1. Premessa
Col termine "appello civile" ci si potrebbe riferire in senso lato a qualsiasi mezzo di controllo di una decisione emanata in prima battuta da un giudice diverso. Come tale esso comprenderebbe non solo l'appello civile in senso stretto contro una sentenza definitiva di primo grado, ma anche istituti diversi quali, a titolo di esempio, il c.d. reclamo cautelare previsto dall'art. 669/terdecies c.p.c., il reclamo avverso provvedimenti in camera di consiglio previsto dall'art.739 c.p.c., forse l'opposizione agli atti esecutivi prevista dagli artt. 617 e 618 c.p.c. e finanche l'impugnazione dei lodi arbitrali prevista dagli artt. 827 e seguenti c.p.c.
L'unico dato che accomuna tutte queste ipotesi è la funzione di assicurare un controllo sui provvedimenti che esauriscono (almeno di regola) la trattazione di una controversia (o affare) dedotta normalmente davanti a un giudice civile.
Nel corso delle pagine che seguono mi occuperò esclusivamente di una controversia relativa a diritti introdotta davanti a un giudice di primo grado sulla base di un procedimento a cognizione piena che si sia definitivamente concluso con una sentenza di primo grado.
2. La funzione dell’appello nelle controversie civili concluse con sentenza nel giudizio di primo grado a cognizione piena
La funzione dell'appello civile - così delimitato - ha origini antichissime ed oggi consiste nell'assicurare un controllo pieno sulle questioni di fatto e di diritto esaminate dalla sentenza appellata o che in questa avrebbero dovuto essere necessariamente prese in esame (anche se ciò in concreto non sia avvenuto). Come tale l'appello civile - si suole dire - è volto ad assicurare il controllo pieno, da parte di un giudice superiore, su tutte le questioni di fatto e di diritto che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esaminare.
L'affermazione, come enunciazione introduttiva, è esatta, ma necessita di una serie ampia di precisazioni.
Allo scopo di semplificare il tema che mi accingo a svolgere, mi concentrerò sull'ipotesi più semplice in cui le parti del processo di primo grado siano state esclusivamente due (l'attore e il convenuto), ed il convenuto si sia difeso proponendo tutt'al più domanda riconvenzionale giuridicamente dipendente dalla (affermata) insussistenza del diritto fatto valere in giudizio dall'attore.
Ciò premesso, si può osservare come sia fisiologico che tanto la proposizione della domanda originaria, quanto le difese del convenuto e l’ eventuale proposizione da parte di quest’ultimo di domanda riconvenzionale determinino la necessità di esame da parte del giudice di primo grado di una serie di questioni di diritto, relative alla individuazione della norma o delle norme (e correlate interpretazioni) sotto cui sussumere il diritto fatto valere dall'attore, o anche dal convenuto (che abbia proposto domanda riconvenzionale o anche si sia difeso proponendo eccezioni). Ed ancora è fisiologico che questi comportamenti determinino altresì la necessità di esame da parte del giudice di una serie di questioni di fatto relative all'accertamento di fatti (costitutivi, impeditivi, estintivi) allegati dalle parti e contestati.
Ne deriva quindi una serie anche numerosa di questioni di diritto e di questioni di fatto, che dovranno essere conosciute e risolte ai fini della decisione di merito da parte del giudice il quale dovrà dichiarare chi ha ragione e chi ha torto ed emanare normalmente anche i provvedimenti consequenziali[1].
L'esame e la risoluzione definitiva di tali questioni saranno effettuati in modo definitivo e con adeguata motivazione dal giudice nella sentenza, la quale conterrà le ragioni giustificatrici dell'accoglimento o del rigetto delle domande ed eccezioni proposte dalle parti. Tali ragioni costituiranno ad un tempo il fondamento dei "motivi" con i quali la parte soccombente, attraverso la redazione dell'atto di "appello", indicherà perché a suo avviso la sentenza di primo grado, in tutto o in parte, andrà riformata dal giudice d'appello.
Si comprende pertanto perché il discorso debba ora concentrarsi su questi "motivi" mediante i quali la parte soccombente appellante indicherà le ragioni per cui il giudice d'appello dovrebbe sostituire la sentenza di primo grado con altra dal contenuto in tutto o in parte diverso.
3. I motivi inerenti alla proposizione dell’appello e le limitazioni, di dubbia costituzionalità, delle prove nuove in appello
3.1. Con riguardo ai motivi d’appello, può rilevarsi, esemplificando, che la parte appellante può essersi doluta della soluzione di una questione di diritto.
Tale doglianza può fondarsi su una delle due ragioni che seguono:
a) affermando - ferma l’allegazione dei fatti storici effettuata in primo grado – che il giudice di primo grado abbia errato nella individuazione o nella interpretazione della norma giuridica, nonostante l'opinione contraria manifestata dalla parte già nel corso del giudizio di primo grado;
b) deducendo per la prima volta nell'atto d'appello – sempre ferma l’allegazione dei fatti storici effettuata in primo grado - quale avrebbe dovuto essere la norma o l’interpretazione della norma da applicare alla fattispecie concreta (questo ritardo nella indicazione della norma o della sua interpretazione, trova la più probabile spiegazione nella circostanza che la parte abbia affidato la sua difesa in appello ad un avvocato diverso da quello di cui si era avvalsa nel giudizio di primo grado).
E’ pacifico che anche nella seconda ipotesi il giudice possa e debba ritenere ammissibile la prospettazione "tardiva" delle questioni di diritto indicate dalle parti; e ciò perché (se si vuole, in base al principio espresso dal latinetto "iura novit curia") le questioni relative alla individuazione e interpretazione delle norme rientrano nei poteri ufficiosi del giudice che è o dovrebbe essere per definizione specializzato nel settore in quanto non solo laureato in giurisprudenza, ma anche selezionato tramite il severo concorso per l'accesso in magistrature (cosa che - com’è noto - non vale per la selezione dei c.d. magistrati onorari).
La parte appellante potrà avvalersi anche delle prove acquisite al processo su istanza della controparte; e ciò non solo perché un processo che vuole essere civile non può contrastare strumenti volti al perseguimento della giustizia nel rispetto dei valori insuperabili della tutela della persona umana, ma anche in virtù del principio (dal sapore dogmatico, ma non per questo disprezzabile, a meno di non voler optare per l'irrazionalismo con tutte le sue tragiche conseguenze) della c.d. acquisizione, per il quale è irrilevante la parte che ha provocato la produzione di una prova, che può essere utilizzata anche dal giudice oltre che dalla controparte di quella che ne ha provocato l'acquisizione .
3.2. E' da considerare ora una vicenda diversa (o - forse più esattamente - diversamente disciplinata) che appare in contrasto col valore costituzionale del giusto processo. La vicenda è quella relativa alla parte soccombente in primo grado[2] che indichi nell'atto d'appello una "prova nuova" rispetto a quelle già richieste nel primo grado di giudizio, se del caso inutilmente lamentandosi della difesa quivi goduta e ancor più denunciando il palese errore per omissione del difensore (bisognoso lui di assistenza…) a cui si era incautamente rivolta.
Nella disciplina di questa non esaltante vicenda, il legislatore italiano (al pari di quanto avvenuto nella parallela vicenda delle eccezioni nuove non rilevabili d'ufficio) ha più volte mutato opinione quanto alla disciplina dell'appello nel rito ordinario[3], approdando infine a quella attuale dell'art. 345 c.p.c. ove viene radicalmente affermata l’inammissibilità, rilevabile d'ufficio, della richiesta di nuove prove (e di nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio), salvo poi dover fare i conti con riguardo all’esercizio del potere di sollevare prove contrarie alla eccezioni rilevate d’ufficio, nonché ad eventuali prove nuove richieste con riferimento a domande la cui modifica è oggi ammessa in appello nonché - più in generale – con i problemi in materia di prove a seguito del grosso ampliamento dei limiti oggettivi del giudicato ammesso con le sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2014 (est. Travaglino) nelle controversie in materia contrattuale (è appena il caso di rilevare la contraddittorietà nel volere da un lato ampliare i limiti oggettivi del giudicato, e dall’altro ridurre sempre più l’ingresso dei “nova” in appello).
Il guazzabuglio teorico che ne deriva è inestricabile. In questa sede vorrei limitarmi a denunciare solo due o tre punti senza alcuna pretesa di immergermi nei mille e uno problemi pratici di ogni giorno.
Il primo rilievo attiene agli scopi espliciti enunciati, qui e in tanti altri siti paralleli.
La ratio dell'intervento sul radicale divieto di nuove prove in appello (rifiutando anche i compromessi introdotti attraverso la categoria della "indispensabilità" dalle leggi n. 533/1973 e n. 553/1990, compromessi a mio avviso razionalizzabili se interpretati alla luce dell'art. 2697 c.c. sulla regola dell'onere della prova) vanno rinvenuti unicamente nell’esigenza di ridurre i tempi dell’appello in funzione della difesa dell’agonizzante giudizio di cassazione: il tutto sulla base di un’adesione incontrollata all’intento di scaricare sul giudice (costringendolo ad emanare decisioni sempre più ingiuste o errate a danno delle parti più deboli o meno scaltre) anche le conseguenze degli errori di avvocati sempre meno professionalmente attrezzati.
4. Gli aiuti europei e la loro subordinazione al limitato obiettivo di riduzione dei tempi della giustizia
In questa situazione di estrema difficoltà l’Unione Europea ha subordinato gli aiuti europei[4], finalizzati al radicale miglioramento del servizio giustizia offerto dall'Italia, ad una serie di interventi da effettuare a tempi brevi.
E' opportuno premettere che la richiesta europea è motivata dalla considerazione della difficoltà o della rinuncia ad effettuare investimenti in Italia che sarebbero provocate dal malfunzionamento e dai tempi lunghi della giustizia civile e penale italiana. Il rilievo è ineccepibile, anche se personalmente avrei anche contemporaneamente gradito una pari sensibilità nei riguardi di una politica volta a contrastare delocalizzazioni all'interno della stessa UE con gravissime conseguenze a danno di quei lavoratori e persone umane i cui diritti inviolabili (quali fondati sul diritto naturale) sono riconosciuti - con i conseguenti doveri di solidarietà - dalle costituzioni italiana, francese e tedesca del secondo dopoguerra a baluardo dei crimini nazisti e fascisti; così come avrei gradito un accordo interno alla UE a tutela di una sistemazione dignitosa dopo sfruttamenti centenari, di cui alcuni ancora in atto: si pensi alla c.d. Rep. Democratica del Congo, o alle coste libiche o tunisine, o alla situazione dell'Egitto e ai suoi quasi frequenti sacrifici umani (ma a cui l'Europa consente quotidianamente di commerciare armi) o, infine, alla situazione dei profughi siriani parcheggiati in Turchia, grazie alla sua “generosità”, alla frontiera con la Siria, profughi per i quali l'Europa paga alla Turchia il denaro annuale per il loro misero sostentamento, il tutto allo scopo di impedire loro il non gradito ingresso sul territorio dei paesi della UE.
A fronte di queste vergogne la ricca UE, punta dal Covid, risponde conferendo somme a fondo perduto e garanzie e interessi agevolati anche alla debole Italia subordinatamente, fra l'altro, al miglioramento, soprattutto dei tempi della giustizia penale e civile.
5. L’inidoneità delle proposte ministeriali di riforma a tradursi in un progetto politico adeguato ai problemi concreti della giustizia italiana. Alcuni rilievi critici
Quanto alle proposte ministeriali di riforma della giustizia civile, sia nel testo originario elaborato dalla commissione e soprattutto dal suo presidente, sia nel testo tramesso dalla ministra al parlamento il 16 giugno 2021, questo mio breve scritto - che ho accettato di pubblicare per l'amicizia affettuosa che mi legano ancora ad amici carissimi di irraggiungibile capacità tecnica e spessore morale fra i quali Pino Borrè, Aldo Bozzi, Salvatore Senese e tanti altri, fra i quali si è inserito a pieno titolo da oramai molti anni Gianfranco Gilardi che mi ha sollecitato questo intervento, che non pretende di avere alcun valore scientifico - mi impone una osservazione preliminare.
Nonostante il valore scientifico dimostrato da cari colleghi quali Francesco Paolo Luiso - chiamato a presiedere la commissione ministeriale e a sottoscrivere la relazione e l'articolato - o Antonio Carratta o il pres. Giusti, o l'affetto che da sempre mi lega alla mia ex studentessa e per tanti anni impegnata collega fiorentina Paola Lucarelli, qualcosa non mi torna dalla lettura di quanto sinora (30 luglio) reso pubblico.
Senza peli sulla lingua mi sembra che l'esistenza dei problemi non sfoci mai o quasi mai in un disegno assistito dall’adeguata capacità di compiere le scelte necessarie per tradurlo in un vero progetto politico in cui sia possibile cogliere la consapevolezza delle tante soluzioni adottabili a livello scientifico, mostrando attenzione più alla realtà ed ai problemi del nostro ordinamento (studiato in via comparatistica secondo il metodo di Rodolfo Sacco e di suoi valorosi allievi, come Gambaro, Mattei e Monateri[5]) che ad un astratto riferimento alle costituzioni straniere.
Conclusi i rilievi personali, vorrei per chiarezza esporre le più forti perplessità che allo stato continua a suscitare in me la proposta di riforma della giustizia civile.
Avendo anche di recente espresso più volte il mio pensiero, mi limiterò in questa sede alla esposizione sintetica dei seguenti punti:
- il pericolo insito nel reclutamento di un esercito di 16.000 precari, senza chiarezza quanto agli incarichi che saranno loro assegnati, alla devoluzione di tutte le loro attribuzioni civili all'unico giudice monocratico ed ai requisiti sulla cui base saranno scelti;
- l’incapacità di individuare una unica consistente categoria di giudici onorari con poteri giurisdizionali da individuare esclusivamente sulla base della competenza per materia e non di quella per valore o, peggio ancora, con poteri discrezionali attribuiti ai presidenti dei tribunali o a giudici togati delegati;
- la sostanziale “criminalizzazione” dei diritti di azione e di difesa garantiti dalla costituzione, tramite la minaccia di mille e una sanzioni;
- il ricorso “selvaggio” alla mediazione obbligatoria quale condizione di procedibilità, con la sola novità relativa alla previsione di incentivi e con la conservazione della contraddizione tra diritto alla tutela giurisdizionale e potere illimitato delle parti, in materia di diritti disponibili, di fare ricorso ai propri poteri di autonomia privata, ivi compresa la scelta di rivolgersi all'aiuto di terzi;
- il non avvedersi che, una volta soppresso l'addebito e ridotti I termini per la domanda di divorzio, non ha più senso la mancata previsione di un unico processo in caso di separazione giudiziale e non consensuale;
- e infine, dulcis in fundo, non avere colto finalmente l'occasione per la soppressione del tribunale dei minorenni e l'attribuzione all'unico ufficio monocratico del giudice dei minori e delle competenze civili del tribunale dei minorenni con la previsione - ove necessario e comunque richiesto dalle parti o dal pubblico ministero specializzato, il tutto in caso di urgenza - di esplicita applicazione del c.d. processo cautelare uniforme previsto dagli artt.669/sexies a terdecies c.p.c. con il correlato sistema di garanzie. Imperdonabile, infine, la conservazione del potere del tribunale dei minorenni di agire d’ufficio in spregio del fondamentalissimo principio della domanda.
6. Considerazioni su alcuni temi relativi al sistema delle impugnazioni civili ed alle gravi lacune in ordine alla tutela di diritti fondamentali della persona
Ribadite queste profonde e dure critiche nella speranza che siano superate almeno dall'esame del Parlamento, vorrei dedicare l'ultima parte di questo mio intervento all'esame di alcuni temi di particolare spessore relativi al sistema delle impugnative civili, in prospettiva altresì della opportunità di un ripensamento globale anche a livello di interventi di riesame che investono scelte costituzionali Il primo tema concerne specificamente l'appello civile e, più in generale, il controllo pieno delle decisioni relative alla risoluzione delle questioni di diritto e di fatto.
Il secondo tema, stretta mente collegato, concerne il riesame del ricorso per cassazione in diretta connessione con la funzione della corte costituzionale.
Si tratta di due temi in gran parte interdipendenti alla analisi dei quali, anche in prospettiva di tempi lunghi, ho dedicato la mia riflessione (probabilmente l'ultima della maturità della mia vita dedicata allo studio del processo civile), riflessione volta non a chiudere ma ad aprire problemi, nella speranza che altri più dotato e più giovane - e soprattutto meno vecchio - di me sappia valutare se cestinare o, come ovviamente spero, sviluppare.
I risultati di queste mie riflessioni sono riportati in due articoli della Rivista di diritto processuale: il primo (dedicato a Franco Gaetano Scoca per festeggiare i suoi 86 anni) pubblicato nel n. 3 del 2019; il secondo, inviato per la pubblicazione sul n. 4 della medesima Rivista.
Mi è sembrato opportuno chiudere questo articolo riassumendo alcuni dei risultati di queste riflessioni.
Riallacciandomi al primo periodo del presente intervento, vorrei ribadire con forza che la garanzia di un controllo pieno da parte di un giudice diverso sulle questioni di diritto e di fatto esaminate nel corso di un giudizio in senso atecnico indicato come di primo grado, salta ogni qual volta si esclude la possibilità stessa di questo controllo sopprimendo del tutto il giudizio di appello o di secondo grado in generale. Quando, per l'insipienza di fare presto a tutti i costi, ci si disinteressa completamente del "fare bene", si finisce per sopprimere del tutto la garanzia dell'appello con riguardo a processi volti a tutelare veri e propri diritti previsti dalla legge sostanziale. Rinviando a qualsiasi manuale di procedura civile o di diritto fallimentare per la verifica delle molte, troppe ipotesi in cui ciò è stato espressamente previsto (al di là delle ipotesi classiche, e in gran parte indolori, della equità o del minimo valore della controversia o dell'accordo delle parti di rinunciare all'appello per investire "per saltum" direttamente la cassazione), vorrei richiamare la gravissima ipotesi di esclusione dell'appello con riguardo alle decisioni di rigetto della domanda dello straniero volta ad ottenere il permesso di soggiorno in Italia: in questa ipotesi si è non solo in presenza di una controversia relativa ad uno di quei diritti fondamentali riconosciuti - alla stregua del rispetto del diritto naturale - alla persona umana dall'art. 2 Cost., quali diritti su cui si fonda tutto il nostro ordinamento, ma altresì di diritti la cui esistenza o negazione in concreto postulano quasi sempre accertamenti di fatto estremamente complessi che solo un corretto e completo svolgimento di attività probatoria del giudice di merito (ivi compreso l'esercizio di poteri anche officiosi di raccolta delle prove) può in qualche modo assicurare. Vedi chiaramente in tal senso l’importante ordinanza della Cassazione n. 8819/2020 (Pres. Spirito, Est. Travaglino)[6] che, facendo I salti mortali, ha cercato di evitare il passaggio in giudicato di una sentenza probabilmente ingiusta.
L'abolizione anche in tali ipotesi del giudizio d'appello è espressione o di “razzismo” legislativo o di incapacità tecnica, di insipienza difficilmente immaginabile dei nostri rappresentanti in Parlamento: l'alternativa è rigida e, mi sembra che da essa non si possa sfuggire!!!
Nel volgere di poco più di venti o trent'anni il nostro legislatore sembra avere perso anche il senso del ridicolo: forse per incapacità tecnica, alla quale mi auguro di tutto cuore che l'attuale Ministra della giustizia, coadiuvata dalla commissione governativa nonché da quel fondamentale strumento di collegamento col Parlamento costituito dall'Ufficio legislativo (oggi diretto dalla pres. Franca Mangano di eccezionale valore umano e scientifico) sappiano far fronte ai guasti causati dal 1991 in poi.
E' infatti opportuno ricordare che la legge n. 353/ 1990 emanata sotto il guardasigilli Giuliano Vassalli (il quale poté avvalersi della preziosa collaborazioni, oltre che del sen, Modestino Acone, di studiosi quali Pino Borrè, Giovanni Fabbrini, Franco Cipriani, Bruno Capponi) introdusse agli articoli da 669/bis a quaterdecies c.p.c. il c.d. procedimento cautelare uniforme che tra i numerosi strumenti di garanzia indispensabili introdusse quello previsto dall'art. 669/terdecies c.p.c., volto ad assicurare a favore di chi avesse subito un provvedimento cautelare (nonché a favore di chi - aggiunse immediatamente dopo pochi mesi la Corte Costituzionale – avesse visto respinta la domanda di emanazione del provvedimento cautelare richiesto) la possibilità di proporre in tempi brevi davanti ad un collegio (di cui non potesse far parte il giudice che aveva concesso o negato il provvedimento cautelare) un reclamo destinato a concludersi con ordinanza di conferma o modifica del provvedimento reclamato[7].
Così facendo, si pensò di riuscire a ridurre la durata complessiva (meramente sul piano della statistica astratta, per quel che vale) dei processi civili nel loro complesso, dimenticandosi del tutto che il ricorso per cassazione (unico rimedio che rimaneva utilizzabile dalla parte soccombente) consentiva e consente oggi un controllo pieno solo sulla questione di diritto e mai pieno sulla questione di fatto, anche ove da essa dipenda l'esito della controversia.
Concludendo è da dire che in tal modo si è realizzato un vero e proprio obbrobrio lesivo del diritto di azione e di difesa costituzionalmente garantiti dall'art. 24 Cost., anche se mi sembra che non sia stato denunciato - almeno da parte dei miei più giovani colleghi, e tanto meno dai colleghi della attuale Ministra della giustizia, studiosa dell'astratto diritto costituzionale comparato nei modi che ho sopra ipotizzato, peraltro senza cattiveria alcuna.
7. Considerazioni conclusive
Avviandomi verso la conclusione, mi sia consentito un ultimo rilievo, desunto da quanto ho cercato di illustrare nell'articolo che dovrebbe essere ospitato dal n.4 di quest'anno della gloriosa Rivista di diritto processuale.
A seguito di quella che io chiamo "rivoluzione copernicana" realizzata non solo in Italia nel tentativo di dire “mai più" agli obbrobri nazisti e fascisti”, la Costituzione italiana del 1948 - e le parallele costituzioni francese e tedesca - posero a loro fondamento il "riconoscimento", derivante dal diritto naturale", dei diritti inviolabili della persona umana e dei conseguenti doveri di solidarietà economica, politica e sociale, e non già l'iniziativa economica e la proprietà private, diritti che furono entrambi riconosciuti negli artt.41 e 42, ma nei limiti in cui non fossero in contrasto con il rispetto della dignità della persona. Da qui una serie di conseguenze sul piano interpretativo e, contestualmente, l’istituzione della Corte costituzionale cui fu attribuito il controllo accentrato di costituzionalità sulle norme di legge ordinaria. Con il che si ebbero sempre più l'apertura ai valori nella interpretazione della legge; la riscoperta dei “combinati – disposti” tra testo di legge ordinaria e disposizioni costituzionali da cui desumere in via di interpretazione sistematica la norma vigente e vincolante; e quindi - allo scopo di risolvere il problema del sovraccarico delle questioni rimesse alla Corte Costituzionale - l’apertura alla tecnica della interpretazione costituzionalmente orientata con riguardo all’interpretazione della legge ordinaria.
Da questo difficile contesto di problemi in cui ciascuno si sovrappone all'altro, ho cercato di uscire nelle – seconde - conclusioni problematiche contenute alla fine dell'articolo che dovrebbe essere pubblicato nell'ultimo fascicolo del 2021 della Rivista di diritto processuale, conclusione che non mi sento qui di anticipare per la quantità dei problemi cui volutamente rinvio i miei più giovani colleghi di procedura civile e diritto costituzionale.
14.08.2021
[1] Ometto volutamente, per esigenze di semplicità, anche solo di accennare alle questioni c.d. di “rito", quali ad es. la competenza del giudice adito, la capacità delle parti, le eventuali nullità di atti del processo ecc., che frequentemente nella pratica possono presentarsi quali ulteriori fattori di complicazione del livello "elementare" che sto cercando invece di utilizzare.
[2] Probabilmente perché difesa male da uno dei 245.000 avvocati italiani: un numero scandaloso, non tanto per considerazioni inerenti al rispetto delle tradizioni della professione forense, quanto soprattutto perché insensato se messo a confronto con quello dei 30 - 40 mila avvocati francesi o tedeschi, per non parlare dei 4000 c.d. cassazionisti italiani, cifra abnorme che si commenta da sé a fronte dei 100 o 200 francesi.
[3] Diversa, e più compromissoria, è quella dell'appello nel rito lavoro su cui non mi soffermo.
[4] Somme a fondo perduto; prestiti garantiti dalla UE a tassi agevolati.
[5] Diverso invece era il metodo della scuola di Mauro Cappelletti, spesso attenta più ai paesi stranieri che alle ricadute nel nostro ordinamento.
[6] In Foro it., 2020, I, 3545 e segg, con nota di F. G. Del Rosso (Protezione internazionale ed umanitaria, diritti autodeterminanti, principio del beneficio del dubbio e comparazione attenuata, 3561 e segg,), giovane e valente studioso purtroppo recentemente scomparso.
[7] Stranamente la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate riguardo a provvedimenti - molto contigui ai provvedimenti cautelari - in tema di c.d. provvedimenti anticipatori di condanna quali ad es. quelli previsti dagli art.648,1°comma o 665 c.p.c. ed altri simili.