Nella sessione dedicata ai diritti delle persone migranti e rifugiate tenutasi a Palermo dal 18 al 20 dicembre scorso, il Tribunale permanente dei popoli, sotto la presidenza di Franco Ippolito, dando seguito ad un atto di accusa presentato da ben 96 associazioni e ong italiane, ha condannato senza mezzi termini le politiche italiane ed europee in materia di immigrazione e asilo. La decisione, proveniente da un tribunale di opinione, non rigorosamente condizionato alle fattispecie penali di diritto positivo di origine nazionale o internazionale, è interessante perché rappresenta un’aperta denuncia che matura in un clima di crescente sfiducia verso “l’altro” e di progressiva deresponsabilizzazione nei confronti di un dramma umano che si consuma ormai senza sosta.
Il quadro di riferimento è noto. Le politiche di esternalizzazione del controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione attuate con il supporto politico ed economico dell’Unione europea da alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, hanno finito con l’avallare documentati metodi di violenza, tortura e schiavitù che sistematicamente si consumano nei Paesi di origine e di transito a danno dei migranti. Ciò su cui pare doveroso richiamare l’attenzione, come del resto fa lo stesso Tribunale, sono le modalità con cui le suddette politiche vengono attuate, che hanno effetti sia sul piano interno, ove andrebbe apprezzata la loro trasparenza e democraticità, sia su quello internazionale, ponendosi la questione di un’eventuale responsabilità diretta o indiretta dell’Ue e degli Stati membri per le violazioni dei diritti umani patite da migranti e richiedenti asilo.
Quanto al primo profilo, gli accordi o, molto più spesso, “memorandum d’intesa” con i principali Stati di origine e transito dei migranti, firmati nel quadro del Processo di Khartoum (2014) e sollecitati dall’Agenda europea per l’immigrazione (2015), sfuggono a un pieno controllo democratico. Difatti, se a livello europeo essi sono spesso qualificati come atti di soft-law, con conseguente impossibilità di potervi esercitare un controllo giurisdizionale (come sembra chiaramente indicare il Tribunale dell’Unione europea a proposito dello Statement tra Ue e Turchia del 18 marzo 2016 nelle ordinanze del 28 febbraio 2017, cause T-192/16, T-193/16 e T-257/16), in Italia i memorandum d’intesa vengono presentati come protocolli operativi senza alcun tipo di intervento da parte del Parlamento. Eppure, stante il disposto dell’art. 80 Cost., si potrebbe dubitare della legittimità costituzionale di accordi del genere per la loro rilevanza politica e finanziaria: si pensi, a tal proposito, al Memorandum stipulato nel 2016 dall’Italia con il Sudan di Omar al-Bashir, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, o al Memorandum del 2 febbraio 2017 firmato dal presidente del Consiglio Gentiloni e Serraj, presidente di un ancora precario Governo di riconciliazione nazionale in Libia (si vedano sul punto le osservazioni di F. Vassallo Paleologo pubblicate su Associazione diritti e frontiere-Adif). Il Tribunale ha anche messo in evidenza come questi accordi siano in buona parte finanziati attraverso fondi provenienti dall’Ue originariamente destinati alle politiche per lo sviluppo e la lotta alla povertà e che, attraverso gestioni poco trasparenti e senza la partecipazione del Parlamento europeo, vengono dirottati verso il finanziamento di progetti che sottolineano un approccio securitario all’immigrazione. Il Fondo europeo di emergenza per l’Africa, ad esempio, ha destinato parte delle sue risorse (oltre 3 miliardi di euro) all’equipaggiamento di forze militari, di polizia e di guardie di frontiera in Libia, Sudan e Sahel.
Questa politica di cooperazione – e qui veniamo al secondo piano di indagine – ha avuto l’effetto perverso, secondo il Tribunale, di peggiorare le condizioni dei migranti che tentano di aprirsi una rotta verso l’Europa. La drastica riduzione degli sbarchi provenienti dalla Libia, grazie al potenziamento della guardia costiera locale e alla creazione di una zona SAR “a estensione variabile” in cui questa si trova ad operare, ha ad esempio costretto i trafficanti di migranti a sostituire il business dei viaggi via mare con quello della detenzione nei campi destinati al trattenimento delle persone respinte o recuperate in mare. Come è emerso dalle numerose testimonianze e dai diversi rapporti presi in esame dal Tribunale, in questi centri di detenzione vengono praticate estorsioni e torture, mentre il recupero dei migranti in mare da parte delle autorità libiche avviene in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza. Tali attività di recupero sarebbero talvolta avvenute con il coordinamento della Guardia costiera e della Marina militare italiana, senza alcuna forma di identificazione dei migranti o possibilità di accesso alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale. Nello specifico caso libico, questa condotta delle autorità italiane – che si sviluppa nel contesto della cooperazione in materia di contrasto all’immigrazione illegale riavviata, dopo la sospensione del trattato del 2008 con la Libia di Gheddafi, dal citato Memorandum del febbraio scorso – sembrerebbe orientata, secondo la decisione in commento, all’elusione dell’obbligo di non-refoulement, in particolar modo nei termini precisati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza relativa al caso Hirsi c. Italia (2012).
Non solo. Il Tribunale delinea dei profili di responsabilità penale dei vertici dello Stato, nonché di responsabilità internazionale dell’Italia, a causa della complicità per le torture che continuerebbero ad essere commesse nei campi di detenzione libici e sulle quali già da tempo si è concentrata anche l’attenzione del procuratore della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda. Invero, la connessione tra la condotta italiana, consistente nella fornitura di assistenza tecnica e finanziaria alle autorità libiche, e le gravi violazioni dei diritti umani che si consumerebbero in Libia è già stata evidenziata dalla dottrina internazionalistica e una responsabilità indiretta dell’Italia su tali illeciti appare difficilmente contestabile (si veda, tra gli altri, l’intervento di A. Del Guercio e A. Liguori sull’ultimo Bollettino Laboratorio diritti fondamentali-Ldf).
La ricostruzione rigorosa di una responsabilità giuridica dell’Unione europea e degli Stati membri, nonché dei singoli agenti che abbiano con diverso grado di partecipazione concorso alla realizzazione di quel processo di espoliazione dei diritti e della dignità dei migranti, resta un’operazione complessa. Come si legge nella decisione del Tribunale, l’individuazione dei colpevoli è resa difficile da una concatenazione estremamente lunga, e talvolta occulta, di eventi, dinanzi alla quale si è troppo spesso tentati ad arrestare l’indagine ai responsabili più ovvi, gli scafisti o i trafficanti di turno, alimentando così l’impressione che oltre i confini africani, oltre quel mare che è insieme luogo di speranza e di morte, nessuno possa essere chiamato a rispondere delle proprie azioni o omissioni. È proprio sulla base di queste considerazioni che la giuria di esperti riunitasi a Palermo evoca dei “crimini di sistema”, quali esiti degenerati di un preciso contesto politico-economico non qualificabili in termini strettamente giuridici. Di tali “crimini” sarebbe responsabile non solo l’Unione europea, per aver fatto ricorso ad una politica migratoria basata sui respingimenti e sull’esternalizzazione, ma anche i singoli Stati membri, per non aver rispettato gli obblighi di soccorso in mare e per essersi resi complici delle gravi violazioni dei diritti umani sofferte dai migranti respinti.
Questa responsabilità si basa su due corollari. Anzitutto, la riconduzione dei migranti, pur con le loro diverse origini etniche, culturali e nazionali, alla categoria di “popolo”. Il popolo, secondo un processo di massificazione causata dalle stesse politiche europee e dalle loro conseguenze, viene così identificato sulla base delle violazioni e delle aggressioni che esso subisce e alla “popolazione migrante” vengono pertanto riconosciuti quei diritti sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dei popoli (Carta di Algeri, 1976), sulla cui osservanza il Tribunale permanente è chiamato a vigilare. In secondo luogo, il diritto di migrare e di essere accolti è riconosciuto come diritto umano fondamentale. Nonostante lo ius migrandi non trovi ancora tutela nell’ordinamento internazionale, l’esigenza di migrare è, secondo il Tribunale, un atto esistenziale e politico che va riconosciuto e tutelato dinanzi alla persistenza di modelli economici di sfruttamento che non consentono uno sviluppo equo e sostenibile. Inoltre, se ogni individuo è libero di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio (Patto sui diritti civili e politici, art. 12.2), dovrebbe anche potersi derivare un diritto ad essere accolti, ovvero di ricevere residenza, superando così il tradizionale ruolo delle frontiere come emblema della sovranità statale.
Tutto ciò considerato, il Tribunale permanente dei popoli ha ritenuto che le politiche dell’Unione europea in tema di immigrazione e asilo costituiscano una negazione dei diritti fondamentali delle persone e del popolo migrante; che l’arretramento delle unità navali di Frontex e di Eunafor Med, contribuendo all’estensione degli interventi della guardia costiera libica in acque internazionali, abbia compromesso la vita e l’incolumità dei migranti; che l’Italia, a seguito del Memorandum italo-libico del 2 febbraio 2017, abbia concorso nelle azioni poste in essere dalle forze di polizia e militari libiche, nonché dalle milizie tribali e dalla guardia costiera libica, che configurano un crimine contro l’umanità (in particolare si tratterebbe di omicidi, deportazioni, sparizioni forzate, imprigionamenti arbitrari, torture, stupri, riduzione in schiavitù e persecuzioni che si consumano a danno dei migranti); che, sulla base delle stesse condotte, il governo italiano sia corresponsabile degli episodi di aggressione da parte delle unità libiche alle ong che svolgevano attività e soccorso in mare nel Mediterraneo e che il loro allontanamento, anche a seguito dell’imposizione del cd. “codice di condotta” del luglio 2017, ha contribuito ad aumentare il numero delle vittime.
A fronte di tali valutazioni, il Tribunale ha raccomandato una moratoria degli accordi stipulati con i paesi di origine e di transito dei migranti che presentano maggiori criticità in termini di controllo pubblico e violazioni dei diritti umani, nonché la convocazione di commissioni di inchiesta sulle politiche migratorie da parte del Parlamento italiano e di quello europeo, al fine di identificare e perseguire eventuali responsabili di violazioni dei diritti fondamentali e mala gestione dei fondi destinati alla cooperazione internazionale. Esso ha anche sollecitato l’Unione europea e gli Stati membri ad adottare una politica dell’immigrazione pienamente conforme ai diritti umani, in particolare al diritto di asilo. Infine, il Tribunale ha ritenuto opportuno richiamare i media alla diffusione di informazioni corrette sulle questioni migratorie, troppo spesso influenzate da immotivati pregiudizi e paure.
Le analisi svolte dal Tribunale dei popoli non solo rappresentano un forte richiamo per Bruxelles o le autorità del nostro Paese, ma sono il crudo rimprovero nei confronti di una società che sta facendo della chiusura, dell’intolleranza e della xenofobia la propria cifra distintiva. Se il Tribunale non ha il potere di condannare Stati o governanti, esso può certamente concorrere a risvegliare un’opinione pubblica troppo spesso assopita, soprattutto rispetto ad un tema, quale quello dell’immigrazione, su cui le moderne democrazie si giocano parte della loro credibilità.