Chi osservi le splendide linee della Corte suprema del Pakistan non può mancare di notare che in esse si fondono due linguaggi architettonici ben distinti.
L’autore, il maestro giapponese Kenzo Tange, ha fuso, nei chiari ed imponenti volumi, un modernismo misurato a stilemi e significati tipici del mondo islamico. All’utente, al cittadino che vi si avvicini per farvi ingresso, l’edificio appare come un grande libro aperto: è il Libro (kitāb) per eccellenza del mondo islamico, il Corano (Kitāb Allah), fonte di ogni regola, civile e morale ma anche centro spirituale e guida del musulmano.
All’epoca della realizzazione (siamo a metà degli anni Sessanta) esso esprimeva pienamente, secondo lo spirito del tempo, quella fusione di tradizione e modernità che avrebbe consentito al Paese di recente indipendenza di trovare la propria strada nel consesso delle Nazioni ed avrebbe illuminato un futuro di pace e prosperità.
In questa visione, la modernità si sarebbe sviluppata nel rispetto della tradizione, destinata a costituire lo scenario, lo sfondo ispiratore delle riforme che avrebbero portato il Pakistan, come tanti altri Paesi che nella stessa decade o in quelle successive emergevano dal processo di decolonizzazione, allo sviluppo ed alla completa emancipazione.
Erano le idee del mondo in quei decenni, la fede nelle sorti progressive dell’umanità, declinate anche attraverso il linguaggio condiviso del diritto.
La Corte suprema di Islamabad, così come l’edificio destinato ad accoglierla, era in sostanza uno statement, una dichiarazione d’intenti, una promessa rivolta alle nuove generazioni di cittadini.
Cinquant’anni dopo, ci si deve chiedere se la promessa sia stata mantenuta.
Il caso di Asia Bibi, la donna di fede cristiana processata per blasfemia nel Paese asiatico, costituisce un ottimo test case.
La vicenda ha avuto eco anche nella stampa e televisione italiana e, più in generale, nei media internazionali. La notizia, almeno in Italia, è stata data in forma succinta, cosicché aspetti fondamentali risultano poco chiari.
In primo luogo, non è stato chiarito in che cosa sia consistita la dichiarazione o l’atto blasfemo.
Quel che si sa è che la donna, assieme ad altre braccianti, provenienti dallo stesso villaggio ma di fede musulmana, avrebbe provocato l’ira delle compagne di lavoro offrendo loro una tazza d’acqua, dopo averne bevuto ella stessa un sorso. Le donne, indispettite dal gesto, che consideravano improprio da parte della fedele di una religione considerata “inferiore”, avrebbero domandato a Bibi di convertirsi. A questo punto, le narrazioni divergono: secondo una prima versione sarebbe seguito uno scambio di insulti e, a distanza di qualche giorno, una (falsa) accusa di blasfemia da parte di due compagne di lavoro, indispettite dalla reazione di Asia; secondo un diverso resoconto, l’invito alla conversione avrebbe provocato la risposta della donna cristiana offesa, con le seguenti parole: «Il mio Dio è morto sulla croce per salvare l’umanità; cosa ha fatto il vostro Allah?».
Tanto sarebbe bastato a giustificare l’accusa di blasfemia secondo l’art. 295-C del Codice penale pakistano che recita: «Chiunque con parole, pronunciate o scritte, o con ogni rappresentazione visibile, accusa, allusione o insinuazione, direttamente o indirettamente macchia il sacro nome del Santo Profeta Maometto (pace sia su di lui) sarà punito con la morte o con l’ergastolo e sarà anche punito con una multa».
Per quanto l’allusione ritenuta offensiva fosse rivolta ad Allah (e non al Profeta Maometto, come letteralmente richiesto dalla norma) la donna è stata giudicata responsabile e condannata alla pena capitale nel 2010, con sentenza confermata dalla Corte d’appello di Lahore nel 2014.
Il poco che è dato sapere delle decisioni di merito viene dalla lettura della sentenza della suprema Corte del Pakistan che le ha poste nel nulla (o meglio di lato, set aside per usare il termine inglese utilizzato nel dispositivo della sentenza della Corte suprema) e che ha conseguentemente assolto Asia Bibi, ordinandone l’immediata liberazione. Si tratta dell’ultima istanza giudiziale del Paese, un terzo grado di giurisdizione; eppure la decisione non è limitata a questioni di diritto (Protection of legality) ma costituisce un terzo giudizio sul fatto, con una valutazione del materiale probatorio estremamente approfondita.
Subito sotto l’intestazione, dove ci si potrebbe aspettare di trovare qualcosa come “In nome del popolo”, vi è, al centro ed in grassetto, la shahāda (شهادة), la formale dichiarazione di fede che ogni musulmano deve fare per professare e manifestare pubblicamente la propria fede («Testimonio che non c’è altro Dio che Allah e testimonio che Maometto è l’ultimo Profeta di Allah»). Essa è citata come principio del ragionamento giuridico. Le successive otto pagine (su 34) sono una elaborata (e sovrabbondante, secondo degli standard redazionali occidentali) illustrazione di principi della religione islamica, con citazioni del Corano e di autorità nell’interpretazione del testo sacro. Con ciò, la Corte fornisce una giustificazione della criminalizzazione della blasfemia, e delle estreme sanzioni previste in caso di condanna, che giungono alla pena di morte. In tal senso, si legge nella sentenza (pagina 3) che «Non si può assolutamente negare che il profeta Maometto detenga il massimo rispetto, prestigio e dignità presso la Comunità Musulmana e che egli possegga il più alto grado e stato in rapporto a tutte le altre creature formate dall’altissimo Allah, anche i Profeti di Allah che sono venuti prima di lui. La sua straordinaria dimostrazione di valori morali estremamente nobili e del suo ruolo personale di altissimo esempio, produttivo di enorme effetto sul corso della storia, come riconosciuto da nemici e amici in eguale misura, giustamente merita e domanda il massimo rispetto ed onore». Dopo una elaborata serie di citazioni di testi sacri che occupano le successive cinque pagine e che sono intese a dimostrare la necessità della severa punizione della blasfemia, la Corte, ponendo le basi della propria decisione nel merito, osserva tuttavia che «se la nostra religione dell’Islam è molto severa nei confronti dei blasfemi, allora l’Islam è altrettanto severo con chi promuove false accuse. È pertanto un dovere per la repubblica Islamica del Pakistan assicurare che nessun innocente debba affrontare un giudizio sulla base di false allegazioni».
Ecco aperta la strada per il passaggio successivo, l’esposizione delle prove nella prospettiva della assoluzione, che occupa numerose pagine a seguire. Pagine nelle quali, è bene chiarire, non si trova mai riferita la frase o l’allusione blasfema contestata, quasi per il timore che la ripetizione, anche in un documento ufficiale, costituisca a sua volta atto di blasfemia.
La sentenza è assai dettagliata nella esposizione delle testimonianze delle due principali accusatrici e nell’individuazione delle contraddizioni che le connotano. Vi è la palpabile consapevolezza (addirittura espressa in alcuni passaggi, con nettezza e audacia) che l’accusa per blasfemia, con le gravi conseguenze che essa comporta in caso di condanna, corra il rischio di essere utilizzata strumentalmente, per regolare conti personali o per intimidire le minoranze. Ed è proprio a tale conclusione che, in definitiva, la Corte perviene nelle pagine finali, dove, richiamati il principio della presunzione di innocenza e lo standard di prova del processo penale, si afferma che «la pubblica accusa ha categoricamente fallito la prova del caso al di là del ragionevole dubbio». L’ultimo paragrafo della sentenza, prima del dispositivo, riporta un ḥadīth (racconto a contenuto morale e pedagogico sulla vita di Maometto o frase riferita al profeta), a fungere da suggello della decisione e da monito alla tutela delle minoranze religiose: «Attento! Chiunque sia crudele e duro contro una minoranza non-Musulmana, o ne limiti i diritti (…) Io (Maometto) mi lamenterò con lui nel Giorno del Giudizio».
Come nelle architetture del palazzo della Corte suprema ove la sentenza è stata pronunciata, nella motivazione si possono riconoscere nitidamente due distinti linguaggi.
Sono gli stessi che hanno ispirato Kenzo Tange nella redazione del progetto: vi è, per molti aspetti, una visione moderna del diritto, orientata al rispetto dei diritti umani e consapevole della tradizione processuale occidentale (di common law, fondamentalmente) ma lo scenario in cui essa deve muoversi è indubbiamente ancorato alla tradizione coranica, interpretata come fonte di ogni conoscenza e come base della società, vera e propria ispiratrice del diritto. Il Corano viene inteso come un programma integrale di vita del musulmano e della comunità in cui egli vive (umma).
È un ambiente culturale nel quale i giudici della Corte dimostrano di muoversi con circospezione ma anche con estremo coraggio, consapevoli del ruolo e delle conseguenze che la decisione di annullare la condanna a morte avrebbe comportato.
Non si deve dimenticare che la pubblicazione della sentenza è stata differita di tre settimane a seguito delle preannunciate proteste e delle minacce di morte rivolte ai giudici da parte di “attivisti anti-blasfemia” nell’ipotesi in cui la condanna a morte di Bibi non fosse stata confermata.
Si è inoltre appreso dai telegiornali e dalla stampa che in diversi distretti (a Lahore in particolare), a seguito della pronuncia della sentenza di assoluzione sono scoppiate violente proteste di piazza con esplicite richieste che Asia Bibi venisse lasciata alla folla che avrebbe dato esecuzione alla pena di morte.
Uno dei fondatori del partito politico TLP (Tehereek-e-Labbaik, Qui io sono, frase usata nella preghiera islamica) il cui principale punto nel programma è l’inflessibile applicazione dell’articolo 295-C del codice penale, ha pubblicamente affermato che il presidente della Corte suprema e gli altri due giudici dovrebbero essere ammazzati e che «le loro guardie del corpo, o gli autisti o anche i loro cuochi dovrebbero ammazzarli», ciò che suona, più che una minaccia, un vero e proprio mandato ad uccidere, in un Paese in cui il governatore della provincia del Punjab, Salmaan Taseer ed il ministro delle minoranze, Shahbaz Bhatti sono stati uccisi nel 2011 dalle rispettive guardie del corpo per essersi spesi in difesa di Bibi ed aver richiesto la riforma dell’art.295-C del codice penale.
È intervenuto anche il Governo che, dopo un iniziale invito a rispettare la decisione e l’autorità della suprema Corte che l’aveva pronunciata, il 2 novembre ha ceduto alle proteste di piazza e alla pressione del TLP, concordando, in cambio della cessazione dei disordini, il rilascio degli attivisti che erano stati arrestati nonché la presentazione di una istanza giudiziale di natura cautelare diretta ad impedire alla donna di lasciare il Paese (una sorta di divieto di espatrio ex art. 281 cpp) fino alla decisione sulla richiesta di revisione della assoluzione, contestualmente proposta.
La decisione del governo di venire a patti con i dimostranti a scapito dell’autorità giudiziaria e della decisione assunta è stata criticata nella stampa occidentale e da diversi commentatori come un segno di crisi della Rule of law (che, più dello Stato di diritto, costituisce il modello di riferimento essendo il Pakistan una ex colonia britannica), oltre che una ferita irrimediabile ai diritti umani nel Paese asiatico.
Ancor prima, occorre prendere atto che il linguaggio e la concettualizzazione dei diritti umani, traendo origine dall’irruzione del nominalismo nella cultura umanistica occidentale (Michel Villey, Formazione del pensiero giuridico moderno) e presupponendo l’idea di persona maturata nell’ambito del cristianesimo a seguito delle diatribe cristologiche del V secolo (M. Diez, Chi sono i cristiani in Medio Oriente: una guida), stenta ad essere compresa in un ambiente culturale fondato su principi profondamente diversi, in cui la prevalenza è data alla comunità dei fedeli (la umma) piuttosto che all’individuo.
Va pertanto ammirato il coraggio dimostrato dai colleghi della Corte suprema del Pakistan ed in particolare dal suo presidente, Mian Sabiq Nisar che ha redatto la leading opinion nel caso Bibi, impegnando la sua autorevolezza e quella di tutta la Corte.
Utilizzando linguaggi giuridici diversi, talora difficilmente conciliabili, essi si impegnano, a rischio della propria vita, in un cammino di conciliazione e tolleranza che ci consente di affermare che, nonostante tutto, c’è dunque un giudice ad Islamabad!