L’8 marzo ho ascoltato una lunga e bella intervista a Fariba Hachtroudi, trasmessa da Radio Tre nel corso del programma Uomini e Profeti.
Attraverso le sue parole, interpuntate da canzoni e citazioni poetiche, ho incontrato una donna di grande fascino, scrittrice, saggista, instancabile accusatrice della repubblica teologica d’Iran, erede di una grande famiglia e di grandi intellettuali sostenitori della giustizia sociale e dell’uguaglianza tra uomini e donne, sostegno di esuli e perseguitati, impegnata nell’emancipazione dei giovani e delle donne del suo Paese, verso il quale esprime la volontà di operare per il cambiamento dall’interno e sentimenti di speranza.
Nella conversazione si sono intrecciate domande sulla famiglia, la Persia dell’infanzia, l’educazione e la vita a Parigi, i libri, il coraggio di tornare in Iran, la prima volta in clandestinità, l’impegno civico e sociale ispirato a un umanismo che trova le sue radici nel pensiero del padre della scrittrice, un famoso matematico e filosofo. E si è parlato dell’ultimo romanzo, Le Colonel et l’appât 455, edito da Albin Michel, pubblicato da Edizioni e/o col titolo L’uomo che schioccava le dita (una strana traduzione che sposta l’attenzione dal binomio dei due personaggi principali del titolo originale ad uno solo di essi anche se evocato attraverso un gesto che cambia la vita all’altro).
Mi sono precipitata a comprarlo. Ed ho scoperto un libro bellissimo, che ti prende, attraverso una lingua forte immaginifica e fluida come canto o poesia, e non ti lascia fino a che ne hai assorbito l’ultima parola o l’ultimo eco.
Il romanzo si srotola attraverso le narrazioni alternate di due io parlanti, il colonnello – già uomo di fiducia del Comandante supremo della Repubblica teologica, supervisore della sicurezza delle prigioni del paese, ora e da cinque anni richiedente asilo in un paese europeo forse nordico – e l’esca (l’appât) 455 – imprigionata per spingere il suo amato a parlare, divenuta un mito della terribile prigione Devine per i suoi NO urlati, il suo mutismo, l’incrollabilità che spaventa i suoi torturatori, ora interprete presso il dipartimento per i diritti umani del paese d’accoglienza. Lo stesso dove il Colonnello attende il riconoscimento dell’agognato asilo. Lo stesso dove i due si incontrano, ai due lati di una scrivania, davanti a chi ha il potere di cambiare il destino, lei l’interprete, lui il rifugiato, lui il torturatore, lei la torturata.
L’incontro sarà fatale. Per la donna, Vima, sarà l’innesco di un viaggio in un passato in parte rimosso e di una elaborazione fino a quel momento rifiutata, ma anche la scoperta di una parte della propria storia, la miracolosa liberazione dalla prigionia, di cui non era arrivata a conoscere il come e il perché. Per l’uomo sarà una nemesi e la via per dare all’amata, un’altra Vima, la sua verità e il suo amore. Per questo Vima, l’esca, la vittima, la torturata, ritroverà l’impulso e la gioia di scrivere. E troverà, in luogo dell’odio, la comprensione per un essere come lei preda del mal d’amore e, in fondo, come lei, vittima.
Molte cose potrebbero dirsi ma non si può privare il lettore del piacere di scoprire questa storia … ogni racconto sarebbe del resto riduttivo e un pallido simulacro dell’emozione che dona la lettura.
Dunque, senza dire di più, senza niente svelare di altri due personaggi che compaiono, prima raccontati e poi in prima persona, preme però fare alcune notazioni.
Il libro contiene scene di tortura e degrado, rivissute da Vima e dal Colonnello sul filo del loro incontro. Non sono scene da portiere di notte. Sono momenti crudi, descrizioni senza sbavature. Sono un’accusa più potente di mille rapporti, più di una azione politica. Sono un’azione politica fortissima.
Il libro colpisce nel far riflettere sull’aguzzino anch’egli come vittima, un punto che turba di fronte alla violenza della tortura e alle sue inenarrabili conseguenze ma su cui la scrittrice ritorna anche nella sua intervista, sottolineando come l’aguzzino, all’interno dell’inquisizione islamista come di altri contesti del pari liberticidi, sia la vittima di una grande ignoranza.
Infine il libro è un grande poema sull’amore, l’amore devastante e totalizzante, adorante, trasfigurante, di Vima, l’esca, per il suo Del, l’uomo per indurla a tradire il quale è stata imprigionata e torturata, e del Colonnella per l’altra Vima, per non perdere la quale ha infine tradito e lasciato il suo paese. Ma anche l’amore dell’altra Vima, la Vima del Colonnello, razionale e matematico. E l’amore di Del, poetico, vinto, nostalgico, Del che per lei scriveva poesie e aveva cantato i suoi piccoli piedi: “Tu mi manchi, di una mela, di un arancio, a volte della vita, ci si stanca. Dei tuoi piedi – tu li hai piccoli, battono il pavimento nella collera – non ne ho mai abbastanza. Ho mangiato la mia mela, bevuto dall’arancio, la vita passa, quando tornerai tu, coi tuoi piccoli piedi?” (TdA).