Legalità è parola tra le più abusate.
Si parla di legalità non sempre a proposito e non sempre in buona fede.
Spesso legalità suona come uno slogan, se non come un espediente retorico usato per legittimare provvedimenti che di legale hanno ben poco.
Non è il caso del libro di Gianni Bianco e Giuseppe Gatti.
Un libro bello e utile, da consigliare caldamente a chi sulla legalità ha idee poco chiare o, soprattutto, il delicato compito di trasmetterne il senso alle giovani generazioni.
Il giornalista Bianco e il magistrato Gatti non parlano infatti di legalità in modo astratto.
O meglio, lasciano che il significato emerga da storie di persone e di associazioni per le quali legalità, dignità e libertà hanno rappresentato i tre volti di una medesima aspirazione di giustizia.
Molte di queste storie le conoscevo. Alcune, addirittura, hanno attraversato la mia vita e quella dei tanti amici coi quali, quasi vent’anni fa, abbiamo avviato il progetto di Libera.
Sono perciò profondamente grato a Gianni e a Giuseppe per averle raccontate e averci riflettuto con profondità e delicatezza, ritenendole a loro modo storie esemplari, dimostrazioni di come sia possibile, unendo le forze e saldando la legalità all’impegno personale, vincere la paura e la rassegnazione.
Lascio dunque al lettore il piacere – e l’emozione – di ascoltare vicende come quella della Calcestruzzi Ericina o delle associazioni che si sono ribellate al racket delle cosche, per citarne solo due tra le tante.
Vicende a cui un’informazione distratta, assuefatta a inseguire solo il fatto clamoroso o terribile, assegna di rado il rilievo che meritano.
Nel mio piccolo mi limito a sottolineare la ricchezza dei contenuti di queste pagine, costruite tra l’altro in maniera originale: le storie sono intervallate da brevi dialoghi tra il giornalista e il magistrato, nei quali si scava sul senso profondo della storia stessa, cercando di fare emergere l’insegnamento etico e sociale che racchiude. Il primo punto che vorrei sottolineare è che la legalità – per essere uno strumento di giustizia e non solo di potere – presuppone relazioni fondate sulla prossimità, ossia su qualcosa che non si può apprendere “per legge”.
La legge certo mira a impedire la violenza, la frode, lo sfruttamento. Non può però insegnare la prossimità, l’accoglienza e – per usare la più impegnativa delle parole – l’amore.
Qui entra in gioco qualcosa che abita la profondità e il mistero dell’animo umano, ben oltre le logiche del divieto e della prescrizione: l’atto del riconoscimento.
Riconoscere non vuol dire semplicemente constatare che gli altri esistono attorno a noi, ma scoprire che esistono dentro di noi, cioè scoprire che la nostra identità è il risultato (sempre parziale) di una relazione e di un incontro.
Senza gli altri non potremmo esistere. E se questo è vero dal punto di vista biologico – neonati, non potremmo sopravvivere senza qualcuno che si prenda cura di noi –, non smette di esserlo anche da quello spirituale.
L’autonomia dal bisogno non estingue infatti il desiderio degli altri, il sentimento che la nostra individualità, proprio perché diversa, solo negli altri può trovare un completamento.
Quando Bianco e Gatti parlano della “relazione d’incontro” come della base della legalità (o – in un altro bel passaggio – dell’uomo come di una “creatura relazionale”), alludono in fondo a questo desiderio di riconoscimento che non smette mai di animarci.
E al fatto che per imparare il senso delle leggi bisogna avere imparato prima il linguaggio dei rapporti umani, avere imparato attraverso la cura, l’ascolto, l’empatia, che l’io è in funzione della vita e non la vita in funzione dell’io.
Il secondo punto è quello della responsabilità.
Il riconoscimento produce la consapevolezza che le nostre azioni hanno sempre un effetto sulla vita degli altri.
Non sono mai azioni neutrali: possono contribuire a dare la vita, ad arricchirla, così come possono concorrere a rapinarla e distruggerla.
È questo a rendere cruciale l’uso che facciamo della nostra libertà.
La libertà è certo insita nel profondo dell’esistenza umana, nel suo carattere aperto e nella sua naturale predisposizione all’Infinito, ma al tempo stesso è un bene che acquista valore solo se viene indirizzato a uno scopo che supera i limiti dell’esistenza da cui trae origine.
Si è davvero liberi con gli altri e per gli altri.
I giovani – che sono animati da grandi sogni, grandi speranze – “sentono” il carattere relazionale e trascendentale della libertà.
Sentono che solo usando la propria libertà per ideali che oltrepassano le pulsioni e i desideri individuali la loro vita può acquistare senso e intensità.
Per questo non basta impartire delle regole.
È la responsabilità – cioè la coscienza del nostro essere in relazione – a darci la capacità di distinguere e, dunque, di scegliere.
Un’educazione alla legalità che non sia, prima di tutto, un’educazione alla responsabilità, difficilmente saprà infondere in un giovane l’amore per l’impegno e il desiderio di conoscenza, desiderio di iscrivere la propria vita dentro un cammino di giustizia e di libertà collettive.
E qui vengo all’ultimo punto, quello che mi sta particolarmente a cuore e che dà il titolo al libro: la “legalità del noi”.
Dove il terreno del riconoscimento e della responsabilità è stato coltivato a regola d’arte, con tenacia e profondità, fiorisce la “legalità del noi”, ossia il più efficace antidoto alle ingiustizie e alle mafie.
Le mafie infatti non esisterebbero (o, per sconfiggerle, basterebbe l’attività dei magistrati e delle forze di polizia) se non ci fossero quelle zone grigie nelle quali possono affondare indisturbate le loro grinfie.
E non mi riferisco solo ai complici diretti dei loro crimini – consulenti, prestanome, “amici degli amici”… Ma, più generalmente, alle forme di corruzione, d’illegalità diffusa, d’individualismo insofferente delle regole che, pur non rientrando nella fattispecie dei reati mafiosi, ne costituiscono l’“habitat” ideale, lo spazio in cui le mafie allargano il loro già immenso potere.
Non è un paradosso allora dire che la forza delle mafie sta soprattutto fuori dalle mafie.
Sta in una società frantumata e diseguale, dove l’interesse privato viene perseguito in opposizione e spesso a danno di quello pubblico.
Sta in una politica debole, incapace di garantire quei diritti universali – il lavoro, la scuola, la casa, l’assistenza sanitaria – senza i quali una democrazia scivola verso forme di oligarchia e plutocrazia, dove sono il potere e il denaro di pochi a decidere della libertà e della dignità di tutti.
In queste pagine si racconta con grande forza come sia stato il “noi”, in certi territori, a fermare un sopruso che si faceva forte della solitudine e dell’isolamento delle sue vittime.
E al tempo stesso si sottolinea come il “noi” non chiami in causa solo le “categorie” vessate dalla violenza mafiosa, ma tutti gli ambiti della vita sociale – istituzioni e chiese, imprenditoria e scuola, sindacati e informazione – perché solo un noi corale potrà sconfiggere, oltre alle organizzazioni criminali, la mentalità che le ha prodotte.
Come costruirlo? Basterebbe mettere in pratica il disegno etico, politico e istituzionale della nostra Costituzione, il più formidabile dei testi antimafia.
Pagine dove la legalità, lungi dall’essere declinata in modo astratto, si fonda sulla corresponsabilità delle istituzioni e dei cittadini nella tutela del bene comune della democrazia.
E dove il “noi” non è mai inteso come mera somma d’individui, ma come insieme delle loro relazioni, tessuto sociale a partire dal quale ciascuno di noi può trovare e realizzare a fondo la sua dignità e libertà di essere umano.