1. La cornice costituzionale della libertà e segretezza delle comunicazioni
E' ormai semisecolare la costruzione da parte della giurisprudenza costituzionale di valori come decoro, onore, rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione in termini di diritti inviolabili ai sensi dell'articolo 2 della Costituzione, riconosciuti in virtù delle previsioni degli articoli 3 secondo comma e 13 primo comma della stessa[1].
Del resto, proprio la formulazione dell'art.15 primo comma, che qualifica inviolabili la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, prevedendo al comma successivo la loro limitazione solo per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge, rende incontestabile il collegamento tra la categoria dei diritti inviolabili ed i beni protetti dalla norma da ultimo citata.
Vi è anche stata una proiezione coerente e secca sul piano processuale di questa impostazione laddove la stessa Corte ha stabilito l'impossibilità di disporre mezzi istruttori che possano risultare lesivi della dignità della persona o invasivi nell'intimo della sua sfera privata[2]. Ancor più esplicite sono le pronunce secondo le quali la dignità umana è comprensiva del diritto alla riservatezza[3]. Articolato ed arioso è il concetto espresso dalla Corte Costituzionale allorché ritiene che la sfera intima della coscienza individuale debba essere considerata il riflesso giuridico più profondo dell'idea universale della dignità della persona umana che esige una tutela equivalente a quella dei diritti inviolabili[4]. La puntuale esegesi dell'art.15 citato è compiuta quando si dice che la libertà di manifestazione del pensiero non può trovare limitazioni se non nelle disposizioni legislative dirette alla tutela di altri beni ed interessi costituzionalmente protetti[5].
Una parola ulteriormente e scultoreamente assertiva sul tema si è detta affermando che il diritto alla riservatezza attiene al nucleo essenziale dei valori della personalità e va qualificato come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona, senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana[6].
Se quelli appena ricordati si rivelano interventi giurisprudenziali diretti a demarcare in maniera indelebile il vasto terreno di estrinsecazione della fondamentale posizione soggettiva con cura fissata dall'art.15 della Costituzione, non meno incisivi ,profondi e recisi sono stati quegli orientamenti della medesima Corte indirizzati al coordinamento tra tali caratteri di natura sostanziale ed i loro riflessi sul piano delle garanzie processuali, il cui difetto certamente si risolverebbe nel loro indebolimento, se non nella relativa eradicazione.
Non sembra seriamente discutibile l'importanza di questa opera di equiordinazione tra i due profili, sostanziale e processuale, in cui si innervano le libertà dell'art.15, sì da apparire tra loro inscindibili. In questo senso milita la perspicua statuizione secondo cui gli strumenti previsti dal codice di procedura penale a garanzia della segretezza e della libertà di comunicazione telefonica fanno sì che il dovere di prevenire e reprimere i reati sia adempiuto nel più assoluto rispetto di particolari cautele dirette a tutelare un bene, l'inviolabilità della segretezza e la libertà delle comunicazioni, strettamente connesso alla protezione del nucleo essenziale della dignità umana ed al pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali[7].
In sintonia appare l’affermazione, di un ventennio precedente, circa la necessità di preservare la segretezza di tutte le comunicazioni telefoniche dell'imputato che non siano processualmente rilevanti[8]. La linea di pensiero della Corte Costituzionale scorre lungo una linea parimenti rigorosa e rispettosa del valore centrale della dignità della persona : indice luminoso di questo modo elevato e lungimirante di concepire la materia si ha in quella pronuncia assertiva del principio che le decisioni giudiziali sulla richiesta, da chiunque formulata, relativa alla distruzione del materiale documentale attinente a conversazioni telefoniche incidono in ogni caso sul diritto costituzionale alla riservatezza delle proprie comunicazioni ripetutamente definito “diritto inviolabile”[9].
2. La rilevanza delle comunicazioni private nei procedimenti amministrativi riguardanti magistrati
Un così armonioso e definito quadro di fattura costituzionale rischia da qualche anno di essere sensibilmente alterato a causa di battagliere incursioni nella sfera privata delle comunicazioni poste in essere in sede amministrativa: e qui il pensiero deve per forza correre a parecchie deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura. In via ripetuta, infatti, l'organo di governo autonomo, recepisce e si pronuncia su atti, pur dichiaratamente privi di rilevanza penale, provenienti da autorità giudiziarie dirette ed originarie destinatarie degli stessi, che si sostanziano nella trascrizione-talvolta accompagnata dalla fisica apprensione delle registrazioni-di conversazioni intercorse tra magistrati o, almeno, tra un magistrato ed un interlocutore estraneo all'ordine giudiziario.
La trasmissione degli atti da parte degli uffici procedenti sembra trovare giustificazione nel generale obbligo di informazione, sancito a livello normativo secondario, al CSM che grava sugli organi della magistratura di riferire su fatti che potrebbero assumere rilievo ai fini dell'esercizio delle prerogative consiliari.
E proprio nello svolgimento di tali prerogative, radialmente diffuse in pressoché tutte le articolazioni dell'organo, si manifestano sintomi evidenti di collisione frontale con i principi costituzionali prima sommariamente descritti. Ed infatti, la regola che la prassi consegna all'osservatore esterno, e molto sovente allo stesso magistrato interessato, è quella della utilizzazione illimitata, ossia senza alcuna predeterminazione dei confini soggettivi ed oggettivi, delle comunicazioni. Modo di procedere, questo, che inevitabilmente apre la strada alla ben più invasiva attività di indagine ed interpretativa sulle singole parole, oltre che sul senso complessivo del discorso (spesso frantumato in frasi incompiute o incomprensibili).
In genere, l'attività investigativa si spinge ben oltre l'area della semplice registrazione delle espressioni usate dai conversanti: essa, infatti, in un numero significativo di casi, aspira a raggiungere il risultato dell'introspezione psicologica del magistrato conversante. Se ne vuol cogliere il pensiero sulla vita, sulle istituzioni, sugli affetti, sugli orientamenti politici (soprattutto quelli): e ciò spesso avviene attribuendo valore ad uno spezzone verbale, collegandolo ad altri monconi di dialogo e pretendendo di trarre da essi elementi idonei a tratteggiare insieme la figura professionale ed umana del magistrato.
Tanto più severo è lo scandagliamento degli anfratti della mente dell'intercettato quanto più lo stesso abbia formulato, durante le conversazioni ad altri fini captate, valutazioni, giudizi, impressioni di ogni natura su altre persone e specialmente su altri magistrati. Sembra scattare il noto riflesso autodifensivo della categoria in forza del quale può darsi questa drammatica alternativa: a) la criminalizzazione dei singoli fonemi in funzione protettiva dell'altrui reputazione, in effetti mai messa a repentaglio fino ad allora per la sufficiente ragione della mancata diffusione della comunicazione, b) l'elevamento di quelle espressioni ad accusa nei confronti dell'inconsapevole terzo magistrato, raggiunto dalla mefitica aura del sospetto dal quale non può difendersi perché ignaro.
Quelli enunciati rappresentano naturalmente una porzione, seppur statisticamente apprezzabile, delle evenienze discendenti dalla forzosa acquisizione da parte del CSM di materiale processualmente insignificante dal quale, tuttavia, deriva l'automatico conferimento al parlante della posizione giuridica di magistrato chiamato a difendersi, a spiegare, ad allargare lo spettro dell'indagine, ad implicare anche condotte di altri colleghi. Insomma, si assiste ad una dilatazione praticamente incontrollata di uno spicchio di vita individuale privata.
Per concludere su questo punto, che in effetti non riveste rilevanza essenziale ai fini del presente contributo, va ricordato che l'attività di approfondimento consiliare non sembra conoscere ostacoli nella circostanza che le parole siano rimaste semplici emissioni di fiato, nel senso che da esse non siano scaturiti concreti comportamenti disdicevoli; sicché è ineludibile la conclusione che si pesino semplicemente termini letterali, idee, orientamenti.
Ben più ricco di suggestioni teorico-ricostruttive è il connesso, ma istituzionalmente preponderante, tema degli strumenti normativi attraverso i quali il CSM mette a frutto sul piano valutativo multilivello che ad esso è proprio le comunicazioni private. Più precisamente, l'attenzione dell'esperto non può che dirigersi all'individuazione di tali strumenti per ricavare, anche grazie all'empirica esperienza, possibili regole che servano da monito a chi ,magistrato-cittadino, si trovi in futuro ad impiegare quei mezzi di comunicazione così gelosamente tutelati dalla nostra lungimirante Costituzione.
E' allora imprescindibile trarre spunto da vicende anche molto recenti in cui al centro del dibattito consiliare in tema di nomine o conferme relative ad uffici direttivi o semidirettivi si è posta, addirittura in termini di pregiudizialità logica, la questione ermeneutico-valutativa di conversazioni private accidentalmente captate nel corso di indagini penali, che poi le hanno abbandonato ad un destino di irrilevanza, pur inviandole al Consiglio.
Il dato che interessa l'osservatore è costituito dal metodo utilizzato per determinare la confluenza delle conversazioni nei menzionati procedimenti. Quel che, in particolare, colpisce è la precostituzione di un percorso di ragionamento artefatto a causa della sua meccanicistica configurazione. In sostanza, è costante l'indirizzo seguito dal Consiglio, ed ormai da mesi pienamente sconfessato dalla giurisprudenza amministrativa: esso, infatti, adibisce lo scintillante (ma non brillante) meccanismo dei cosiddetti prerequisiti disegnato dal Testo Unico sulla dirigenza per stroncare le aspirazioni di quanti siano incappati in comunicazioni, private nelle origini e repentinamente ribaltate nel loro indesiderato opposto. Tra tali condizioni, preliminari perfino alla valutazione di merito, il Consiglio è solito scegliere quella di tale portata distruttiva, nell'ipotesi della sua carenza, da trasformarsi in un'autentica, irrimediabile tagliola non più redimibile.
Si tratta del prerequisito dell'indipendenza, la cui mancanza, è necessario ripetere, preclude l'accesso alla fase sia dello scrutinio attitudinale e di merito sia della comparazione con gli altri concorrenti. Indipendenza: termine altisonante e nobile che, senza necessità di definizione normativa, attiene all'essenza stessa dell'esercente la giurisdizione non solo perché sarebbe un ossimoro predicarne un'attività in contrasto con tale intrinseca qualità ma soprattutto e decisivamente perché il primo comma dell'art.104 della Costituzione scolpisce la definizione collettiva dell'intero plesso giurisdizionale postulandone l'autonomia e l'indipendenza da ogni altro potere.
Questo è lo statuto dell'intera categoria in cui viene sussunto un potere dello Stato e, per riverbero logico, lo diviene anche con riferimento ai suoi singoli componenti. Il Consiglio, nel redigere il citato Testo Unico, si è impegnato nella non facile opera di relativizzare la nozione costituzionale di indipendenza, ricalcandone le orme nel disegnare i destini individuali, cui applica la formula dell'esercizio delle «funzioni giurisdizionali senza condizionamenti, rapporti o vincoli che possano influire o limitare le modalità di esercizio della giurisdizione avuto anche riguardo al tipo ed all'ubicazione dell'ufficio da conferire».
Ora, nessuno potrebbe ragionevolmente dubitare della meritevolezza dell'intento perseguito dal legislatore secondario nel concretizzare in una serie di indici sintomatici un valore del quale si nutrono la stessa organizzazione in senso democratico dello Stato e la fiducia dei cittadini nel suo costante inveramento. La stringente domanda che non può non comandare una risposta all'altezza dell'argomento è se, ai fini della formulazione di un giudizio, quale quello del possesso dell'elemento connotativo basilare dell'essere magistrato, ossia l'indipendenza nel senso appena riferito, possano trovare diritto di cittadinanza conversazioni protette dallo scudo costituzionale, avulse da qualsiasi disvalore penale, svincolate da condotte sconvenienti o vietate.
Più in particolare il quesito deve essere integrato da una sua derivazione logica: se il giudizio sull'indipendenza, nella versione del Testo Unico inequivocamente declinato sulle modalità di esercizio della giurisdizione, possa essere legittimamente formulato sulla base delle singole parole utilizzate in una o più conversazioni private ,soprattutto se da esse si pretenda di estrapolare un pensiero, un orientamento ideale, una concezione dei rapporti sociali, un personalissimo credo politico. Ed ancora, va attratta nel medesimo spettro problematico la ammissibilità di un sindacato (negativo fino al limite estremo del diniego del prerequisito in parola) circa il senso della presenza in una ristretta comunità attraversata da pesanti problemi di integrazione etnica, il concetto di operosa solidarietà sociale e dei doveri nascenti da vincoli affettivi, di amicizia ,di comunanza del sentire.
C'è un denominatore che rende omogenei questi profili dubitativi: è la pretesa più volte esibita in sede amministrativa di unire in un connubio indissolubile la figura professionale del magistrato e quella dell'uomo nel momento in cui manifesta la propria umanità, ossia quello dello svolgimento della sua attività elaborativa di idee, giudizi, libertà espressive nell'ambito di anche limitate formazioni sociali (quale quella corrispondente ai partecipanti alla ristretta comunicazione).
Marcata è la sensazione di delusione che si trae dalla pretesa dirigistica di esplorare l'animo umano, spogliandolo di quei caratteri, unici ed irripetibili, che partecipano della dignità della propria persona, che si realizza compiutamente solo sbarrando la porta alla possibilità di umilianti introspezioni ed all'altrettanto umiliante destituzione della dignità professionale sacrificata sull'altare di un tremendo giudizio di perdita dell'essenza della funzione giurisdizionale, l'indipendenza.
E sono proprio l'assiomatica semplificazione del giudizio consiliare, fondato su parole pronunciate in una dimensione intima e confidenziale e dimentico delle opere professionali, la meccanica apposizione di un marchio, l'incrinatura dell'immagine pubblica che dovrebbero richiamare alla memoria la pluralità di lucidi ed intramontabili insegnamenti della Corte Costituzionale. E', cioè, indifferibile la necessità che la linea di tendenza venga rettificata e riportata all'ortodossia valutativa, vale a dire quella dispiegata solo in termini professionali senza tentazioni di sconfinamento nei terreni inviolabili della segretezza delle comunicazioni prive di attitudine criminosa.
3. La cautela verbale come mesto antidoto alle irruzioni nel contesto comunicativo
Fin qui sono affiorate le serie diseconomie sul piano applicativo e della retta esplicazione delle funzioni consiliari in senso costituzionalmente orientato che rinvengono la loro tormentata e preoccupante origine nell'occhiuta e pretenziosa interpretazione dei limiti (in effetti reputati insussistenti) di penetrante scrutinio di conversazioni nate e destinate a rimanere private, ossia segrete, nonché prive di rilevanza penale: conversazioni inopportunamente risucchiate in uno sbilanciato esame, di significato lessicale, intenzioni, sottintesi, tutti tesi a dipingere, o respingere, il ritratto di un magistrato indipendente. Un'indipendenza modellata, secondo gli automatici indici valutativi consiliari, su stati d'animo, scambi di considerazioni su realtà sociali di impressionante e difficilmente governabile complessità, convinzioni profonde e mai e da nessuno sindacabili.
Ma l'affermarsi di un siffatto modo di intendere l'incontrollata ampiezza dei mezzi di accertamento in negativo del possesso del requisito dell'indipendenza sconta un ulteriore e forse più dilaniante effetto, che questa volta presumibilmente potrà riprodursi nello stesso atteggiamento psicologico e comportamentale di ogni singolo magistrato. Questi, infatti, basando le proprie condotte sulla falsariga degli indirizzi consiliari, sarà prudenzialmente indotto a dosare parole, esternazioni, critiche; tenderà ai paludamenti verbali; sfuggirà a quelle prese di posizioni capaci di riflettere intime persuasioni; si chiuderà in un indecifrabile silenzio; si sottrarrà dal fornire contributi a scottanti dibattiti pubblici; rinuncerà a far sentire la propria autorevole voce in una comunità che pure lo invita a diffonderla; comunicherà enigmaticamente in ambiti ristretti e privi di rischi. In una parola, si rifugerà in quella torre d'avorio che velerà i suoi occhi, accecandoli davanti a quelle visioni critiche che ogni persona ha il diritto ed il dovere di porre a disposizione della collettività in cui vive. E, quel che è peggio, sentirà incombere su di sé un inespresso ma inderogabile onere di trattenimento verbale che ne frenerà la presenza nella società e lo mortificherà come componente della stessa. Lasciar surrettiziamente intendere che un tale tacito dovere sia concepibile ed esigibile nelle opportune sedi implica tristemente il declino della potenza del magnifico ordito costituzionale fabbricato a misura della dignità della persona umana, di ogni persona umana indipendentemente dal lavoro svolto. Non è pensabile che la magistratura italiana debba pagare un prezzo così esoso senza che si avvertano pericolosi contraccolpi negli equilibri istituzionali.
[1] Corte Costituzionale 38 del 1993.
[3] Corte Cost.238/1996 in continuità con la precedente sentenza 218 del 1994.