Pio La Torre dedicò tutta la vita alla lotta alla mafia. E visse e contrastò, della mafia, tutte le forme storiche. Combattè quella del latifondo, e il suo rapporto complice con la grande proprietà assenteista, fino a patire il carcere, dopo la seconda guerra mondiale. Poi denunciò con forza quella urbana, che al latifondo aveva sostituito la speculazione edilizia e la spesa pubblica come fonti di arricchimento e di potere. Quindi intravvide, capì e contrastò frontalmente la mafia che aveva conquistato in pochi anni il monopolio dell’eroina sul Mediterraneo e che si lanciava all’assalto delle istituzioni[1]. Lotte sociali e movimento contadino; opposizione in parlamento, e lo straordinario contributo dato con la Relazione di minoranza nella Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno mafioso nel 1976, che portava la sua prima firma[2]; e infine la proposta di legge che avrebbe fatto da spartiacque nella storia dei rapporti tra Stato e mafia[3].
Pochi uomini hanno avuto un rapporto così diretto con le trasformazioni di quella che poi avremmo imparato a chiamare Cosa Nostra. E ancor meno uomini ne hanno compreso i mutamenti adeguando nel tempo le forme e le prospettive della propria azione conflittuale. L’opinione pubblica e anche la narrazione del movimento antimafia, soprattutto giovanile, hanno riservato a questa singolare figura di leader politico una attenzione minore di quella che gli sarebbe spettata. Qui, per valorizzarla, non si parlerà dell’impatto che ha avuto nel tempo la sua legge (firmata simbolicamente dopo il suo assassinio anche dal Ministro dell’interno Virginio Rognoni), impatto che è stato alto e sotto certi profili devastante per le logiche dell’accumulazione mafiosa. Si parlerà piuttosto del contesto storico con cui Pio La Torre si è trovato ad agire. E dunque dello sforzo politico, intellettuale, civile, che ha dovuto compiere per condurre il più possibile la società italiana verso una adeguata consapevolezza del fenomeno mafioso e degli strumenti per combatterlo. Cercando di indicare i principali elementi di quadro con cui egli dovette scontrarsi nella propria azione civilizzatrice (nel senso più stretto del termine).
1. Il primo elemento, il più “pesante”, fu sicuramente la tesi che la mafia come organizzazione non esistesse. Fino alle confessioni di Buscetta, che giunsero più di due anni dopo la sua morte, era diffusa in Sicilia la convinzione che la mafia fosse figlia della fantasia della stampa del Nord o della disonestà intellettuale con cui il Partito comunista conduceva la propria opposizione politica. La teoria della inesistenza della mafia non era cioè esclusivo appannaggio dei boss interrogati nelle aule dei tribunali. E non rispecchiava nemmeno solo le convinzioni degli strati popolari. Venne piuttosto sposata con fermezza negli anni sessanta, anche dopo la strage di Ciaculli, dal cardinale di Palermo Ruffini (settentrionale di nascita) che la sostenne nella risposta scritta a papa Paolo VI, il quale ne chiedeva spiegazioni alla Chiesa siciliana[4]. C’era anche una variante di questa tesi. Ed era che la mafia esistesse solo in forma di mentalità. L’aveva argomentata Gaetano Mosca nella sua celebre conferenza del 1900[5]. Ma era stata rilanciata da Leonardo Sciascia nel 1974, nella sua prefazione a Mafia, un libro di successo scritto da un giovane sociologo tedesco, Henner Hess, che con questa variante si era posto in evidente sintonia[6].
2. Il secondo elemento di quadro fu la tesi che la mafia fosse una cosa “buona” o “giusta” o “necessaria”. Ogni aggettivo positivo era in tal caso quasi sempre preceduto dall’avverbio “purtroppo”. Ma alla fine si trattava di una entità, sfuggente e granitica al tempo stesso, che assicurava ordine, occupazione e contribuiva perfino alla tenuta della democrazia repubblicana, come si trovava scritto su un noto saggio di un magistrato di Cassazione, Guido Lo Schiavo[7]. Lo pensavano, senza poterlo sempre dire, anche diversi esponenti politici che ne traevano voti e consensi.
Insomma: alternativamente (o insieme) mafia invisibile o mafia legittima. Lottare contro questa sorta di fantasma buono fu per Pio La Torre una fatica improba. Per farlo dovette scuotere condizioni, culture e coscienze. Sempre subendo il pregiudizio (frutto del patto di coesistenza con la mafia siglato tacitamente dal potere) che chi denunciava la mafia fosse “comunista” o “amico dei comunisti”.
3. Il terzo elemento di quadro fu il pregiudizio settentrionale che la mafia fosse fenomeno folclorico. Anche feroce, ma di cui si era autorizzati a vedere soprattutto la caricatura in quanto congenito a una realtà sociale residuale e in via di superamento. I grandi piani di industrializzazione del Meridione, a colpi di poli chimici e centri siderurgici, l’avrebbero disfatta, spappolata. Da leader di popolo (e di popolo delle “sole” bandiere rosse), da dirigente politico siciliano dovette e potè dunque contare soltanto sulle sue forze. Non gli giunse in soccorso la grande forza della democrazia. Il sistema politico aveva (come in gran parte ha ancora) altre priorità. Inutilmente cercò nella richiamata Relazione di minoranza del 1976 di spiegare che la mafia era questione della democrazia italiana, figlia organica dei suoi limiti e dei suoi veleni, e in primo luogo delle ambiguità delle sue classi dirigenti[8]. Che solo alzando la qualità democratica del Paese sarebbe stato possibile sconfiggerla.
4. Il quarto elemento di quadro, e non risultò il minore, fu la cecità del Paese di fronte ai cambiamenti in corso. Facilitata certo dall’incubo del terrorismo, che catalizzava paure e programmi solenni. Che oscurava le realtà più drammatiche. Fino a far parlare personalità autorevolissime (compreso il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini) di una causale terroristica davanti all’omicidio che segnava il nuovo livello dell’aggressività mafiosa: quello di Piersanti Mattarella, il capo del governo dell’Isola. E che al contempo faceva straparlare di mafie ormai traslocate, con testa e sistema nervoso, a Zurigo o a Londra o a Milano. Totalmente cambiate, trasferite nei cieli della finanza. Insomma: o inesistenti o assise in luoghi lontani e rarefatti. Sempre in ogni caso invisibili, non parte della realtà sociale quotidiana.
La Torre ebbe il merito di non crederci. E fu innovatore proprio perché non stravolse la realtà, che conosceva fin troppo bene. Operò sulla realtà vera. La mafia c’era, controllava la vita sociale anche nei quartieri, aveva la sua testa nella provincia di Palermo e da lì, come egli amava ripetere, faceva «politica a colpi di pistola». I grandi traffici di eroina l’avevano sospinta verso una dimensione imprenditoriale sconosciuta. Ma non per questo aveva perso la sua identità. Perciò nella legge che istituiva il reato di associazione mafiosa egli non si limitò a indicare il profitto tra le grandi finalità dell’associazione, ma indicò tra i suoi obiettivi la realizzazione di «vantaggi ingiusti, per sé o per altri»[9]. Perché lì, nei vantaggi ingiusti, stava la sostanza, la fitta trama del potere: le assunzioni nell’impiego pubblico, l’impunità nei processi, l’elezione dei propri candidati, le raccomandazioni all’esame o per una priorità ospedaliera, il lavoro per gli affiliati del proprio clan. Proprio a causa di quella rete di favori e di dipendenze personali la democrazia infiacchiva fino a rovesciarsi in altro.
La legge così temuta dai clan fu un capolavoro di equilibrio tra la comprensione delle nuove dinamiche che si erano aperte nell’universo mafioso, con la “corsa all’oro” che stava facendo nascere l’impresa mafiosa, e la consapevolezza che l’antagonista non avrebbe comunque cambiato la propria identità di fondo. Se consideriamo il frastagliato panorama delle teorie odierne sul fenomeno mafioso, ciclicamente proiettate a sostenere, come ironizzava Giovanni Falcone, l’arrivo di una mafia «completamente nuova»[10], ci rendiamo conto dei meriti acquisiti davanti alla storia del Paese da questo autentico innovatore politico. Che costruì conoscenza e mobilitazione insieme. Conoscenza in una società fondamentalmente priva di studi scientifici sulla materia; mobilitazione in un partito che proprio in Sicilia stava smarrendo la propria capacità di smuovere passioni ed energie collettive. Come il più tipico degli innovatori dovette attraversare pregiudizi, accidie, resistenze. Ci riuscì, pagando il prezzo più alto che tocca talora ai veri innovatori.
*In copertina: Manifestazione per la pace, 4 Aprile 1982 (Comiso). La foto è tratta dal sito www.piolatorre.it
[1] Per adeguate note biografico-politiche, si vedano Pio La Torre, Le ragioni di una vita (scritti), De Donato, Bari, Coop. Ciclope, Palermo, 1982; Domenico Rizzo, Pio La Torre. Una vita per la politica attraverso i documenti, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; Giuseppe Bascietto e Claudio Camarca, Pio La Torre. Una storia italiana, Aliberti, Roma, 2008; Franco La Torre, Sulle ginocchia, Melampo, Milano, 2015; Atttilio Bolzoni, Uomini soli, Melampo, Milano, 2012 (Cap. II).
[2] Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Relazione di minoranza (a prima firma Pio La Torre), Legislatura VI, 1976; anche Vittorio Coco (a cura di), L’antimafia dei comunisti. Pio La Torre e la relazione di minoranza, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo, 2013.
[3] Sulla portata della legge e sulle successive acquisizioni giurisprudenziali si veda l’ormai classico: Giuliano Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, Milano, 2015 (terza edizione).
[4] Attilio Bolzoni, Faq Mafia, Bompiani, 2010, pp. 45-46.
[5] Gaetano Mosca, Che cosa è la mafia? In Giornale degli economisti, vol. 20, 1900, pp. 236-262.
[6] Henner Hess, Mafia, Laterza, Roma-Bari, 1973 (ed. orig. 1970).
[7] Guido Lo Schiavo, Il regno della mafia, in Rivista dei processi, 5 gennaio 1955 (citato in Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice, Mulino, Bologna, 1983, p. 59).
[8] Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Relazione di minoranza (a prima firma Pio La Torre), cit.
[9] Giuliano Turone, Il delitto di associazione mafiosa, cit.
[10] Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano, 1991 (con Marcelle Padovani), p. 104.