1. I fatti
Il ricorso Mutu. Nell’agosto 2003, Adrian Mutu, calciatore professionista attivo nel campionato italiano di serie A, fu ceduto per la somma di 26 milioni di euro al Chelsea, squadra iscritta alla Premier League inglese. Nell’ottobre 2004, il calciatore risultò positivo ad una sostanza stupefacente, ragione che spinse il Chelsea a porre fine al contratto con il calciatore. La Commissione dei ricorsi della Premier League inglese (la FAPLAC), adita dalla società e dal giocatore, concluse che il comportamento del giocatore integrava un’ipotesi di «recesso unilaterale» del contratto senza giusta causa, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 21 del regolamento della FIFA.
Il 15 dicembre 2005, il Tribunale arbitrale dello sport (il TAS) [1], su ricorso del calciatore, confermò l’interpretazione della FAPLAC. Il presidente del TAS fu in quell’occasione D.-R. M., avvocato tedesco.
L’anno successivo, il calciatore fu condannato dalla Commissione per la risoluzione dei litigi della FIFA a pagare al Chelsea una somma di poco superiore a 17 milioni di euro, a titolo di risarcimento danni. Contro tale decisione il giocatore fece di nuovo ricorso al TAS. Nelle more del procedimento, ricevuta comunicazione dell’identità dell’arbitro nominato dal Chelsea, l’avvocato D.-R.M., Adrian Mutu presentò un’istanza di ricusazione, trattandosi dello stesso arbitro che aveva fatto parte della formazione del TAS che si era pronunciato nei suoi confronti il 15 dicembre 2005. L’istanza fu rigettata, così come il suo ricorso davanti al TAS, il 31 luglio 2009.
Il 10 giugno 2010, il Tribunale federale svizzero confermò la decisione del TAS giudicando che tale organismo arbitrale poteva considerarsi «indipendente e imparziale».
Il ricorso Pechstein. Il 6 febbraio 2009, Claudia Pechstein, pattinatrice professionista, subì un controllo antidoping nel corso dei campionati mondiali di categoria. Il 18 febbraio successivo l’atleta risultò positiva ad un secondo controllo antidoping. La Commissione disciplinare dell’International Skating Union(ISU) sospese l’atleta per un periodo di due anni.
Contro questa decisione, la ricorrente e la società sportiva di appartenenza (la Deutsche Eisschnelllauf-Gemeinschaft) presentarono un ricorso davanti al TAS. In particolare, Pechstein chiese senza successo un’udienza pubblica. Il 25 novembre 2009, il TAS confermò la sospensione di due anni. La ricorrente fece allora ricorso davanti al Tribunale federale svizzero, denunciando la mancanza d’indipendenza e d’imparzialità del TAS e l’assenza di un’udienza pubblica. Il 10 febbraio 2010, il ricorso fu rigettato.
2. La sentenza Mutu e Pechstein c. Svizzera, nn. 40575/10 e 67474/10, 2 ottobre 2018
Conviene porre preliminarmente l’accento sul fatto che la Corte ha avuto l’occasione, con questa sentenza, di dedicarsi al tema della “giustizia sportiva”, ambito nel quale la questione della protezione dei diritti dell’uomo resta per diversi aspetti delicata [2] e periferica, riflesso dell’oramai assodata indipendenza e autonomia dello sport, della peculiarità e della tecnicità della “giustizia sportiva” e, quindi, del limitato intervento della giustizia statale.
Il primo motivo d’interesse di questa pronuncia è certamente quello riguardante l’applicabilità dell’articolo 6. La Corte ha infatti potuto sgomberare il campo da dubbi circa la sua applicabilità alle procedure arbitrali sportive, sottolineando la chiara natura “civile” dei diritti in gioco: il carattere patrimoniale del contenzioso legato al rapporto contrattuale fra privati per Mutu; la sospensione dell’attività professionale a seguito di sanzione disciplinare per Pechstein. Una volta affermata l’applicabilità generale dell’articolo 6, la Corte passa a determinare quali garanzie dell’equo processo si applichino nel caso concreto.
Indipendenza e imparzialità del TAS
Partendo dalla prima doglianza [3], la Corte ricorda innanzitutto che il «diritto ad un tribunale» [4] non impone alle parti la sola via delle giurisdizioni «ordinarie» ma anzi riconosce la possibilità di scegliere istanze alternative di tipo arbitrale per dirimere controversie di natura patrimoniale, approccio consolidato per l’arbitrato commerciale, anche nel settore dello sport professionistico. La Corte richiama in tal senso i vantaggi derivanti dalla possibilità di dirimere controversie aventi una dimensione internazionale da parte di una giurisdizione specializzata. Secondo la Corte «il ricorso ad un tribunale arbitrale internazionale, unico e specializzato, favorisce una certa uniformità procedurale e rafforza la certezza del diritto. Ciò è ancor più vero poiché le sentenze di questo tribunale possono essere impugnate davanti alla giurisdizione suprema di un solo paese, il Tribunale federale svizzero, che decide in ultima istanza».
La Corte procede poi all’esame della scelta della procedura arbitrale per determinare se questa sia stata imposta o meno ai ricorrenti. A questo proposito, occorre riprendere la distinzione che fa la Corte fra forme di arbitrato obbligatorio e forme di arbitrato risultanti dalla libera scelta delle parti. Nel primo caso, le garanzie proprie dell’equo processo si applicano in blocco all’arbitrato, trattandosi di una procedura che s’impone alla volontà delle parti, impedendo loro l’esercizio dell’azione innanzi alle giurisdizioni statali. Nel caso invece di arbitrato «volontario», atteso un consenso delle parti libero, lecito e inequivoco, la Corte accetta che l’accordo fra le parti possa comportare la rinuncia ad alcuni dei diritti propri dell’equo processo, purché il nucleo fondamentale delle garanzie dell’articolo 6 sia assicurato.
Applicando questi criteri alle due procedure, nel ricorso Pechstein la Corte rileva come l’applicazione delle norme dell’ISU abbia escluso, di fatto, la libera scelta della pattinatrice. Imponendo a tutti gli atleti professionisti il ricorso al TAS per le controversie riguardanti le procedure disciplinari, pena l’esclusione dalle competizioni internazionali, la ricorrente si è trovata di fronte ad un dilemma: accettare la clausola arbitrale e poter esercitare il pattinaggio come professionista o rifiutare la clausola e non poter accedere ad alcuna manifestazione internazionale, rinunciando quindi alla sua carriera sportiva? Secondo la Corte, tale situazione ha inciso irrimediabilmente sulla libertà del consenso della ricorrente, alla quale è stato di fatto imposto l’arbitrato.
Per quanto riguarda invece Adrian Mutu, la Corte, pur considerando liberamente prestato il consenso del calciatore, rileva come questo non fosse inequivoco quanto alla rinuncia alle garanzie d’indipendenza e d’imparzialità dell’organo arbitrale, avendo egli chiesto la ricusazione dell’arbitro nominato dal club del Chelsea.
Accertata quindi la mancanza di rinuncia, per entrambi i ricorrenti, delle garanzie d’indipendenza e d’imparzialità del tribunale, la Corte passa ad analizzare in concreto le procedure davanti al TAS.
Per quanto riguarda Claudia Pechstein, si ricorda che la ricorrente lamentava in particolare un disequilibrio fra atleti e federazioni sportive, a favore di queste ultime, nel meccanismo di nomina degli arbitri vigente all’epoca.
La Corte, pur rilevando l’impossibilità per la ricorrente di nominare un arbitro non incluso nella lista elaborata dal Consiglio internazionale dell’arbitrato in materia sportiva (CIAS), osserva che questa lista all’epoca comprendeva circa 300 persone, offrendo quindi una scelta abbastanza ampia. Inoltre, pur ammettendo l’influenza delle federazioni sportive nella formazione della lista e quindi il ruolo assunto da tali organizzazioni, suscettibili d’opporsi agli atleti nell’ambito dei litigi portati davanti al TAS, la Corte giudica che tale circostanza non sia di per sé stessa, ed in assenza di argomenti a contrario presentati dalla ricorrente, suscettibile di mettere in dubbio l’indipendenza e l’imparzialità degli arbitri.
Passando al ricorso Mutu, la Corte rigetta la doglianza del ricorrente sull’imparzialità dell’arbitro D.-R. M., presente nelle composizioni del TAS del 2005 e del 2009. La Corte ricorda che per giudicare se esista una ragione legittima di dubitare dell’imparzialità dell’arbitro, il punto essenziale è quello di determinare se i fatti all’origine delle procedure contestate siano identici e se le questioni giuridiche siano analoghe. Manca qui la seconda circostanza: nel 2005 il TAS fu chiamato a interpretare la norma relativa al «recesso unilaterale», mentre nel 2009 dovette valutare se le disposizioni riguardanti il risarcimento dei danni erano state correttamente applicate.
Pubblicità dell’udienza
La doglianza riguardante il diritto alla pubblicità delle udienze è stata presentata dalla sola Claudia Pechstein [5]. La Corte ricorda in primo luogo come tale garanzia si applichi anche alle procedure disciplinari o deontologiche, la parte potendo tuttavia liberamente rinunciare all’esercizio di tale diritto.
La Corte enumera i diversi aspetti che rilevano per la sua decisione: si è in presenza di un «arbitrato forzato»; la ricorrente aveva espressamente chiesto un’udienza pubblica; i fatti all’origine della sanzione disciplinare erano controversi, tant’è che numerosi consulenti erano intervenuti nel corso della procedura; la stessa sanzione era suscettibile di recare pregiudizio all’onorabilità professionale e al prestigio della ricorrente. La Corte considera che l’insieme di queste circostanze giustificava la previsione di un’udienza pubblica e conclude quindi per la violazione, all’unanimità, dell’articolo 6 della Convezione.
3. Tempi supplementari?
A chiusura di questa breve nota, non si può non richiamare l’attenzione del lettore sull’opinione dissenziente dei giudici Keller e Serghides [6], in cui sono indicate le ragioni addotte dai due giudici a sostegno della tesi secondo cui il TAS non offrirebbe le garanzie d’indipendenza e d’imparzialità proprie dell’articolo 6 della Convenzione.
Gli elementi del caso che i due giudici evidenziano sono in realtà gli stessi presi in considerazione dalla maggioranza, e cioè l’effettiva influenza delle federazioni sportive internazionali nei meccanismi di nomina dei membri del CIAS e l’influenza del CIAS nella composizione della lista di arbitri.
Sbaglierebbe tuttavia la maggioranza, a parere dei due giudici, nella lettura di queste circostanze, ovvero nel considerare che la ricorrente non abbia dimostrato le conseguenze di tale influenza in concreto, in altre parole la mancanza d’indipendenza e d’imparzialità per ciascuno degli arbitri del collegio arbitrale o per la maggioranza dei componenti della lista da cui gli arbitri sono scelti di volta in volta (si veda il paragrafo 157 della sentenza).
Ciò perché, ed è questo l’aspetto centrale della lettura dei giudici di minoranza, le critiche della ricorrente sono «oggettivamente giustificate» e mettono in luce le carenze strutturali del TAS, sollevano cioè dubbi circa la sua imparzialità oggettiva e la sua indipendenza. Non importa quindi che i singoli giudici siano imparziali se la struttura in cui operano manca di quell’apparenza d’indipendenza e d’imparzialità centrale nell’architettura dell’articolo 6 della Convenzione.
In conclusione, i due giudici dissenzienti affermano che le questioni riguardanti l’indipendenza e l’imparzialità del TAS sollevano «gravi problemi d’interpretazione o di applicazione della Convenzione (…) o comunque un’importante questione di carattere generale». Richiamando così l’articolo 43 § 2 della Convenzione, i giudici sembrano voler attirare l’attenzione delle parti sull’opportunità di presentare al Collegio della Grande Camera una domanda di rinvio per permettere alla composizione suprema della Corte di pronunciarsi sul rapporto fra «equo processo» e arbitrato sportivo.
Forse, per i due sportivi, la partita non è ancora finita.
[1] Il Tribunale arbitrale dello sport; con sede a Losanna, è stato creato per dirimere le controversie nate nel settore dello sport internazionale, in materia contrattuale e disciplinare. Garante dell’indipendenza del TAS è il Consiglio internazionale dell’arbitrato in materia sportiva (CIAS), fondazione indipendente di diritto privato che ne assume anche l’amministrazione e il finanziamento. Le sentenze del TAS possono essere impugnate davanti al Tribunale federale svizzero.
[2] Si veda il paragrafo 79 in cui il governo svizzero evoca il rischio che il TAS possa decidere di spostare la propria sede per sottrarsi al sindacato della Corte, e la “risposta” pro futuro della Corte al paragrafo 99.
[3] Entrambi i ricorrenti si sono lamentati della mancanza d’indipendenza e d’imparzialità del TAS.
[4] Vale la pena di ricordare che il «diritto ad un tribunale» è implicitamente riconosciuto dall’articolo 6 della Convenzione: si tratta di un diritto logicamente preordinato al godimento dei diritti che compongono «l’equo processo». Senza l’acceso ad un tribunale, non posso invocare la protezione dei numerosi diritti legati alla nozione di equità nella sua accezione convenzionale.
[5] La ricorrente si lamenta del rifiuto di tenere un’udienza pubblica nella procedura davanti al TAS.
[6] Si invita a leggere l’opinione dissenziente dei giudici Keller e Serghides sul ricorso Pechstein.