Il libro Being a judge in the modern world (Oxford University Press, 2017) è una raccolta di quindici scritti che rielaborano le lezioni tenute da magistrati, avvocati e giornalisti presso il Judicial College, un organismo costituito nel 2011 (sulla base di un precedente ufficio, il Judicial Studies Board, operante dal 1979) chiamato a fungere da scuola per la magistratura nel Regno Unito.
Queste lezioni si sono sviluppate nell’ambito del Judicial College Academic Programme, concepito dallo Judicial College proprio al fine di creare uno spazio di riflessione per i giudici del Regno Unito sulla loro vita professionale.
La raccolta è curata da Jeremy Cooper, professore di legge al Southampton Institute, che è stato direttore del Judicial College dalla sua istituzione fino al 2016 insieme a John Phillips.
Il quadro che si trae da questi interventi riguardanti un sistema giudiziario (paragonabile per proporzioni a quello italiano, contando 3200 giudici e 6000 magistrates) molto attento alla rapidità delle procedure e all’introduzione delle moderne tecnologie, teso ad agevolare l’accesso alla giustizia, preoccupato essenzialmente della protezione dei diritti umani.
Il saggio prende l’avvio con le considerazioni del Lord Chief Justice, Lord Judge, che offre una affascinante riflessione dei cambiamenti che si sono verificati, durante la sua vita, nel campo del diritto.
«Essere un giudice nel mondo contemporaneo vuol dire, in sostanza, che i giudici dovrebbero comprendere la modernità, non per seguire l’ultima moda o tendenza perché queste sono effimere e di poco momento ma perché dove il cambiamento effettivo si manifesta, il sistema giudiziario deve comprenderlo, rappresentarlo e rispondere ad esso».
E Lord Judge è piuttosto chiaro sul dovere morale del giudice contemporaneo di mettere in pratica questa comprensione: i giudici devono essere consapevoli delle realtà pratiche del mondo nel quale vivono e devono comprendere le realtà con le quali coloro che si presentano nelle aule di giustizia hanno a che fare.
Particolarmente interessanti le considerazioni di Lord Judge sviluppate durante un suo intervento alla Cardiff University Law School nel febbraio 2013:
«Quale forma di tecnologia non ancora sviluppata e che noi ignoriamo arriverà a cambiare la faccia dell’amministrazione della giustizia? Io non lo so e non lo sapete neppure voi. Ma di una cosa possiamo essere certi, si tratterà di cambiamenti sconvolgenti che avranno un impatto sconvolgente sui processi. Possiamo essere altrettanto certi che le nostre moderne tecnologie saranno obsolete nel 2025, se non prima. Possiamo ancora andare avanti con le nostre prassi vetuste? Certamente si tratta di prassi che abbiamo sperimentato nel tempo e che meritano il nostro apprezzamento ma queste prassi non sono state ancora messe a confronto con le possibilità offerte dalle moderne tecnologie. E allora come potranno i giudici dei tempi moderni ed il sistema giudiziale riuscire ad affrontare questo fenomeno straordinario ma ancora sconosciuto?».
«Noi dobbiamo affrontarlo – prosegue Lord Judge – non possiamo ignorarlo così come non possiamo ignorare ogni altro aspetto della società. È come una marea, che arriva e riempie ogni angolo della società. Salute, istruzione, governo, affari qualunque cosa ci interessi non richiede soltanto l’attuale tecnologia, ma richiede una visione circa l’utilizzo di esso e la possibilità di sviluppare l’amministrazione della giustizia. Ancora, noi dobbiamo essere attenti a non seguire l’ultima moda o l’ultimo capriccio, ma abbiamo il dovere di valutare se gli strumenti processuali con i quali siamo stati abituati per generazioni possono essere compatibili con l’ausilio della moderna tecnologia, senza diminuire la qualità della giurisdizione».
La chiarezza di visione mostrata da Lord Judge è ugualmente presente nel contributo del suo successore, Lord Thomas (Lord Chief Justice dal 2013 al 2017). Il tema che Lord Thomas sviluppa come sua priorità è in che modo i giudici devono governare e attuare il processo di riforma. Lord Thomas ribadisce il principio che la separazione dei poteri richiede che il potere giudiziario faccia la sua parte come apparato dello Stato: «Se la magistratura svolge il ruolo che le è proprio nell’assicurare l’efficienza e l’effettività dell’amministrazione della giustizia e così nel concorrere ad assicurare l’uguaglianza di fronte alla legge, allora la magistratura non può che svolgere un ruolo attivo nel processo di riforma. Ha il dovere di farlo».
Nel capitolo 13, Lord Thomas sottolinea che «la centralità della giustizia attraverso un sistema giudiziario indipendente è la base sulla quale poggia la democrazia, la prosperità, l’equità e lo stato di diritto nelle nostre società sempre più variegate».
Seguono, poi, una serie di interventi tenuti da soggetti che, a vario titolo, possono essere definiti “osservatori esterni” del sistema giudiziario.
Shami Chakrabarti è uno dei più famosi avvocati del Regno Unito nel campo dei diritti civili, la quale, pur sottolineando che la magistratura anglosassone gode del favore dell’opinione pubblica, osserva che «l’analfabetismo costituzionale» è uno dei maggiori problemi del sistema giudiziario del Regno Unito.
Joshua Rozenberg, solicitor e analista della BBC, enuclea le qualità del giudice moderno: «Prima di tutto, il Giudice deve essere capace di prendere una decisione. In secondo luogo, il Giudice deve essere in grado di prendere decisioni che sono profondamente spiacevoli e che hanno conseguenze molto serie. Terzo, il Giudice è sempre più coinvolto in quella che può essere descritta come amministrazione. Infine, il Giudice deve avere la fortezza di prendere decisioni che non saranno popolari tra l’opinione pubblica e non incontreranno il favore dei media e della classe politica. La fortezza calma (quiet fortitude): un requisito del giudice moderno».
Egli riconosce che essere un giudice nei tempi moderni è tutt’altro che facile e «coloro che esercitano questa professione meritano la nostra ammirazione e il nostro rispetto».
Molto interessanti sono le considerazioni sui rapporti tra giudici e media svolte da Alan Rusbridger, direttore del Guardian per dieci anni dal 1995.
Rusbridger sottolinea l’importanza per la magistratura di dotarsi di un adeguato ufficio stampa e di sviluppare adeguate tecniche di comunicazione delle decisioni all’opinione pubblica.
Desiree Bernard è stata la prima giudice donna dei Caraibi ed è stata componente della Corte suprema della Guyana. La Bernard, nel raccontare la sua esperienza di giudice donna nel mondo caraibico, sottolinea che «la mancanza di tecnologie avanzate riduce la capacità delle corti di amministrare la giustizia in maniera tempestiva».
Gli ultimi due saggi affrontano due temi che sono centrali nell’analisi del ruolo del giudice nei tempi moderni.
Brenda Hale è un giudice della Corte suprema del Regno Unito. Nel suo intervento, la Hale si sofferma sull’importanza della «diversità» all’interno della magistratura.
Chiude il saggio l’intervento di Lord Justice Laws, giudice della Corte suprema, che si domanda, dal punto di vista del giurista di common law, se i giudici debbano fare le leggi.
La risposta, decisamente affermativa, si fonda sulla considerazione che, nel sistema di common law l’interpretazione e l’applicazione della legge formano un tutt’uno con la sua creazione, perché i giudici svolgono un’opera di mediazione tra l’attività legislativa del Parlamento e il popolo di modo tale che, per quanto possibile, la legge si conformi ai principi costituzionali di cui le corti sono custodi.
Parlando del rapporto dei giudici con la legge scritta, Lord Justice Laws evoca il suggestivo passaggio del Fedro nel quale Platone fa dire a Socrate: «La scrittura, davvero come la pittura, ha qualcosa di terribile: infatti la sua progenie ci sta davanti come se fosse viva, ma, se le si chiede qualcosa, rimane in un maestoso silenzio. Allo stesso modo fanno i discorsi: si crederebbe che parlassero, come se pensassero qualcosa, ma se per desiderio di imparare si chiede loro qualcosa di quello che dicono, comunicano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta messo per iscritto, ogni discorso circola per le mani di tutti, tanto di chi l'intende quanto di chi non c'entra nulla, né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato e offeso ingiustamente, ha sempre bisogno dell'aiuto del padre perché non è capace né di difendersi né di aiutarsi da sé». (Platone, Fedro, 274 c-276, in Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 790–792).