1. È legge. Con l’atto di promulgazione del Presidente della Repubblica e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, dopo la conversione avvenuta il 17 dicembre del decreto legge 26 ottobre 2019 n. 124, è prossima l’entrata in vigore della riforma dei reati tributari, al centro negli ultimi mesi di un acceso dibattito politico, economico e giuridico.
La tensione sottesa ai temi che ne sono a fondamento ha avuto un inedito risvolto normativo proprio con il decreto legge che l’ha introdotta: una riforma, stando al disposto del comma 3 dell’art. 39, destinata ad avere efficacia “dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione”. Il che ha generato una torsione nella logica normativa del decreto legge, per sua natura destinato a produrre effetti anticipatori rispetto all’ordinario procedimento di produzione legislativa.
La riforma ha comunque passato il vaglio del Parlamento, sia pure con modifiche rispetto alla versione del decreto legge, funzionali ad ammorbidire un trattamento sanzionatorio recepito altrimenti come eccessivamente gravoso.
Si è in presenza dell’ultimo di una lunga serie di rimaneggiamenti che, come hanno osservato a caldo molti commentatori, utilizza la leva penale in ambito tributario come un pendolo, talvolta per restringerne, altre volte per allargarne la portata.
La riforma partecipa in qualche modo delle oscillazioni che hanno contraddistinto la storia del diritto penale tributario, questa volta in chiave di irrigidimento, per effetto dell’irrobustirsi del trattamento sanzionatorio. Anche se occorre segnalare, in senso contrario, la ricomprensione nel riformato articolo 13, al comma 2, delle disposizioni di cui agli articoli 2 e 3, accanto agli articoli 4 e 5, rispetto alla ipotesi di non punibilità del reato per estinzione del debito tributario, quando il pagamento preceda la formale conoscenza da parte del contribuente di attività di accertamento amministrativo o della pendenza del procedimento penale.
Allo stesso tempo – e questa potrebbe apparire la nota più rilevante – la nuova normativa sfata il mito che voleva relegare il diritto penale tributario fuori dall’ambito di applicazione del sistema 231, a quasi venti anni di distanza dalla entrata in vigore della disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti (pressoché coeva al decreto 74), con alle spalle una storia di progressivo allargamento del novero dei reati presupposto, da cui i reati tributari erano sempre rimasti estranei.
Il quadro normativo non si esaurisce qui, giocando un ruolo rilevante l’introduzione della cd. confisca allargata di cui all’art. 240 bis cp, con una modulazione che sembra rafforzarne la natura spiccatamente sanzionatoria.
2. L’irrigidimento del trattamento sanzionatorio si muove su due piani. Quello delle pene, aumentate nei limiti minimo e massimo, e quello delle soglie di rilevanza quantitativa. Si tratta, rispetto ad entrambi i profili, di elementi normativi della fattispecie, che concorrono a definirne la tipicità e che pertanto, ove introducano modifiche di sfavore, partecipano del principio di successione di leggi penali nel tempo, applicandosi quindi solo per il futuro.
Appare utile riepilogare per le singole fattispecie incriminatrici i limiti edittali e, ove presenti, le nuove soglie:
- Art. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti). La disposizione si compone di tre commi. Resta invariato il comma 2 che definisce la condotta di “avvalersi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, mentre subisce una modifica il comma 1 e viene inserito, dopo il comma 2, il comma 2 bis. Il comma 1 porta la previsione sanzionatoria da quattro a otto anni (la disposizione previgente prevedeva una pena da un anno e sei mesi a sei anni). Il comma 2 bis introduce come titolo autonomo di reato una previsione attenuata qualora gli elementi passivi fittizi siano inferiori ad € 100 mila: in questo caso la pena resta compresa tra un anno e sei mesi e sei anni di reclusione;
- Art. 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici). Anche in questo caso sono innalzati i limiti di pena, portati da tre ad otto anni, laddove nella versione previgente erano compresi da un anno e sei mesi a sei anni di reclusione;
- Art. 4 (dichiarazione infedele). I limiti di pena sono stati innalzati, con la previsione della reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi (le sanzioni previgenti andavano da uno a tre anni). Non sono stati toccati in sede di conversione i limiti soglia legati alla imposta evasa e all’ammontare degli elementi sottratti a tassazione, sebbene la versione originaria del decreto legge avesse inciso anche su questi elementi. È stato invece inserito nel comma 1 ter l’avverbio “complessivamente”, in luogo di “singolarmente”, con riferimento alla determinazione della variazione percentuale, quando vi sia uno scostamento rispetto alla valutazione corretta di una posta rilevante ai fini della determinazione dell’imponibile;
- Art. 5 (omessa dichiarazione). Per entrambe le ipotesi delittuose – omessa dichiarazione a fini di imposte dirette ed Iva e omessa dichiarazione del sostituto di imposta – le soglie di pena sono portate da due a cinque anni, laddove la previsione previgente prevedeva una pena da un anno e sei mesi a quattro anni. Immutata è rimasta la soglia quantitativa dell’imposta evasa, determinata nella misura di € 50 mila;
- Art. 8 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti). Il profilo sanzionatorio è costruito in maniera simmetrica a quanto previsto dall’art. 2. La pena va da quattro ad otto anni, mentre è introdotto dopo il comma 2 il comma 2 bis, che riporta la pena ai valori previgenti (da un anno e sei mesi a sei anni) qualora l’importo indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo di imposta, sia inferiore ad € 100 mila;
- Art. 10 (occultamento o distruzione di documenti contabili). La pena è portata da tre a sette anni di reclusione.
Non vi sono state ulteriori variazioni sul piano sanzionatorio. Le soglie quantitative, che pure erano state abbassate per gli articoli 10 bis e 10 ter in sede di approvazione del decreto legge, con la legge di conversione sono state riportate ai livelli introdotti dalla riforma del 2015 (€ 150 mila per l’omesso versamento di ritenute certificate ed € 250 mila per l’omesso versamento dell’Iva).
Devono registrarsi alcuni effetti sul piano processuale e sostanziale.
L’innalzamento della pena a cinque anni per il delitto di cui all’art. 5 consente l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere (art. 280 comma 2 cpp). Non anche le intercettazioni, possibili ai sensi dell’art. 266 cpp, al di fuori dei reati ivi specificamente indicati, solo per le violazioni punite con pena superiore nel massimo a cinque anni.
Si complica per i reati con pene più elevate il meccanismo del patteggiamento, la cui ammissibilità è peraltro già ora subordinata alla integrale estinzione del debito tributario, ai sensi dell’art. 13 bis comma 2: va da sé che un innalzamento della pena, soprattutto nei minimi, espone il reo ad un trattamento sanzionatorio più rigido anche di fronte alla volontà (e possibilità) di rimediare al danno erariale e di “chiudere” i conti con la giustizia penale.
Particolarmente rilevanti gli effetti, sul piano sostanziale, per quanto attiene alla prescrizione. A prescindere dalle vicende, tuttora incerte, della disciplina scaturita dalla cd. legge spazzacorrotti, l’innalzamento del massimo della pena per le violazioni di cui agli articoli 2, 3, 8 e 10 comporta una dilatazione dei termini di prescrizione dei reati. Per essi infatti il termine di prescrizione deve essere calcolato avuto riguardo al combinato disposto degli articoli 157 cp e 17 comma 1 bis d.lgs 74/2000. Se la regola generale impone di guardare al massimo della pena edittale stabilita dalla legge (con un termine non inferiore ai sei anni per i delitti), l’art. 17 comma 1 bis prevede per i reati di cui agli articoli compresi da 2 a 10 che i termini di prescrizione siano elevati di un terzo. Il calcolo è presto fatto: per i reati puniti fino a otto anni il termine di prescrizione sarà di 10 anni e 8 mesi, per i reati puniti sino a sette anni sarà di 9 anni e 4 mesi (fatto salvo, in entrambi i casi, l’aumento per l’interruzione). Nulla cambia, ovviamente, per le violazioni i cui limiti di pena, per quanto innalzati, restano comunque sotto la soglia dei sei anni di reclusione.
3. La legge di conversione ha allargato le maglie della responsabilità amministrativa dell’ente rispetto al decreto legge, che individuava quale unico reato presupposto la violazione di cui all’art. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante annotazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti). Il nuovo art. 25 quinquiesdecies d.lgs 231/2001 inserisce tra i reati presupposto, oltre all’art. 2, gli articoli 3, 8, 10 e 11 con sanzioni variabili tra le quattrocento e le cinquecento quote, una circostanza aggravante (con aumento della sanzione pecuniaria di un terzo) nel caso di conseguimento di un profitto di rilevante entità, la previsione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 comma 2 lett. c), d) ed e) (rispettivamente, divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi).
Si tratta per taluni versi di un percorso obbligato, alla luce della Direttiva 2017/1371/UE, cd. Direttiva Pif, orientata alla salvaguardia degli interessi finanziari dell’Unione Europea, in cui un ruolo rilevante gioca l’Iva quale imposta armonizzata.
La ricomprensione dei reati tributari nel sistema 231 pone delicate questioni applicative.
È destinato prevedibilmente a riaccendersi il tema sui limiti del doppio binario e sugli effetti del ne bis in idem, per come interpretato dalla Corti sovranazionali a partire dalla sentenza Grande Stevens, tenendo conto delle conseguenze sanzionatorie che anche sul piano amministrativo – tributario discendono a carico dell’ente.
Essenziale appare la estinzione del debito tributario. Vi è un reticolo di disposizioni, tanto nel decreto 74/2000 quanto nel decreto 231/2001, che impongono questo percorso per evitare la esposizione a più gravi conseguenze sanzionatorie. Dalla mancata estinzione del debito tributario discende anzitutto la impossibilità di accedere al patteggiamento, giusto il richiamo contenuto nell’art. 63 comma 1 d.lgs 231/2001, che esclude la possibilità del patteggiamento per l’ente ove vi sia una preclusione per l’imputato: e tale preclusione, come noto, discende dalla disposizione di cui all’art. 13 bis comma 2 d.lgs 74/2000. L’ente che non estingue il debito tributario si espone alle sanzioni interdittive previste dall’art. 9, per effetto di quanto previsto dall’art. 17 (riparazione delle conseguenze del reato). Ovviamente devono sussistere i presupposti per l’applicazione delle sanzioni interdittive, ma i riferimenti contenuti nell’art. 13 appaiono sufficientemente lati da consentire un ampio margine di applicazione (si fa infatti riferimento, alternativamente, al conseguimento di un profitto di rilevante entità o alla pluralità di illeciti).
Su un aspetto si è giunti nella giurisprudenza di legittimità ad un punto di equilibrio, che dovrebbe assicurare stabilità al sistema: il profitto del reato negli illeciti tributari corrisponde all’imposta evasa e dunque questa grandezza economica è la base su cui va necessariamente a convergere la confisca (anche per equivalente), come anche il danno da riparare per conseguire i benefici processuali e sostanziali previsti dalla legge. Ed è chiaro – sul punto la giurisprudenza è altrettanto consolidata – che non può darsi luogo a duplicazioni: una volta identificato il profitto del reato, corrispondente alla imposta evasa, la ablazione da parte dello Stato deve avvenire nella misura ad esso corrispondente, non certo tante volte quanti sono gli organi – amministrativi o giudiziari – deputati all’accertamento dell’illecito ed alla irrogazione del trattamento sanzionatorio.
Per il vero uno sforzo ricostruttivo da parte della giurisprudenza di legittimità per inquadrare la responsabilità patrimoniale dell’ente per i reati tributari, anche fuori della cornice del sistema di responsabilità amministrativa, era stato portato avanti nel recente passato. Il riferimento è alla sentenza Gubert (Sezioni Unite n. 10561 del 30 gennaio 2014 – dep. 5 marzo 2014), da cui si sono tratti principi di diritto andati sedimentandosi nella prassi applicativa. Essi fanno perno su quattro enunciati:
- Nei confronti della persona giuridica è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del denaro, di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al reato tributario commesso dagli amministratori, quando tale profitto sia nella disponibilità della persona giuridica stessa.
- Nei confronti della persona giuridica non è consentito il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, qualora non sia stato reperito il profitto del reato tributario, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio.
- Non è consentito il sequestro per equivalente nei confronti degli organi (persone fisiche / amministratori) della persona giuridica per violazioni penali tributarie da costoro commesse, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca del denaro, di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato.
- La impossibilità del sequestro preventivo del profitto del reato può essere anche transitoria, senza che sia necessaria (ai fini della applicazione del sequestro per equivalente) la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del reato.
È un decalogo per le autorità procedenti, in particolare per chi svolge la funzione di Pubblico Ministero, rispetto alle modalità di aggressione dei patrimoni illeciti in presenza di violazioni tributarie. Un decalogo non necessariamente destinato ad essere superato nella prassi, pur in presenza di presupposti normativi che consentiranno per il futuro un più ampio margine di manovra.
La nuova disciplina sconta invece un limite evidente: la mancata ricomprensione tra i reati presupposto dell’art. 5 d.lgs 74/2000. L’esperienza di questi anni insegna come evasioni di ammontare elevatissimo siano commesse da enti esterovestiti o muniti di stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Si tratta di soggetti apparentemente non localizzati nel territorio dello Stato, che quindi non assolvono gli obblighi dichiarativi. Se un senso ha la disciplina sulla responsabilità amministrativa, l’obiettivo primario deve essere quello di colpire strutture reali, articolate e munite di ampie disponibilità finanziarie, capaci allo stesso tempo di sfuggire alle maglie del fisco. La previsione dell’art. 8 d.lgs 231/2001 sulla autonomia della responsabilità dell’ente, anche quando non sia identificato l’autore del reato presupposto, costituisce una leva importante per il contrasto a questi enti quando la complessità della struttura organizzativa interna impedisce di individuare la persona fisica autore del reato. Ecco, questo obiettivo – con la esclusione dell’art. 5 dal novero dei reati presupposto – è mancato e ciò costituisce un vulnus alla coerenza del sistema, rivelando un deficit di comprensione di alcuni dei più gravi fenomeni di evasione fiscale che avrebbero imposto una più severa risposta sanzionatoria.
4. Viene introdotto nel decreto 74/2000 l’art. 12 ter rubricato “Casi particolari di confisca”. Si tratta della estensione della disciplina sulla confisca “allargata”, prevista dall’art. 240 bis cp, ad una serie di violazioni tributarie. La legge di conversione ha ristretto l’ambito applicativo della norma, riferibile nella versione originaria del decreto legge ad un numero più ampio di reati, alle violazioni di cui agli articoli 2, 3, 8 e 11, sempre che siano superate determinate soglie quantitative rispetto al volume dell’imposta evasa e dei suoi accessori (interessi e sanzioni).
Il presupposto, come noto, è legato alla sproporzione del denaro, beni od altre utilità da parte di chi sia condannato per uno dei delitti ricompresi nel novero della norma, dei quali non sia in grado di giustificare la legittima provenienza.
L’inserimento di questa disciplina tra gli strumenti di contrasto ai reati tributari costituisce una leva dagli effetti certamente rilevanti. I reati tributari generano ricchezza illecita e il recupero di questa ricchezza rappresenta sempre più una delle finalità perseguite dal legislatore. Solo in questa prospettiva si leggono l’obbligo della confisca, anche per equivalente, del profitto del reato (prevista sin dal 2008), le limitazioni processuali al patteggiamento e al riconoscimento della sospensione condizionale della pena ove non sia estinto il debito tributario, ed ora con l’introduzione dell’art. 12 ter la possibilità di ricorrere alla confisca allargata.
È uno strumento che – per espressa previsione di legge – può avere ad oggetto “denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. È irrilevante, come è ovvio che sia, la formale intestazione del bene, dovendosi avere riguardo ad una riferibilità soggettiva sostanziale. La stessa legge prevede poi, ben prima della estensione avvenuta con questa riforma, che “il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, salvo che l’obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge”. L’evasione fiscale è un disvalore in sé, non può costituire la base della giustificazione di disponibilità economiche sproporzionate rispetto al reddito apparente.
Appare utile, in questa sede, il richiamo ad una recente ed importante sentenza della Corte Costituzionale – la nr. 33 del 2018 – che, nel riaffermare la validità di questo tipo di sequestro anche alla luce della normativa e della giurisprudenza sovranazionale, ha fissato alcuni rilevanti vincoli interpretativi. Si tratta, in particolare, di circoscrivere la portata applicativa della legge. In sintesi, questi i principi direttivi cui, anche rispetto ai reati tributari, ci si dovrà attenere:
- Non è necessario un nesso di pertinenza o di provata derivazione causale tra il reato ed i beni oggetto di confisca (di sequestro, nella fase delle indagini), così come non è necessario ai fini di una valida ablazione che i beni siano stati acquisiti in epoca posteriore al commesso reato.
- La presunzione di origine illecita dei beni del condannato insorge non per effetto della mera condanna, ma unicamente ove si appuri – con onere probatorio a carico della pubblica accusa – la sproporzione tra detti beni e il reddito dichiarato o le attività economiche del condannato stesso: sproporzione che – secondo i correnti indirizzi giurisprudenziali – non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e significativo, da verificare con riferimento al momento dell’acquisizione dei singoli beni.
- La presunzione è solo relativa, rimanendo confutabile dal condannato tramite la giustificazione della provenienza dei cespiti. Per giurisprudenza costante – almeno a partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 920 del 2004 – non si tratta neppure di una vera e propria inversione dell’onere della prova, ma di un semplice onere di allegazione di elementi che rendano credibile la provenienza lecita dei beni.
- La presunzione di illegittima acquisizione dei beni oggetto della misura resta circoscritta, comunque, in un ambito di cosiddetta “ragionevolezza temporale”. Il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare, cioè, talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna.
Non rileva qui la questione sulla natura di questa misura ablatoria, dalla dottrina maggioritaria inquadrata tra le misure di sicurezza a contenuto patrimoniale. Certo è che il riferimento contenuto nel comma 1 bis della legge di conversione, in cui si specifica che “le disposizioni di cui alla lettera q (quelle sulla confisca allargata, ndr.) del comma 1 del presente articolo si applicano solo alle condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” sembra indicare che questa misura può trovare applicazione solo rispetto ai fatti di reato commessi in epoca successiva alla entrata in vigore della norma. Se ne dovrebbe da ciò inferire un carattere spiccatamente sanzionatorio.
Va detto, peraltro, che la confisca allargata si innesta in un sistema in cui – anche se fuori dalla cornice del decreto 74/2000 – è possibile anche rispetto ai reati tributari il ricorso alle misura di prevenzione patrimoniale, secondo la disciplina delineata dal d.lgs 159/2011, con le limitazioni applicative derivanti dalla Corte Costituzionale e dalle Corti sovranazionali che, anche di recente sono intervenute in questa materia (in particolare, sentenza Cedu De Tommaso c. Italia e Corte Costituzionale nr. 24 del 24.1.2019).
Si va così delineando un sistema al centro del quale l’aggravamento del trattamento sanzionatorio si muove su due piani: quello personale, con l’incremento dei limiti di pena e, ancor di più, quello patrimoniale, con la previsione di un ventaglio di misure sempre più ramificato ed incisivo