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giustizia internazionale

La vicenda dei marò italiani in India

Non sembrano rinvenirsi nel diritto internazionale convenzionale, in tema di pirateria, solide argomentazioni per vincere la partita innanzi alla Corte Suprema Indiana
La vicenda dei marò italiani in India

I fatti

Dal 19.2.12 due fanti di marina (marò) del Battaglione San Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, già imbarcati sul mercantile battente bandiera italiana Enrica Lexie in funzione anti-pirateria, sono (attualmente) liberi su cauzione in India, in attesa del processo a loro carico che verrà celebrato da un tribunale creato ad hoc per decisione della Corte Suprema indiana.

I militari sono accusati dell’omicidio, avvenuto il 15.2.12, di due pescatori indiani (Ajesk Binki e Selestian Valentine) imbarcati su di un peschereccio avvicinatosi alla Enrica Lexie e scambiato per nave pirata e per questo fatto segno di diversi colpi d’arma da fuoco.

Dopo l’incidente, la Enrica Lexie si era diretta verso il porto di Kochi, nello Stato del Kerala, su richiesta espressa delle autorità indiane e secondo le disposizioni impartite dall’armatore al comandante. Una volta a terra, le indagini demandate ad una squadra investigativa speciale (Special Investigation Team) e sostanzialmente consistenti nell’espletamento di una perizia balistica, avrebbero stabilito che sono state le armi dei fucilieri a sparare ed a provocare la morte dei pescatori.

Il dossier d’accusa contiene anche la localizzazione del luogo dell’incidente: secondo gli inquirenti, l’incidente sarebbe avvenuto a 20,5 miglia al largo delle coste indiane, entro il limite di 22 miglia fissato dall’India per l’estensione delle proprie acque territoriali.

Il Tribunale di Kollam, competente per territorio, ha disposto la custodia preventiva per i due militari nella guest house di uno speciale corpo di polizia.

Successivamente il Governo italiano ha convenuto con i familiari delle vittime la corresponsione di in via stragiudiziale della somma di 146.000,00 Euro, ma la Corte Suprema dello Stato del Kerala ha stigmatizzato l’accordo, arrivandone a bloccare il versamento.

Il giorno 23.4.12 ha segnato un punto a favore delle tesi italiane.

La Corte Suprema dell’Unione Indiana di New Delhi ha accolto il ricorso presentato dall’Italia per l’incostituzionalità della detenzione dei marò, chiedendo al governo federale ed a quello statale del Kerala di presentare una memoria. Il ricorso alla Corte Suprema era stato una delle prime mosse del Governo italiano sul caso dei fucilieri, sottolineandosi con esso l’incostituzionalità della custodia cautelare in carcere per violazione del principio dell’immunità sovrana e degli articoli 14 e 21 della Costituzione indiana. La Corte Suprema ha così riconosciuto come valide le argomentazioni del legale dei marò che ha evidenziato l’incompetenza dello Stato del Kerala a giudicare una disputa tra due Stati sovrani, riguardante per di più due militari.

Il resto è cronaca, recente e anche recentissima. Nel mese di dicembre dell’anno scorso, i marò hanno ottenuto un permesso per trascorre le festività natalizie in patria, accolti con tutti gli onori dalle autorità civili e militari italiane; tenendo fede all’impegno preso con le autorità indiane, hanno però fatto ritorno in India in attesa del processo. I familiari delle vittime hanno accettato la somma corrisposta dal Governo italiano ex gratia (come dichiarato dal Ministro degli Esteri, Terzi), precisando che il ritiro delle denunzie vale solo agli effetti civili, senza interferenza alcuna con il processo penale in corso. La Corte Suprema indiana ha poi accordato ai militari italiani un nuovo permesso per rientrare in patria ed esercitare il diritto di voto nella trascorsa tornata elettorale; intanto i due avevano da tempo lasciato Fort Kochi in Kerala, trasferendosi a New Dehli sotto la tutela dell’ambasciata italiana. In queste ore, la Farnesina ha comunicato che i militari italiani non sarebbero tornati in India, scaduto il permesso "elettorale", scatenando le vibranti proteste del governo indiano, che ha convocato l'ambasciatore italiano a New Delhi.

Il diritto

L’imputazione formulata dall’autorità giudiziaria dello Stato del Kerala contempla quattro titoli di reato per cui i due marò debbono essere processati ai sensi del codice penale indiano: art. 302, omicidio; art. 307, tentato omicidio; art. 427, azioni che hanno comportato danni; art. 34, associazione a delinquere. Il Governo italiano ha, invece, fin da subito puntato le sue carte sulla tesi dell’immunità, derivante dallo status di militari di uno Stato sovrano proprio dei due imputati, qualificando espressamente la loro condotta come modalità di esercizio di una delle prerogative tipiche degli Stati sovrani quale l’impiego della forza per contrastare e/o reprimere la commissione di un reato.

La Corte Suprema indiana sembra avere accolto l’impostazione difensiva, ma il pragmatismo è tipico dei sistemi giudiziari d’impronta anglosassone come quello indiano e l’esito definitivo del processo non pare affatto scontato.

Quel che è noto è che la difesa dei marò ha già eccepito il difetto di giurisdizione delle corti indiane, verosimilmente anche per avere essi agito in acque internazionali (la pretesa indiana di estensione delle proprie acque territoriali per una fascia di 22 miglia non trova, infatti, fondamento nella Convenzione ONU sul Diritto del Mare di Montego Bay del 1982 che stabilisce che ogni Stato è libero di stabilire l'ampiezza delle proprie acque territoriali, fino ad una ampiezza massima di 12 miglia marine, misurate a partire dalla cd. linea di base, art. 3) e sostenuto la tesi della competenza del giudice nazionale per avere i militari operato a bordo di nave mercantile battente bandiera italiana, considerata a tutti gli effetti territorio nazionale dall’art. 4 co.2 del nostro codice penale, ove non soggetta, in base al diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera.

Non è noto, invece, se sia stata sostenuta la tesi che la condotta dei marò doveva ritenersi legittima, avendo essi erroneamente ma scusabilmente ritenuto di compiere un atto di repressione della pira-teria, come tale autorizzato dal diritto internazionale convenzionale.

La presenza di militari a bordo di navi mercantili italiane in funzione di contrasto alla pirateria è dovuta, infatti, al D.L. n.107/11 convertito con modificazioni nella legge n. 130/11 in tema di finanziamento delle missioni internazionali militari all’estero. Ai sensi dell’art. 5 di tale previsione normativa è prevista la possibilità di imbarcare sulle navi mercantili italiane, previa intesa con l’armatore ed a sue spese, i cd. NMP - Nuclei Militari di Protezione della Marina, abilitati ad avvalersi anche di personale delle altre Forze Armate, provvisti del relativo armamento personale. Al comandante di ciascun nucleo e al personale da lui dipendente sono rispettivamente attribuite le funzioni di ufficiale e di agenti di polizia giudiziaria riguardo ai reati di cui agli articoli 1135 e 1136 del codice della navigazione (pirateria) e a quelli a questi connessi ai sensi dell’art. 12 del codice di procedura penale.

Nel caso, invece, non siano previsti i NMP, è contemplata la possibilità di istituire servizi di vigilanza privata, mediante l’impiego di particolari guardie giurate armate, a protezione delle merci e dei valori sulle navi mercantili e sulle navi da pesca battenti bandiera italiana negli spazi marittimi internazionali a rischio di pirateria.

Dall’insieme dei rinvii che il testo normativo fa ad altre disposizioni speciali (art. 5 commi da 2 a 6 del D.L. n. 209/08 convertito nella legge n. 12/09 e successive modifiche in riferimento alle navi e alle aree in cui si svolgono i servizi di cui ai commi 1 e 4), si coglie il chiaro intento del legislatore di voler affidare il contrasto della pirateria (anche) ai citati nuclei di militari imbarcati sulle navi mercantili, limitando invece alla mera difesa delle navi e del relativo carico le facoltà riconosciute alle guardie giurate.

Il tenore delle norme ora indicate comporta, però, l’insorgere di un problema giuridico di non poca rilevanza. L’attribuzione ai militari componenti degli NMP della qualifica di agenti o ufficiali di polizia giudiziaria, come tali abilitati a perseguire in alto mare i reati di pirateria previsti dal nostro codice della navigazione si pone in chiaro contrasto con la normativa internazionale convenzionale vigente.

Secondo, infatti, la citata Convenzione di Montego Bay del 1982 attualmente in vigore, sono abilitati a catturare le navi pirata soltanto navi o aeromobili da guerra o altre navi o aerei chiaramente contrassegnati e identificabili come appartenenti ad un servizio governativo o autorizzati a tale scopo (art. 107 Conv., Ships and aircraft which are entitled to seize on account of piracy). In maniera simmetrica, il cd. diritto di visita, quello cioè d’ispezionare un natante sospetto di pirateria è attribuito, nei casi considerati, alle navi da guerra (par. 1) agli aerei militari (par. 4) ed a quelle navi e a quegli aerei chiaramente contrassegnati e identificabili come appartenenti ad un servizio governativo (par. 5) (art. 110 Conv., Right of visit).

Ciò evidentemente non può dirsi di navi mercantili normalmente viaggianti per scopi e finalità commerciali, ancorché aventi a bordo personale militare inquadrato nei citati nuclei di protezione ed il contrasto latente è emerso in maniera invece palese, quando - come ricordato - il comandante della Enrica Lexie si è diretto nel porto di Kochi, aderendo alle sollecitazioni dell’armatore e delle autorità indiane, ma disattendendo le pressioni di segno contrario dell’autorità militare italiana.

Quanto esposto implica che non sembrano rinvenirsi nel diritto internazionale convenzionale in tema di pirateria solide argomentazioni per vincere la partita davanti alla Corte Suprema indiana, residuando al più la tesi, invero debole, che il contrasto del fenomeno affidato ai citati NMP non prevede né la cattura di navi pirata né il diritto di visita.

La tesi dell’immunità sovrana ha, invece, una valenza soprattutto politica e molto influiranno sulla decisione dei giudici indiani variabili di segno diverso, al momento difficilmente apprezzabili, come la vicenda del procedimento per corruzione internazionale a favore di funzionari indiani dei vertici di Finmeccanica dimostra.

Resta netta l’impressione, da un lato della scarsissima ponderazione da parte del recente legislatore per le implicazioni normative, interne ed internazionali, di testi legislativi adottati quasi sempre sull’onda dell’emergenza e dall’altro - ma è una costante che ricorre in casi analoghi - che le ragioni della politica e quelle del diritto risultano difficilmente coincidenti.

13/03/2013
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