Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Israeliani e palestinesi: dalla repressione all’apartheid?

di Nello Rossi
già avvocato generale della Repubblica presso la Corte di cassazione<br> componente del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura
Il drammatico e infinito conflitto tra israeliani e palestinesi è caratterizzato da una costante: l’oppressione e la repressione dello Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese. Ma, accanto a questa tragica “costante”, che ha avuto un nuovo picco nei massacri di questi mesi, si sta verificando un fatto nuovo e diverso, e cioè la creazione di due diritti differenti per i due popoli che vivono in quell’area del mondo? Si è di fronte alla istituzionalizzazione, a danno dei palestinesi, di un vero e proprio regime di apartheid, bollato come un crimine dalle Convenzioni internazionali? L’articolo tenta di rispondere a questo interrogativo attraverso l’analisi dei molteplici comportamenti vessatori e discriminatori posti in essere dalle autorità israeliane e della “mens rea” del crimine di apartheid alla luce del diritto internazionale.

1. Israeliani e palestinesi: un conflitto antico ma non sempre uguale a se stesso

La drammatica conflittualità che connota da decenni il rapporto tra israeliani e palestinesi e la permanente situazione di crisi di quell’area del mondo non autorizzano una lettura statica del conflitto, della crisi e della loro dimensione istituzionale e giuridica come se si trattasse di realtà sempre eguali a se stesse ed insuscettibili di trasformazione.

Al contrario appaiono necessarie tanto una ricognizione attenta dei nuovi fattori di crisi quanto una interpretazione aggiornata del contrasto in atto per coglierne la tortuosa evoluzione e gli ultimi approdi.

In quest’ottica accanto alla descrizione della “costante” storica della repressione israeliana ai danni del popolo palestinese è stata posta la questione, più nuova e controversa, dell’istituzione, in Israele e nei territori controllati, di un vero e proprio regime di apartheid nei confronti del popolo palestinese.

Ci si è chiesti, cioè, se sia possibile e giustificato − e in che termini − parlare di apartheid per descrivere la situazione nella quale lo Stato di Israele mantiene i palestinesi che vivono nei suoi confini, i palestinesi che risiedono a Gerusalemme, i palestinesi relegati nei territori conosciuti come Striscia di Gaza e West Bank ed infine i molti palestinesi che sono all’estero, in Paesi confinanti con Israele o lontani da esso.

Con un avvertimento che non deve sembrare paradossale.

Per dimostrare la fondatezza di una accusa di apartheid non basta richiamare l’evidenza dei tragici avvenimenti degli ultimi mesi che hanno visto crescere il numero delle vittime palestinesi cadute sotto il fuoco dell’esercito israeliano che, per decisioni assunte dai suoi vertici politici e militari, ha adottato mezzi e tecniche di guerra nei confronti dei manifestanti.

L’apartheid infatti non è (solo) violenza pura, massacri, repressione crudele.

Esso si realizza (anche) attraverso pratiche più quotidiane ed incruente ed attraverso regole, a volte sottili, di persistente discriminazione giuridica e di fatto tra i diversi gruppi etnici che, nel loro complesso, disegnano un regime di dominio e di oppressione destinato a perpetuarsi nel tempo.

2. La “costante” della repressione

Mentre esiste un’ampia ed analitica letteratura in lingua inglese tanto sul conflitto israeliano-palestinese quanto sui meccanismi istituzionali e giuridici della repressione e dell’oppressione israeliana [1], i contributi di studiosi italiani sono prevalentemente di carattere storico e politologico [2] e meno attenti alla dimensione giuridica ed istituzionale del “problema” palestinese.

Tra gli studi che analizzano quest’ultimo aspetto si segnala il libro, risalente nel tempo ma per molti aspetti ancora attuale, intitolato “AA.VV., Israele e Palestina, Diritto e giustizia” [3] che passa in rassegna i diversi aspetti del sistema giuridico di supremazia e di controllo instaurato dallo Stato israeliano nei confronti dei palestinesi, analizzando i profili di diritto internazionale, la situazione dei diritti umani, il trattamento dei detenuti, le discriminazioni a danno dei lavoratori e dei sindacati palestinesi ed i molteplici strumenti repressivi adottati nei confronti della popolazione palestinese.

In quel contesto veniva affrontato, in particolare, un profilo del sistema repressivo estremamente inquietante perché in radicale contrasto con le regole dello Stato diritto e del fair trial: la detenzione amministrativa.

Istituto, questo, risalente all’epoca del mandato britannico sulla Palestina durato dal 1922 al 1948 ed introdotto da norme, i Defense (emergency) regulations del 1945 che consentivano all’autorità militare di emanare ordini di detenzione amministrativa, al di fuori del processo.

Esso, come è noto, venne utilizzato dagli inglesi tanto nei confronti degli ebrei (tra cui i capi del movimento sionista Moshe Dyan, Golda Meyr, Meir Shamgar che sarebbe poi divenuto presidente della Corte suprema) quanto nei confronti degli arabi, suscitando, allora, le vivissime proteste degli ebrei.

La detenzione amministrativa fu abrogata nel 1948 ma venne poi riesumata dagli israeliani che, a partire dal 1970, ne hanno fatto largo e sistematico uso nei confronti dei palestinesi.

Il regime giuridico della detenzione amministrativa è stato modificato più volte nel corso degli anni, ma le modifiche non hanno intaccato i caratteri essenziali di questo strumento di privazione della libertà di carattere “preventivo”.

Privazione di libertà attuata con garanzie procedurali ridottissime (assenza di pubblicità, prove che possono essere mantenute segrete, reiterazione della misura detentiva alla sua scadenza) e suscettibile di essere sottoposto ad un controllo giurisdizionale di carattere “successivo” estremamente limitato, in quanto i giudici sono chiamati a controllare atti amministrativi discrezionali, con tutti i limiti di questo tipo di sindacato.

Al di là di questo specifico aspetto, il libro offriva attraverso i diversi contributi di studio di magistrati e di giuristi un quadro dai contorni molto netti dei meccanismi di dominio e di repressione in atto nella regione.

Ne emergeva un quadro fortemente e duramente critico, tracciato da autori che non erano animati da alcun pregiudizio nei confronti di Israele ma che, sulla base della osservazione della realtà (erano reduci da un viaggio nella regione) e dello studio dei meccanismi normativi ed istituzionali, giungevano alla conclusione della inconciliabilità di quei meccanismi con lo Stato di diritto e con i principi di eguaglianza e di libertà cui lo Stato di Israele proclama di ispirarsi e formulavano giudizi molto severi sulla condizione civile e giuridica dei palestinesi (o meglio sui diversi regimi giuridici cui i palestinesi sono sottoposti a seconda dei luoghi in cui vivono nell’area).

3. Critica e denuncia delle politiche di Israele: un compito tanto difficile quanto necessario

Le valutazioni ed i giudizi negativi sulla condotta dello Stato di Israele non sono mai pronunciati a cuor leggero.

Gli europei, infatti, non sono in grado di discutere i problemi che riguardano il popolo e lo Stato di Israele senza avvertire un profondo coinvolgimento emotivo.

Non si tratta solo dell’immenso senso di colpa nutrito per ciò che di orribile è stato fatto al popolo ebreo nel secolo scorso, cui noi italiani abbiamo colpevolmente partecipato con le leggi razziali, i divieti, le persecuzioni e la discriminazione.

A quel senso di colpa si affiancano altri fattori.

In primo luogo sta l’acuta percezione del rischio che, prendendo a pretesto la politica di Israele contro i palestinesi, riprendano vigore nella nostra società pulsioni antisemite, che sono da contrastare senza tentennamenti.

Inoltre pesa l’esistenza e la forza, nel mondo arabo, di posizioni integraliste che negano ogni legittimità all’esistenza dello Stato di Israele e ne predicano la pura e semplice distruzione.

Infine conta il dato di fatto che, in un’area tormentata del mondo, governata da dittature e da regimi autocratici ed integralisti, lo Stato di Israele resta uno Stato, almeno sotto il profilo procedurale, “democratico”, con una cultura istituzionale e giuridica tendenzialmente ispirata ai modelli anglosassone ed europeo.

Una cultura capace di esprimere maestri del diritto come uno dei presidenti della Corte suprema israeliana, Aharon Barak, che con i loro scritti hanno saputo parlare all’intero mondo giuridico occidentale o grandi scrittori che sentiamo come straordinari interpreti della nostra sensibilità.

E però questi dati del quadro − che spingono a meditare ed a ponderare con ancora maggiore attenzione le posizioni da assumere − non possono indurre alla rinuncia ad analizzare, in termini obiettivi, politiche che sempre più apertamente contraddicono principi e valori fondanti della civiltà giuridica e dello stesso Stato di Israele e violano la più elementare legalità internazionale, contribuendo ad accrescere a dismisura le tensioni e moltiplicando senza fine la repressione violenta e le uccisioni.

4. Dalla repressione all’apartheid?

È con questo spirito che oggi − alla luce della situazione esistente e di recenti report di osservatori internazionali − occorre porsi alcuni interrogativi.

È giustificato parlare della instaurazione di un regime di vero e proprio regime di apartheid a danno dei palestinesi da parte del regime israeliano nel senso che il termine ha nel linguaggio comune come sinonimo di segregazione, discriminazione, frammentazione e dominazione di un popolo?

E, ancora − sotto un profilo più strettamente giuridico − alcune delle condotte tenute da Israele nei riguardi dei palestinesi sono inquadrabili nelle norme delle convenzioni internazionali che definiscono il concetto giuridico di apartheid e lo qualificano come un crimine contro l’umanità?

Infine, è in atto una sorta di espropriazione e di deprivazione culturale nei confronti dei palestinesi che concorre a creare ed a mantenere in vita un regime di segregazione e discriminazione?

Questi interrogativi, aspri ma difficilmente eludibili alla luce delle politiche adottate dallo Stato di Israele nei riguardi dei palestinesi, hanno sempre suscitato le veementi reazioni e gli assoluti dinieghi delle autorità israeliane.

Si ricorderà che nel 2017 il Segretario generale dell’Onu Antonio Gutierres decise di togliere dal web un rapporto dell’ESCWA (Economic and Social Commission for Western Asia) nel quale si sosteneva l’esistenza di un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi.

Ne nacque, allora, una vicenda confusa (per la quale si cercò una giustificazione burocratica nella mancata informazione preventiva di Gutierres sulla pubblicazione del report) poi risultata chiarissima dopo le dichiarazioni degli ambasciatori israeliano e statunitense all’Onu che, senza mezzi termini, definirono il rapporto falso, pregiudiziale, diffamatorio, frutto di un atteggiamento ostile nei confronti di Israele.

Si trattò di reazioni liquidatorie di un report che, da un lato, aveva importanti antecedenti e dall’altro si sforzava di argomentare rigorosamente le conclusioni raggiunte sulla base di una attenta descrizione della situazione dei palestinesi e di puntuali richiami alle convenzioni internazionali che hanno definito il concetto di apartheid e lo hanno qualificato come un crimine contro l’umanità.

Il precedente cui ci si riferisce è rappresentato dalle “Conclusioni della sessione finale del Tribunale Russel sulla Palestina” (Bruxelles, 16-17 marzo 2013).

Richiamando solo per cenni quell’importante documento, assai ampio e dettagliato, si può ricordare che esso descriveva una lunga serie di violazioni del diritto internazionale “convenzionale” e “consuetudinario” in danno dei palestinesi tra cui: la costruzione del muro in territorio palestinese occupato e il regime giuridico associato al muro; la proibizione ai rifugiati palestinesi di tornare nelle loro case; la violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul ritiro di Israele dai territori occupati e la politica di annessioni e di controlli posta in essere da quello Stato.

A tali violazioni si aggiungevano quelle del diritto internazionale “umanitario” e segnatamente: gli insediamenti di colonie e l’espulsione di palestinesi dai loro territori; le demolizioni e le espropriazioni di case; la detenzione amministrativa ed i maltrattamenti che le sono associati; le ritorsioni militari indiscriminate e le punizioni collettive contro la popolazione di Gaza; l’insieme di limitazioni delle libertà fondamentali dei palestinesi (come quella di movimento) e dei diritti al lavoro, all’istruzione, alla salute.

A sua volta il censurato rapporto dell’ESCWA (Economic and Social Commission for Western Asia) era molto analitico nel descrivere i tratti della politica di Israele nei riguardi dei palestinesi produttivi di discriminazione, segregazione, frammentazione.

Eccoli in rapida sintesi.

- La politica della terra (the land policy) che riserva ad una autorità israeliana (The Israel Lands Authority) il controllo della quasi totalità del territorio statale e preclude ai non ebrei proprietà e utilizzazione della terra.

- La politica demografica, con il paradosso di due leggi di contenuto opposto per gli israeliani e i palestinesi: la “legge del ritorno” per gli ebrei e quella che si potrebbe definire la “legge del non ritorno” per i palestinesi che ostacola o preclude il rientro ai palestinesi usciti dai confini.

- La frammentazione del popolo palestinese caratterizzata dalla differenziazione dei regimi giuridici cui sono sottoposti i palestinesi che vivono nei confini dello Stato di Israele, i palestinesi che risiedono a Gerusalemme, i palestinesi relegati a Gaza e nella West Bank ed infine i palestinesi all’estero, residenti in Paesi confinanti con Israele o in Paesi lontani.

- Infine, a completare il quadro, vi sono i molteplici meccanismi repressivi, sistematicamente posti in essere nei confronti dei palestinesi che vanno dalla detenzione amministrativa alla distruzione e confisca delle case dei sospettati di attività antiisraeliane.

5. Il crimine di apartheid nel diritto internazionale

Da questi documenti emergono dati di fatto, peraltro largamente noti e confermati da numerose altre fonti, che giustificano pienamente il raffronto tra la situazione determinatasi in Israele e le norme di diritto internazionale che definiscono il crimine di apartheid e ne descrivono contenuti e fisionomia.

Come è noto la Convenzione delle Nazioni unite sul crimine di apartheid (adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite con la risoluzione 3068, XXVIII, del 30 novembre1973 ed entrata in vigore il 18 luglio1976), dopo aver definito, nel suo primo articolo, l’apartheid come un «crimine contro l’umanità» ed aver messo in luce che le politiche e le pratiche di apartheid costituiscono «una seria minaccia per la pace e la sicurezza internazionale», individua analiticamente le condotte materiali del delitto, elencando una serie di «atti disumani» posti in essere ai danni degli appartenenti ad un gruppo razziale.

Nell’elenco rientra, innanzitutto, il rifiuto «ad un membro o a dei membri di uno o più gruppi razziali» del «diritto alla vita ed alla libertà personale». Rifiuto che può essere realizzato attraverso una pluralità di comportamenti: la soppressione fisica; il grave attentato all’integrità fisica o mentale o alla libertà e dignità; la sottoposizione a tortura o a pene e trattamenti crudeli o degradanti; gli arresti e gli imprigionamenti arbitrari ed illegali.

Sulla stessa lunghezza d’onda la Convenzione afferma che il crimine di segregazione sussiste quando vi sia la deliberata imposizione ad uno o più gruppi razziali di «condizioni di vita destinate a portare alla loro distruzione fisica, totale o parziale».

Accanto a queste ipotesi estreme si collocano poi, come altrettante forme di manifestazione di un criminoso regime segregazionista, una serie di politiche − adottate con misure legislative o di altra natura − che negano libertà e diritti fondamentali dell’essere umano: la preclusione della partecipazione alla vita politica, economica, sociale e culturale; la privazione delle libertà di espressione, di riunione e di associazione, di residenza, di movimento, di espatrio e di ritorno al proprio Paese; il diniego dei diritti al lavoro, all’associazionismo sindacale, all’istruzione.

Su altro versante vengono annoverate tra le condotte di apartheid la costruzione di ghetti, il divieto di matrimoni misti, le espropriazioni di immobili arbitrarie e mirate, lo sfruttamento del lavoro dei membri di un gruppo razziale sino all’estremo del lavoro forzato.

La classificazione dei comportamenti “incriminati” è chiusa dalla previsione che riguarda la persecuzione, con la privazione dei diritti e delle libertà fondamentali, di «organizzazione e persone» a causa della loro opposizione all’apartheid.

Naturalmente l’ampia ed analitica identificazione delle condotte materiali del crimine di apartheid deve essere integrata dalla “mens rea” e dallo scopo cui sono finalizzati i comportamenti di volta in volta distruttivi, repressivi e discriminatori contemplati nell’art. 2 della citata Convenzione delle Nazioni Unite.

Tutte le condotte devono essere infatti poste in essere «in vista di istituire e di mantenere la dominazione di un gruppo razziale di esseri umani su un qualsiasi altro gruppo razziale di esseri umani e di opprimere quest’ultimo».

Volontà di permanente dominio e di oppressione sono dunque i veri tratti distintivi di un regime di apartheid.

Parole chiave, queste, che consentono di interpretare le singole condotte, comuni a molti altri crimini contro l’umanità, riconducendole ad unità e gettando la loro luce su pratiche istituzionali discriminatorie ed oppressive non di rado molto complesse.

L’impostazione adottata dalla Convenzione è stata ripresa nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (1988-2002, modificata nel 2010) che ha incluso l’apartheid nel novero dei crimini contro l’umanità [art. 7 , par. 1 , lett. j)] e lo ha definito come il compimento di atti inumani (analoghi a quelli elencati nel primo paragrafo dell’art. 7) deliberatamente commessi contro popolazioni civili «nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altro o altri gruppi razziali ed al fine di perpetuare tale regime» [art. 7, par. 2, lett. h)].

Negli atti ora citati vengono riprese e sviluppate le formulazioni sulla discriminazione razziale contenute nella Convenzione internazionale di New York sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965) che impegnano gli Stati a non porre in essere atti o pratiche di discriminazione razziale e ad adottare misure dirette a «favorire l’intesa tra tutte le razze».

6. La “mens rea” del crimine di apartheid

È doveroso constatare che, nel corso degli anni, molte delle pratiche discriminatorie e repressive del governo israeliano nei confronti dei palestinesi hanno assunto un carattere di permanenza e di sistematicità che rende inadeguata ed inaccettabile ogni loro giustificazione fondata su esigenze di carattere eccezionale o emergenziale.

Così è avvenuto per i sistematici arresti ed imprigionamenti arbitrari ed illegali, per la distruzione di case e per le espropriazioni arbitrarie, per la politica di insediamenti coloniali, per le gravissime limitazioni delle libertà di movimento, di espatrio e di ritorno al proprio Paese dei palestinesi, per l’edificazione di muri finalizzati a ghettizzare il popolo palestinese, per i limiti posti all’effettivo esercizio delle libertà fondamentali.

Questo insieme di misure “selettive” e mirate, tutte dirette a reprimere in vario modo libertà e diritti dei palestinesi si è tradotto nella creazione di “due diritti” diversi che hanno dato corpo e forma, anche giuridica, alla “dominazione” degli israeliani ed alla “sistematica oppressione” dei palestinesi.

Ed è appunto nel ricercato, deliberato e costante squilibrio del trattamento giuridico dei palestinesi e nella istituzionalizzazione di disuguaglianze, giuridiche e di fatto, che generano assoggettamento e subalternità del popolo palestinese che si coglie l’elemento psicologico del crimine di apartheid.

La “mens rea” dell’apartheid è dimostrata dallo slittamento da forme di repressione più o meno brutali di una popolazione (che restano comunque circoscritte a situazioni e momenti critici) verso un permanente “regime istituzionalizzato” di discriminazione e segregazione che cristallizza e codifica i rapporti di dominio e soggezione e conferisce loro un carattere definitivo, dando vita ad un circolo vizioso che mira a perpetuarli nel tempo.

7. Un obiettivo immediato: la denuncia e la rimozione dell’apartheid

Nessuno di noi può dire se e quando il drammatico groviglio creatosi in quella tormentata parte del mondo potrà essere politicamente dipanato, creando le condizioni di una convivenza accettabile e di reciproco rispetto tra popoli diversi.

Ma è certo che un primo passo in tale direzione può essere compiuto solo riconoscendo l’esistenza delle discriminazioni e delle preclusioni all’esercizio di diritti fondamentali in danno dei palestinesi, prendendo atto della ormai avvenuta introduzione in Israele di un regime di apartheid e promuovendo una “politica” che mira alla sua rimozione in un quadro di lotta per l’affermazione dello Stato di diritto e di progressiva cancellazione dei due diritti oggi vigenti per israeliani e palestinesi.

Le difficoltà che si incontreranno su questa strada sono prevedibilmente enormi perché la lunga ed aspra conflittualità tra i due gruppi che convivono in una ristretta area del mondo ha prodotto crudeli lacerazioni e lasciato segni profondi nelle coscienze individuali e nei sentimenti collettivi, fornendo incessantemente giustificazioni al mantenimento di un regime di sopruso e di sopraffazione.

Ma enorme è anche il danno che il popolo israeliano subisce per effetto di questa situazione in termini di consenso e sostegno nell’opinione pubblica internazionale e di concreto supporto politico da parte di Stati che pure sono amici ed alleati di Israele.

Il ghetto “giuridico” e fisico nel quale sono oggi confinati i palestinesi non può essere condiviso, alimentato e mantenuto in vita proprio dal popolo che più ha sofferto di una opera di secolare ghettizzazione che ha costituito il tragico preludio dello sterminio e del genocidio.

Su questo punto è legittimo attendersi che l’opinione pubblica democratica israeliana, pur operando tra grandi difficoltà, sviluppi una iniziativa costante mandando al mondo, dall’interno di Israele, un segnale di rifiuto e di dissenso e, al tempo stesso, di volontà di ristabilire le regole del diritto e lo Stato di diritto.

Al tempo stesso tutti coloro – persone e organizzazioni − che nei Paesi dell’Occidente democratico sono impegnati per il rispetto dei diritti umani e contro le violazioni della legalità internazionale devono prendere atto del tragico salto di qualità derivante dalla istituzionalizzazione di un regime di apartheid nei territori dove vivono israeliani e palestinesi.

La chiara rappresentazione della situazione determinatasi in quell’area del mondo e della sua inconciliabilità con le regole del diritto internazionale a presidio dei diritti umani e dei diritti dei popoli rappresenta la premessa di ogni futura iniziativa diretta al superamento della crisi e del conflitto.

Dalla incessante opera di informazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica internazionale all’interpello e coinvolgimento di quanti si occupano di diritto e di diritti sino alla denuncia alla Corte penale internazionale del crimine di apartheid.

*Testo della relazione svolta al convegno “Un’analisi critica dall’interno della realtà israeliana” organizzato dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso e dalla Casa della Pace, Roma-Monterotondo, 12 maggio 2018



[1] Tra i numerosi studi sull’argomento, alcuni dei quali tradotti in lingua italiana si segnalano:

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[2] AA. VV., Palestina e Israele. Un confronto lungo un secolo tra miti e storia, (a cura di G. Valabrega), Teti Editore, Milano, 1999. Vds. anche titoli di storici quali Ilan Pappe e Nur Masala.

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AA.VV., Gerusalemme. Il sacro e il politico, Bollati Boringhieri, Torino, 2002;

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G. Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese, Bruno Mondadori, Milano, 1999;

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M. Massara, La terra troppo promessa, Milano, 1979;

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I. Pappe, Storia della Palestina moderna: Una terra due popoli, Einaudi, Torino, 2005;

I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, Genova, 2008;

E. Salerno, Israele. La guerra dalla finestra, Roma, Editori Riuniti, 2002;

L. Sandri, Città santa e lacerata, Monti, Saronno (Va), 2001;

U. Tramballi, L’ulivo e le pietre , Palestina e Israele: le ragioni di chi? Racconto di una terra divisa, Marco Tropea, Milano, 2002;

Israele/Palestina. La terra stretta, Limes, n. 1/2001.

[3] AA. VV., Israele e Palestina. Diritto e giustizia, Ediesse, Roma, 1989.

Cfr. anche:

AA.VV., Palestina: pulizia etnica e resistenza, Zambon, Castelfranco Veneto (Tv), 2010;

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F. Langer, La repressione di Israele contro i palestinesi, Teti editore, Milano, 1976;

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23/05/2018
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