosse presso singoli Uffici giudiziari, che vedevano il coinvolgimento dell’Università: penso alla convenzione con l’allora Facoltà di giurisprudenza del 30 marzo 2009 che prevedeva la realizzazione di un modello ‘artigianale’ di ufficio per il processo con la presenza di tirocinanti già laureati (per i quali il rapporto era allora trilatero, col Consiglio dell’Ordine) e di tirocinanti curriculari (non necessariamente prossimi alla laurea), sotto la supervisione di un tutor universitario e di un tutor affidatario chiamati a verificare il corretto svolgimento dell’esercizio di apprendimento sul campo.
Quelle esperienze sono state prese come modello per lo sviluppo dell’Ufficio per il processo nella versione anteriore a quella di cui oggi si discute, rispetto alla quale ha rappresentato una accelerazione fortissima l’indicazione della piena attuazione dell’UPP tra i passaggi centrali contenuti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, volti alla riduzione dei tempi dei giudizi.
L’accelerazione non ha portato soltanto all’avvio delle procedure di reclutamento di un numero consistente di unità di addetti agli Uffici (con il DL 80/2021), la cui figura, a differenza di quella degli attuali tirocinanti ex art. 73, viene ricondotta al dipendente pubblico con contratto a tempo determinato, ma ha portato anche alla presentazione di appositi progetti, curati dalle Università, per la descrizione e la realizzazione delle azioni di supporto alla attivazione e organizzazione degli Uffici per il processo nelle varie sedi giudiziarie.
Quei progetti, a mio avviso, sono la migliore risposta a chi teme che l’impiego dei giovani (e meno giovani, almeno stando alle prime proiezioni sul reclutamento) nella struttura dell’Ufficio per il processo possa portare ad una sostituzione del giudice nel suo compito proprio, che è quello della stesura delle sentenze. Ma anche a chi teme – e anche su questo è opportuno riflettere – che il profilo professionale che farà da «ponte tra il momento decisionale propriamente detto (di imprescindibile spettanza del magistrato giudicante, sia pure in una logica corale nella preparazione e nell’istruttoria) e la corposa attività amministrativa che questo momento procede e segue» (così la nota del Capo Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del Personale e dei Servizi del Ministero della Giustizia del 3 novembre scorso) sia sbilanciato troppo su compiti di carattere meno culturale e più organizzativo.
2. Facciamo un passo indietro, e chiediamoci in che modo, al di là delle previsioni sull’Ufficio per il processo, la riforma pensi di raggiungere l’obiettivo di una giustizia più efficiente. Ma prima ancora ricordiamoci – pur nella piena consapevolezza che l’efficienza (oltre alla qualità) delle prestazioni del sistema giudiziario è obiettivo specifico di tutto il programma di investimenti, ed è un punto di non ritorno – che occorre sempre particolare cautela nel valutare la giurisdizione in termini di efficienza come se si trattasse di una qualsiasi altra funzione amministrativa, visto il profilo funzionale che la connota, e soprattutto che l’efficienza non deve andare in contrasto con le esigenze di effettività della tutela.
Come ricordava Carnelutti, «lo slogan della giustizia rapida e sicura, che va per le bocche dei politici inesperti, contiene, purtroppo, una contraddizione in adiecto: se la giustizia è sicura non è rapida, se è rapida non è sicura».
Per quanto anche una tutela effettiva presupponga un processo rapido, è indiscutibile, infatti, che non vi sia solo complementarietà, ma anche contrapposizione tra effettività e efficienza, tra prospettiva individuale e interesse generale: l’efficienza, infatti, opera soprattutto sul piano dell’interesse generale, della garanzia che il sistema funzioni nel suo insieme, mentre l’effettività muove essenzialmente da una prospettiva individuale, dall’esigenza, cioè, che il singolo ottenga col processo che aziona «tutto quello e proprio quello che gli è garantito dal diritto sostanziale».
Occorre dunque sempre tener presente la necessità di individuare il corretto punto di equilibrio tra le diverse spinte, e qui il discorso ci porterebbe lontano: basti pensare che dalle più recenti riflessioni della Cassazione sull’oggetto del processo, sulla risoluzione per inadempimento e il risarcimento del danno, e sulla mutatio libelli che viene consentita quando la domanda nuova è complanare alla precedente, emerge, per esempio, la convinzione che un ingresso più stretto della realtà sostanziale nel processo, e un corrispondente effetto più stretto della decisione, se apparentemente permettono di accelerare l’esito di quel singolo processo, non solo possono collidere con la prospettiva generale dell’efficienza del sistema, perché riaprono le porte a nuovi processi su quanto non sia stato oggetto del giudizio precedente e neppure sia colpito dalla preclusione da deducibile, ma nel farlo rischiano di penalizzare le stesse parti della lite precedente, ritardando l’obiettivo del finale ottenimento del bene della vita.
Qualunque sia il punto di equilibrio tra effettività ed efficienza, di certo il processo deve avere una durata ragionevole, e anche questo è un valore garantito dalla Carta costituzionale non meno dei principi di effettività della tutela. In merito ai tempi del giudizio, la Commissione europea ha chiesto all’Italia un impegno di riduzione del tempo necessario ad esaurire i procedimenti aperti nella misura del 40% al 30 giugno 2026, calcolato a livello nazionale, non per singolo ufficio, per tutti gli uffici e tutti i gradi di giudizio.
Se guardiamo agli interventi sulla durata del processo del legislatore del disegno di legge delega, i principali riguardano innanzitutto le proposte di modifica alle norme del codice di procedura. E se è vero che i problemi della giustizia non si risolvono attraverso le regole processuali, è anche vero che questa volta il legislatore, complice il maggior numero di risorse, ha immaginato una azione combinata sulle norme e sull’organizzazione: qui declinata, visto che le risorse del PNRR non possono essere utilizzate per un aumento delle piante organiche e le assunzioni a tempo indeterminato, per un progetto che vorrebbe, nelle intenzioni di chi lo ha immaginato, mutare anche culturalmente l’organizzazione degli uffici.
Per quel che adesso ci interessa, nel modello che emerge dalle proposte di modifica delle norme del codice di procedura civile si possono cogliere anche una serie di spunti per il corretto funzionamento dell’Ufficio per il processo.
Il disegno di legge cerca di rendere il giudice edotto della controversia sin dalla prima udienza, anticipando le memorie che oggi sono collocate a valle, per mettere subito a fuoco le questioni da trattare. E, come già aveva fatto la L. 26 novembre 1990, n. 353, nella logica della implementazione della giustizia consensuale ritorna a prevedere l’obbligo di comparizione personale delle parti alla prima udienza ai fini del tentativo di conciliazione, con conseguenze analoghe a quelle dell’art. 420 c.p.c.: una comparizione personale cui il legislatore aveva rinunciato nel 2005, preso atto della poca fortuna della previsione, rimettendo la comparizione alla richiesta congiunta delle parti o alla discrezionalità del giudice, se necessaria ai fini dell’espletamento dell’interrogatorio libero sui fatti della causa. Valorizza il calendario del processo, che non aveva avuto particolare fortuna, e propone tempi stretti per l’udienza di assunzione delle prove pur nella consapevolezza che termini di questo tipo sono rimessi alla buona volontà del magistrato e al carico del ruolo. Sottolinea l’importanza del modello decisorio dell’art. 281-sexies, e correttamente prevede - sia per evitare che il giudice arrivi alla discussione con la pronuncia “in tasca” e non ascolti i difensori, sia perché oggi la sentenza contestuale è riservata alle cause più semplici, e il modello dell’art. 429 (in cui la lettura in udienza del dispositivo è la regola, rispetto all’eccezione del deposito nei sessanta giorni della motivazione) meglio si attaglia a cause più ripetitive di quelle civili e commerciali - che la sentenza, completa di motivazione, debba essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla discussione (forse sarebbe stato utile qualche giorno in meno, perché non si perda la vividezza dello studio fatto per la discussione). Prevede, per le cause meno complesse (perché i fatti non sono contestati, o l’istruttoria è su base documentale o di pronta soluzione o comunque non complicata), un’alternativa al rito ordinario nel procedimento ex art. 702-bis c.p.c., opportunamente ricollocato nel libro secondo del codice e ridenominato «procedimento semplificato di cognizione» a sottolinearne la natura di procedimento non a cognizione sommaria, ma semplificata. Postula l’esigenza di ridurre i casi in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, in considerazione dell’oggettiva complessità giuridica (qui non definita dalla legge) e della rilevanza economico-sociale delle controversie. Progetta poi tutta una serie di altri interventi che è inutile menzionare nel dettaglio, tutti rispondenti alla medesima logica di ricerca della semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile: tra questi anche una apprezzabile sottolineatura delle esigenze di chiarezza e sinteticità degli atti, che vedremo come il legislatore delegato intenderà meglio declinare, accompagnate da un inedito richiamo alla “specificità” che – almeno con riferimento all’atto di citazione - si giustifica essenzialmente, a mio avviso, per l’esigenza di un quadro dei fatti che permetta l’esercizio del potere-onere di contestazione.
3. Non entro nel merito della scelta di anticipare le preclusioni prima dell’udienza: mi limito ad osservare che, a mio avviso, la scelta valorizza sì la prima udienza, ma non consente di valorizzare altrettanto adeguatamente l’intervento del giudice, un po’ come era accaduto per il rito societario. Credo infatti che una limitata apertura alle novità, dopo l’espletamento dell’interrogatorio libero in prima udienza, da un lato, e, dall’altro, una declinazione dell’elasticità diversa dalla formula per cui si dà all’attore e al giudice la scelta obbligata tra due riti possibili (ordinario e semplificato di cognizione) in base a requisiti predeterminati, con “passerelle” che incanalano in modo rigido lo scambio da un binario all’altro, avrebbero permesso di modulare maggiormente il procedimento a seconda della complessità della lite, una volta definiti i termini della controversia, e imposto comunque quell’attento studio del fascicolo, che è primaria condizione perché si possa svolgere un tentativo di conciliazione efficace oppure si ricorra alla mediazione su invito del giudice, e si arrivi in ogni caso ad una efficiente individuazione delle questioni da discutere, e perciò ad una decisione maggiormente partecipata.
Ai fini che qui interessano traggo però, dall’esigenza di consentire fin dalle battute iniziali del processo uno studio più attento del fascicolo, anche, ma non solo, per favorire la definizione in via consensuale della lite, una prima indicazione circa l’utilità di alcune delle azioni che sono state immaginate per il miglior funzionamento dell’Ufficio per il processo. Così come il fatto che si insista molto sulla difficoltà di arrivare presto alla decisione, indipendentemente dall’introduzione di preclusioni anticipate, dal momento che su questo aspetto incide il tema del “collo di bottiglia” che si crea al momento della conclusione del giudizio, permette di riprendere la riflessione - sempre nella logica dei compiti da attribuire a chi lavora nell’Ufficio per il processo - sulla utilità di prevedere forme di organizzazione del lavoro che tengano conto della difficoltà di gestire in parallelo, anziché in sequenza, le liti pendenti sul ruolo.
Come osserva chi studia l’organizzazione del processo, «la durata totale media dei processi (dall’iscrizione alla conclusione con sentenza, conciliazione o altra forma) è inferiore per i magistrati che lavorano su pochi casi contemporaneamente cercando di chiuderli rapidamente, prima di aprirne di nuovi tra quelli in coda nel loro ruolo. Viceversa, i magistrati che lavorano in parallelo su molti casi, li esauriscono più lentamente, ne concludono meno per unità di tempo e accumulano un carico pendente crescente nel tempo».
Se questo è vero, la pesatura sia qualitativa che quantitativa dei fascicoli in entrata, la predisposizione di modelli per la classificazione, lo studio e la definizione delle questioni, lo studio del raggruppamento e della celebrazione per blocchi delle udienze che prevedono adempimenti omogenei, la descrizione del flusso di atti e attività, sono tutte azioni che se da un lato contribuiscono ad un migliore impiego del tempo che serve per lo studio della causa e per la stesura del provvedimento, dall’altro, al tempo stesso, insegnano (e già qui sta una operazione culturale e formativa non indifferente) a chi le realizza a riflettere sulla dimensione dinamica del “processo”.
Poiché “procedere” significa andare innanzi, è evidente che non basta conoscere gli istituti dal punto di vista statico, ma occorre saperne cogliere la dimensione temporale e fare i conti con lo snodarsi degli atti in quel procedimento in contraddittorio dinanzi ad un giudice il cui profondo significato si comprende ogni volta che si riflette sulla nozione di “scopo dell’atto” nell’art. 156 c.p.c.
Ancora. Sempre dal punto di vista del tempo che si impiega nella fase decisoria, le indicazioni del disegno di legge delega circa atti di parte più sintetici, ma soprattutto chiari e ben scritti, servono ad alleggerire il compito di chi quegli atti deve leggere.
Ma le stesse indicazioni – soprattutto quelle relative alla chiarezza - servono anche per una migliore redazione dei provvedimenti: risultato per raggiungere il quale è estremamente opportuna la creazione di modelli di costruzione del ragionamento logico che sta alla base delle motivazioni, immaginata dalle azioni a sostegno del progetto, perché aiuta i giovani (e non solo loro) a confrontarsi con le differenze che corrono tra la retorica dell’avvocato e quella del giudice, tra un agire strategico e un agire comunicativo, e a imparare che per coniugare sinteticità, completezza e chiarezza espositiva del ragionamento, è necessaria una previa organizzazione degli argomenti. Sembra banale, ma non lo è, se nel sistema della Retorica di Aristotele, poi ripreso da Cicerone e Quintiliano, la costruzione logica del ragionamento viene definita con un termine – dispositio o τάξις - che indica l’ordine di schieramento dell’esercito per la battaglia. La creazione di modelli di ragionamento non deve ovviamente mettere in discussione, perché questo deve rimanere un punto fermo, la necessità che quel ragionamento rimanga nel contenuto opera esclusiva del magistrato e non diventi un’opera di assemblaggio di parti di diversa provenienza (che non siano la predisposizione della cornice che si traduce nella stesura materiale dell’epigrafe della singola pronuncia).
4. Non è solo, dunque, la pur meritoria previsione, tra le varie azioni che il raggiungimento degli obiettivi del PNRR ha fatto immaginare alle Università partner, del consolidamento del rapporto tra sistema della formazione universitaria e contesto giudiziario, a far ben sperare per una crescita delle competenze dei giovani laureandi e laureati.
Ma è già lo sforzo di comprensione delle dinamiche processuali che lavorare sulla dimensione organizzativa del processo porta necessariamente con sé a poter determinare, se correttamente inteso, un salto di qualità nello studio del diritto processuale, prima e dopo la laurea. Perché quella mancanza di immaginazione che oggi si rimprovera agli studenti nello studio del diritto sostanziale, e che ci porta a dire che lo studente impara libri, e non il diritto, è più comprensibile se si guarda alla lontananza che c’è tra le aule giudiziarie e la vita dello studente, che potrà certo avere rapporti con la materia del lavoro, o con le tematiche del diritto civile, ma che più difficilmente avrà occasione di entrare in contatto con la dimensione del processo. Se il processo è (anche) un gioco, non basta studiarne le regole ma occorre praticarlo, né più né meno di quel che accade con qualunque competizione sportiva: perciò, nelle tante strategie di apprendimento per comprendere il rapporto tra la ‘norma’ e il ‘reale’ che in questi anni la Facoltà di Giurisprudenza, prima, e la Scuola di Giurisprudenza, poi, hanno messo in campo per migliorare le competenze dei propri studenti, si sono inserite, accanto ai tirocini curriculari gestiti sempre in stretta collaborazione coi magistrati e col personale amministrativo, le esperienze delle cliniche legali, delle mediazioni e della simulazione del processo (sempre inquadrate, com’è giusto che sia, in uno studio sistematico del diritto e non in un metodo di insegnamento unicamente per casi e questioni, dato che se pure il diritto è funzionale al mondo reale, esso è pur sempre un oggetto autonomo di conoscenza, che deve essere compreso anzitutto dall’interno, secondo i propri principi, per evitare di incorrere nel pericolo, simmetrico e contrario a quello della astrazione, «di pensare che il diritto, come tale, quasi non esista, e che l’unica cosa reale siano i problemi che esso è finalizzato, di volta in volta e nei più svariati settori, a risolvere»).
La partecipazione di giovani laureati all’Ufficio per il processo può essere uno dei modi per il coronamento di questo percorso, volto a comprendere più da vicino le dinamiche processuali in una logica di apprendimento iniziata già sui banchi dell’Università attraverso le lezioni di chi abbia, fino da allora, cercato di insegnare a coniugare in modo serio il rapporto tra il sapere e il fare. Un “coniugio” che ha origine risalenti, se si pensa che è dai tempi di Scialoja, di Allorio e di altri Maestri, che si osserva che con l’invenzione della stampa, nel 1400, la lezione cattedratica ha perso la sua ragion d’essere, e che il metodo «chiacchieratorio», per dirla con Calamandrei, rischia di fare dello studente un “fuco poltrone” e di impedire quella collaborazione attiva e reattiva tra docente e studente che aiuta ad acquisire un metodo anziché spingere ad imparare nozioni.
Dunque, ben venga l’Ufficio per il processo, se letto anche in questa logica e non soltanto in quella dell’efficienza della giustizia, che pure è centrale.
Con una sola chiosa finale sul fatto che, sebbene l’accento sia più sugli orientamenti della giurisprudenza, il disegno di legge delega menziona, tra i compiti di supporto ai magistrati, l’approfondimento non solo giurisprudenziale ma anche dottrinale, e le azioni a sostegno immaginano, correttamente, oltre alla consultazione, la creazione di banche dati e di rassegne ragionate di provvedimenti di merito emessi dai singoli Uffici giudiziari mirate a consentirne la conoscenza e a sviluppare un dialogo sempre più proficuo tra giurisprudenza di merito e di legittimità.
Se correttamente intese, queste previsioni, potrebbero divenire l’occasione per stimolare la costruzione di un pensiero attivo, e non soltanto per facilitare, come troppo spesso avviene, la passiva ricezione di interpretazioni che non si ha la capacità, o la voglia, di ripensare. Al tempo stesso, in un momento storico in cui giustamente si punta sulla digitalizzazione e la tecnologia permette una velocità nell’acquisire informazioni mai vista in precedenza, è necessario anche ricordare, non per apparire nostalgici di un tempo che fu ma per meglio calibrare le azioni che ci aspettano, l’importanza, ancora oggi, della ricerca in biblioteca rispetto all’informazione ottenuta per il solo tramite della ricerca on line.
L’immediatezza dell’informazione consentita dalla banca dati, infatti, non può essere un valore-fine, ma soltanto, semmai, un valore-mezzo nella direzione dell’approfondimento che pure il comma 18 dell’art. 1 del disegno di legge valorizza. La ricerca on line è un (ottimo) punto di partenza, ma non può essere un punto di arrivo, perché, permettendo di giungere direttamente a quello che si cerca, non consente di vedere quello che il motore di ricerca scarta, e che spesso è ciò che aiuta, invece, a ricostruire il sistema complessivo.
Da questa prospettiva, sono le biblioteche, piuttosto, il luogo dove si trova anche ciò che non si cerca, perché è lo stesso frequentatore della biblioteca che diventa “motore di ricerca” e, vedendo cosa scarta, si rende conto della necessità della cornice e della sua composizione.
Senza contare che affidandosi troppo, o soltanto, a motori di ricerca, si rischia di finire per pensare che tutto quello che non si trova on line (per esempio, alcuni testi classici) debba considerarsi superato e inutile, e che sia assai più importante individuare l’ultima sentenza della Cassazione che non leggere le pagine dei Maestri del passato, dimenticando che la giurisprudenza è solo uno dei formanti del diritto e non sempre il principale.