Nato nel 1957, appartengo a quella fortunata classe di giovani laureati autorizzati a presentarsi al concorso in magistratura con la sola legittimazione del diploma e la preparazione strettamente universitaria. Ventuno esami, più la tesi.
Una condizione che, oggi, può sembrare proiettata nel mito. Non soltanto il diploma di laurea non è più sufficiente, ma soprattutto la preparazione che serve non è più quella soltanto accademica. Eppure, il ciclo unico dura un anno in più, e il numero degli esami è quasi raddoppiato.
Come si è giunti a questo risultato?
Il primo dei fattori critici è nel cambiamento degli ordinamenti didattici, a partire dall’idea sventurata del 3 + 2 (o 4 + 1, o altre combinazioni di numeri). Giacché nessun docente intendeva essere escluso dalla formazione specialistica – la triennale omologata al super-liceo – ogni insegnamento ha avuto il suo proprio spazio prima nel triennio e poi nel biennio. L’affollamento delle materie ne ha imposto l’indiscriminata semestralizzazione. Questi fenomeni – invece che risolversi – si sono consolidati con l’avvento del ciclo unico quinquennale, inevitabile punto di arrivo dei goffi sommovimenti della didattica.
Credo che gli studenti avvertano ora il corso di laurea come una vera corsa a ostacoli, in cui non si distingue materia da materia ma contano soltanto i numeri e la progressione. Tenere il ritmo è l’imperativo che domina. Lo sforzo è soprattutto muscolare.
Alla frantumazione degli insegnamenti ha fatto sponda la crisi della manualistica, tradizionalmente pensata sulla materia più che sulla didattica. Lo studente percepisce che l’ostacolo – ogni ostacolo, senza distinguere – può essere superato con strumenti di “conoscenza pratica” alternativi al manuale classico. Sempre più spesso ci si rivolge a fonti idonee al superamento dell’esame, più che a garantire la conoscenza sistematica e completa della materia.
Anche perché – transitiamo verso un altro fattore fortemente critico – lo studente sa che, per superare i concorsi (ma parliamo soprattutto di quello per la magistratura), dovrà affrontare una diversa preparazione cui fanno da supporto manualistiche, allenamenti e informazioni diversi.
Tra il diploma di laurea e il concorso in magistratura c’è una terra di nessuno in cui faticano a trovare cittadinanza sia le SSPL, sia il tirocinio del cd. “decreto del fare”. È in questo luogo che proliferano le scuole private, auto-investitesi per fini di ottimo profitto di quella formazione “specialistica” il cui obiettivo è il superamento del concorso. Formazione e “informazioni”, sovente propalate con tecnica da insider, sono vocate alla realizzazione di questo solo risultato. Ma il costo è elevato, e non soltanto in termini di denaro.
L’analisi dei temi assegnati per le prove scritte del concorso fotografa l’anomalia: mentre, prima, la scelta degli argomenti privilegiava le preparazioni accademiche e manualistiche; ora, conta soltanto la conoscenza del caso, la cronaca, l’ultima decisione della Cassazione. La traccia che si può “indovinare” – i tenutari delle scuole private hanno grandi palle di vetro – con un setaccio dei casi degli ultimi cinque-dieci anni.
Questo sistema proietta la preparazione lungo la prospettiva di anni. Il diploma di laurea è solo il gradino iniziale di una lunga scala, che forse non tutti possono permettersi di percorrere.
È giusto fare dei nostri giovani laureati il terreno di caccia di giuristi-imprenditori privati?
Se l’accesso in magistratura è divenuto questo, va preso atto che è il caso di cambiare.
Occorre tornare a un sistema in cui il reclutamento dei giovani magistrati non avvenga alla soglia dei trent’anni.
Occorre riconoscere che il concorso non è tutto; anzi, allo stato, rischia di essere il trionfo del caso o del censo: conta il curriculum, la pratica, la prova che si possa offrire circa il possesso del fascio di buone qualità che compongono le caratteristiche del magistrato. Essere un buon giurista non è sufficiente per essere un buon magistrato.
Come ogni professione, quella del magistrato si impara con l’esercizio.
Occorre privilegiare la formazione in sedi pubbliche, facendo della Scuola anche uno strumento di accesso.
In ogni caso, è ora di iniziare a discuterne seriamente.