1. – La regola del voto palese dei componenti del Consiglio superiore della magistratura, nelle sedute sia di plenum che di commissione, si è affermata di pari passo con il consolidarsi dell’autorevolezza del Consiglio stesso come organo di rilevanza costituzionale posto a presidio dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. Alla regola della segretezza del voto, prevista inizialmente dal regolamento interno del 1960, subentrò già nel 1976 quella della pubblicità, ammettendosi lo scrutinio segreto, su richiesta di due componenti in commissione o tre in plenum, soltanto per le votazioni riguardanti persone; nel 1988 venne altresì esclusa la possibilità del voto segreto per le delibere riguardanti il conferimento degli incarichi direttivi. Per quanto, poi, l’obbligo dello scrutinio segreto scatti su semplice richiesta di una minoranza (tale rimasta anche dopo che il numero minimo dei richiedenti in plenum è stato portato a sei), nella prassi raramente si è fatto ricorso a tale modalità, mentre soltanto nel 1997 si è stabilito che, ove alla richiesta di voto segreto in plenum si oppongano almeno tre componenti, decide il Consiglio.
Tale assetto normativo è rimasto in vigore sino ad oggi[1], nonostante non siano mancate proposte di modifica con l’ampliamento delle ipotesi di scrutinio segreto. Anche in questi giorni se ne parla ufficialmente presso lo stesso CSM, nell’ambito di una più vasta discussione sull’“autoriforma”del Consiglio mediante modifiche del regolamento interno[2].
2. – La segretezza o la pubblicità incidono sulla libertà e responsabilità del voto, l’una privilegiando la libertà, l’altra la responsabilità.
Il voto palese assicura una maggiore trasparenza e controllabilità dell’operato dei componenti degli organi collegiali, esigenze di primario rilievo per organi investiti di funzioni pubbliche e tanto più rilevanti allorché si tratti di organi rappresentativi dotati di discrezionalità politica o amministrativa. La elettività implica il rapporto con il corpo elettorale e la discrezionalità rafforza la responsabilità (politica e morale, se non giuridica) dell’eletto nei confronti degli elettori, che ha come ovvio presupposto la conoscenza del contenuto degli atti compiuti dal primo.
La segretezza del voto, per converso, esalta l’autonomia del singolo componente del collegio e ne indebolisce i legami di appartenenza o di provenienza; il che rende più problematica la sua giustificazione con riguardo alle assemblee rappresentative investite di discrezionalità politica o amministrativa. E infatti i regolamenti parlamentari, per esempio, consentono ormai lo scrutinio segreto soltanto in casi eccezionali, in particolare per le votazioni riguardanti persone[3] o determinate materie (artt. 49 e 51, comma 1, reg. Camera; art. 113 reg. Senato), e la pubblicità è la regola del voto nelle assemblee rappresentative substatali.
Per i componenti del Consiglio superiore della magistratura la libertà del voto[4] non è certo esigenza avvertita più che per i componenti delle assemblee parlamentari, essendo tutelata anche dalla regola della non immediata rieleggibilità (art. 104, comma sesto, Cost.), che depotenzia eventuali condizionamenti da parte dei gruppi di appartenenza, come del resto largamente dimostrano le cronache consiliari.
3. – In effetti, il principale argomento comunemente portato a sostegno della segretezza del voto dei componenti del Consiglio superiore della magistratura non è giuridico[5], ma politico: va spezzato – si sostiene – o comunque allentato il legame dei singoli componenti con i gruppi consiliari di appartenenza e le formazioni politiche (quanto ai componenti laici) o associative (quanto ai componenti togati) di riferimento. Inutile aggiungere che l’attenzione dei critici del voto palese si appunta poi soprattutto sul legame dei componenti togati con le correnti dell’associazionismo giudiziario, sul presupposto del disvalore delle stesse ora perché “politicizzate”, ora perché degenerate in puri e semplici centri di potere corporativo, dimentichi dell’interesse generale che presiede alla funzione di amministrazione della giurisdizione.
Questo, in definitiva, è il cuore del problema, che merita perciò risposte non elusive.
La politicizzazione delle correnti, se intesa come collateralismo con le forze politiche, è storicamente infondata e comunque non attuale con riguardo ai gruppi associativi in quanto tali; se intesa come articolazione dell’associazionismo giudiziario secondo differenti visioni dei problemi della giurisdizione, quali risultanti dal loro inquadramento in più ampie concezioni dell’interesse generale, allora, lungi dall’essere contrastata, essa va piuttosto incoraggiata, perché l’orientamento all’interesse generale, variamente interpretato secondo i principi della democrazia politica, è precisamente l’antidoto al corporativismo e all’autoreferenzialità, veri guasti di un’azione associativa ispirata a concezioni di stampo puramente e angustamente sindacale.
Quanto invece alle degenerazioni del costume dei gruppi associativi dei magistrati, la questione è più complessa, perché non è priva di fondamento nella realtà.
Fenomeni gravi di immiserimento delle prassi, ridotte a pura e semplice gestione del potere, si registrano invero sia nell’associazionismo giudiziario, sia in quello sindacale, sia – più intensamente – nei partiti politici. Ma come il rimedio alle degenerazioni di questi ultimi non potrebbe essere costituito dal voto segreto dei parlamentari (che infatti nessuno propone), così il voto segreto dei componenti del Consiglio superiore della magistratura non contribuirebbe in nulla al superamento del malcostume correntizio; anzi lo aggraverebbe grazie all’affrancamento anche dall’onere di esibire una qualche coerenza tra enunciazioni di principio e voti.
Lo scioglimento degli eletti dal legame con i gruppi di appartenenza, inoltre, priverebbe la loro legittimazione elettiva di qualsiasi riferimento ideale e culturale, affidandola al mero dato personalistico, di notabilato locale o professionale, secondo una logica che porta dritto alla formazione di gruppi di potere ancor più insidiosi perche sotterranei e privi di trasparenza.
La verità è che non esistono riposte semplici per questioni complesse. Il contrasto dei fenomeni degenerativi dell’associazionismo giudiziario non può risolversi in un tratto di penna, ma richiede, da parte dei magistrati, una costante opera di vigilanza e di critica non demagogica, nonché senso della misura nelle ambizioni professionali, e, da parte dei gruppi associativi, la consapevolezza che alla fine della strada imboccata non c’è un luminoso avvenire, bensì il baratro.
Ma questo è un altro discorso.
[1] L’attuale testo dell’art. 25, comma 4, del regolamento interno recita: «Si dà luogo a votazione per scrutinio segreto soltanto per questioni concernenti persone, ad esclusione del conferimento di incarichi direttivi, a richiesta, in Commissione, di due componenti, o, in Consiglio, di sei componenti. In tal caso si procede scrivendo sulla scheda “SI” o “NO” alla proposta messa in votazione, ovvero, nelle votazioni per ballottaggio, indicando sulla scheda la proposta votata. Nelle sedute del Consiglio, la richiesta di votazione a scrutinio segreto deve essere presentata prima delle dichiarazioni di voto. Se alla richiesta di votazione per scrutinio segreto si oppongono almeno tre componenti, decide il Consiglio.»
[2] Nell’ordine del giorno della seduta del 1° giugno 2015 può leggersi la delibera della Seconda Commissione recante l’individuazione dei temi da porre in discussione.
[3] Peraltro, prevalendo in entrambe le camere l’orientamento secondo cui occorre una stretta e immediata riferibilità della delibera alla persona (cfr. in proposito CURRERI-FUSARO, Voto palese, voto segreto e forme di governo in trasformazione, p. 273 ss.), l’adozione per tale motivo dello scrutinio segreto è assai limitata e riguarda essenzialmente le votazioni concernenti gli stessi componenti dell’assemblea (elezione, dimissioni, ecc.) e poche altre.
Posto, inoltre, che le delibere delle assemblee legislative hanno normalmente contenuto generale e astratto, mentre al contrario quelle del Consiglio superiore della magistratura hanno normalmente contenuto concreto riferito, appunto, a persone, l’analogia tra i due tipi di assemblee non può essere spinta oltre un certo segno in tema di segretezza del voto.
[4] Alla quale si ispirano anche altre disposizioni della legge istitutiva (art. 4 sull’elezione dei componenti della Sezione disciplinare; art. 37 sulle deliberazioni di sospensione o decadenza di un componente) o del regolamento interno del Consigli (art. 3 sull’elezione del vicepresidente), che prevedono appunto lo scrutinio segreto.
[5] Se fosse soltanto una questione giuridica, potrebbe essere sufficiente, per escludere la legittimità dell’introduzione per via regolamentare di una indiscriminata ammissibilità dello scrutinio segreto, il rilievo che tale modalità di scrutinio impedirebbe in concreto l’operatività della regola, prevista dalla legge (art. 5, comma secondo, l. 24 marzo 1958, n. 195, istitutiva del Consiglio), della prevalenza del voto del presidente in caso di parità di voti.