Sommario: 1. Di quante protezioni speciali stiamo parlando; 2. Dove nasce la protezione speciale; 3. Come è intervenuto il D.L. n. 20/2023; 4. Ulteriori criticità dell’art. 7 D.L. n. 20/2023; 5. Conclusione a prima vista
1. Di quante protezioni speciali stiamo parlando
Dai dati di Eurostat 2023 risulta che nel 2022 le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale hanno riconosciuto 10.865 protezioni speciali, pari al 20,47 % delle 53.065 domande esaminate. Percentuale che si avvicina a quella del 21% per l’anno 2018, prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113/2008, anche se inferiore a quella del 25% per l’anno 2017[1]. Percentuali alle quali vanno aggiunte le protezioni umanitarie o speciali riconosciute dall’Autorità giudiziaria[2].
Verosimilmente si tratta di decisioni adottate nell’ambito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale e dunque non si ha certezza o non si hanno dati sulla protezione speciale rilasciata a seguito di domanda diretta al Questore e nemmeno quante domande siano ad oggi pendenti. Da un Report pubblicato su Altra economia n. 254 del dicembre 2022 emerge che «Su 63 uffici esaminati si è passati infatti da 1.628 istanze dirette al questore per protezione speciale in tutto il 2021 a 6.798 nel primo semestre del 2022: +317% (e in sei mesi su 12)»[3]; dati emersi a seguito di accesso agli atti (FOIA) intrapreso dalla Rivista e i cui risultati sono stati pubblicati nel numero di novembre 2022[4].
Ad ogni modo, guardando le statistiche pubblicate da Eurostat certamente si tratta di numeri importanti, soprattutto per le persone titolari di quel diritto, ma che incidono in maniera minima rispetto alla complessiva presenza in Italia della popolazione immigrata e di quella delle persone richiedenti asilo.
Eppure il legislatore odierno ha sentito l’urgenza di modificare l’impianto normativo dell’istituto, intervenendo in fretta e furia il 10 marzo 2023 con il decreto legge n. 20/2023 con una norma confusiva e mal scritta (art. 7), con cui, tuttavia, si è veicolato il messaggio politico dell’abrogazione della protezione speciale.
Ma è davvero così e soprattutto può essere abrogata la protezione speciale?
2. Dove nasce la protezione speciale
Senza ripercorrere l’intera storia legislativa dell’istituto, è sufficiente ricordare che la protezione speciale è stata introdotta dal D.L. n. 113/2018, in sostituzione della protezione umanitaria prevista fin dal 1998 con l’art. 5, co. 6 TU immigrazione d.lgs. 286/98 e formalizzata a partire dal 2007 come forma residuale di tutela nel sistema della protezione internazionale.
Dall’originaria previsione dell’art, 5, co. 6 TU 286/98, di obbligo di rispetto delle serie ragioni umanitarie e degli obblighi costituzionali o internazionali sia nei procedimenti amministrativi davanti al Questore che nelle procedure di protezione internazionale, nel 2018 è stata cambiata la denominazione, da umanitaria a speciale, e limitato il suo riconoscimento a al solo verificarsi delle cause di esclusione dal riconoscimento della protezione internazionale[5].
Nel 2020 l’istituto è stato oggetto di un intervento di segno radicalmente contrario con il D.L. n. 130/2020 (conv. con mod. in legge n. 173/2020) che, pur mantenendone la denominazione, ha implementato l’art. 19 TU immigrazione delineando 4 diversi ambiti di riconoscibilità attraverso due distinti e autonomi percorsi:
1) nell’ambito della procedura asilo, quale forma cd. complementare rispetto al rifugio politico e alla protezione sussidiaria,
2) con domanda presentata direttamente al Questore e acquisizione obbligatoria di parere da parte della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Percorso, quello davanti al Questore, da sempre osteggiato dal Ministero dell’interno, dapprima negandone l’autonomia, poi frapponendo ostacoli burocratici di vario genere, a tutt’oggi esistenti, per non attivare o far proseguire il procedimento (provvedimenti di irricevibilità, mancato accesso materiale alla procedura, appuntamenti per la formalizzazione fissati a mesi di distanza).
Quali erano i quattro ambiti nei quali la protezione speciale poteva essere riconosciuta?
1) comma 1: «In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di orientamento sessuale, di identità di genere[6], di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione»[7].
Trattasi di divieto assoluto e inderogabile.
2) comma 1.1 prima parte: «Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti […]. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani»[8].
3) comma 1.1 seconda parte: «Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato […] qualora ricorrano gli obblighi di cui all'articolo 5, comma 6. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani».
Anche in questo caso si tratta di divieti assoluti, nonostante la diversità dell’inciso iniziale («Non sono ammessi», anziché «In nessun caso sono ammessi») perché partecipano in sé alla natura fondamentale del singolo diritto sotteso (divieto di tortura, di trattamenti inumani e degradanti ex art. 3 Cedu) o degli obblighi costituzionali o internazionali, non derogabili qualora sia accertata la sistematicità delle violazioni dei diritti umani. Si pensi, tra i tanti, agli obblighi della Convenzione di Istanbul di tutela contro la violenza basata sul genere, alla Convenzione di Varsavia contro la tratta degli esseri umani, ai divieti inderogabili previsti negli artt. 2 (Diritto alla vita), 4 § 1 (Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù) e 7 (Nulla poena sine lege) della Convenzione europea diritti umani[9], ecc.
4) comma 1.1 terza e quarta parte: «Non sono altresì ammessi il respingimento o l'espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine»
Per questo 4° ambito, relativo al diritto alla vita privata e familiare, va evidenziato che il legislatore del 2020 ha indicato sia i criteri attraverso i quali accertare il diritto, sia le eccezioni ad esso, ovverosia le «ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute», in ogni caso nel rispetto del divieto di refoulement.
Eccezioni, dunque, le quali imponevano un necessario bilanciamento con i criteri di radicamento sociale della persona straniera in Italia.
I quattro ambiti lungo i quali si esprimeva la protezione speciale erano senz’altro ampi, ma va innanzitutto precisato che non rappresentavano la “bontà” del legislatore italiano del 2020, bensì l’esplicitazione della preminenza di obblighi internazionali o costituzionali dello Stato raccolti in quel catalogo aperto, i quali non dovevano pertanto essere “scovati”, né dalla PA né dall’autorità giudiziaria, proprio perché erano esplicitati in un testo di legge immediatamente “visibile”.
È importante comprendere questo perché, a prescindere da quella che vuole essere o sarà la scure dell’attuale legislatore (in continuità con quella del 2018 che tanta irregolarità ha provocato), quei quattro contenitori della protezione speciale, o come si vorrà chiamare, rimarranno sempre nell’ordinamento nazionale.
3. Come è intervenuto il D.L. n. 20/2023
Il D.L. n. 20/2023, all’art. 7, ha soppresso il 3° e 4° periodo del comma 1.1. (il 4° ambito di applicazione), per cui l’attuale testo dell’art. 19, co. 1.1 è il seguente:
«1.1. Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all'articolo 5, comma 6. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani».
Abrogazione del 4° ambito applicativo dianzi indicato che, tuttavia, non elimina di certo il diritto al rispetto della vita privata e familiare, che ha il suo fondamento nell’art. 8 CEDU e quanto alla vita familiare negli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, dunque in fonti sovraordinate rispetto alla legislazione ordinaria. L’art. 7 D.L. n. 20/2023 elimina “solo” i criteri attraverso i quali il legislatore del 2020 intendeva guidare la pubblica autorità, amministrativa o giudiziale, nel riconoscimento del diritto, per evitare discrezionalità interpretative e applicative e per maggiore coerenza con l’ordinamento italiano.
Criteri, quelli del 2020, mutuati certamente dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani e con eccezioni di bilanciamento più limitate rispetto al testo convenzionale[10], ma è bene chiarire che anche oggi quei principi sono applicabili in Italia in coerenza con le previsioni specifiche dell’ordinamento nazionale.
Cosa si intende dire?
È noto che i principi della Corte europea dei diritti umani - che valorizza legami familiari, durata della presenza sul territorio nazionale, relazioni sociali intessute e opera un rigoroso bilanciamento, ad esempio, in presenza di pregiudizi penali - si applicano quasi esclusivamente ai cd. settled migrants, cioè alle persone straniere originariamente regolari e, salvo rare eccezioni, a richiedenti asilo o persone prive di titolo di soggiorno[11].
Parrebbe, dunque, che quella declinazione dell’art. 8 CEDU non possa essere oggi riconosciuta nell’ambito della protezione speciale nazionale, stante l’abrogazione dell’esplicito richiamo al diritto al rispetto della vita privata e familiare o meglio ai criteri di sua individuazione, cioè che non possa darsi rilievo al radicamento sociale variamente inteso al fine di riconoscere il diritto alla protezione speciale e al correlato permesso di soggiorno.
Così non è, né può essere, perché l’art 19 TU immigrazione è norma che protegge da espulsione e respingimento proprio coloro che sono privi di permesso di soggiorno e la cui condizione coincide con uno dei suoi ambiti di applicazione. L’art.19, infatti, è titolato Divieti di espulsione e di respingimento. Disposizioni in materia di categorie vulnerabili, e indica una serie di fattispecie, collegate a obblighi costituzionali o internazionali (taluni denominati, altri lasciati liberi all’interpretazione) al verificarsi delle quali deve essere rilasciato un permesso di soggiorno in deroga alle regole ordinarie previste nel TU immigrazione d.lgs. 286/98 (art. 28 d.p.r. 394/99). Dovere, dunque, e non facoltà.
Sarebbe, pertanto, irrazionale e contrario alla stessa norma convenzionale europea negare in Italia l’applicazione dei criteri elaborati dalla Corte Edu alle persone straniere prive di permesso, in quanto l’art. 19 è proprio a loro destinato e questo significa che, nonostante l’eliminazione dei criteri di semplificazione dell’accertamento del diritto al rispetto della vita privata e familiare, essi dovranno essere necessariamente applicati qualora la domanda di protezione speciale afferisca al diritto di cui all’art. 8 CEDU.
Un ulteriore aspetto merita di essere esaminato.
Pur nella maggiore complicatezza odierna del riconoscimento del diritto al rispetto della vita privata e familiare a seguito dell’abrogazione dei criteri disposta dall’art 7 D.L. n. 20/2023, è indubbio che esso sia a tutt’oggi pienamente riconoscibile perché compreso nell’art. 5, co. 6 TU 286/98, sopravvissuto alla scure del 10 marzo 2023.
Norma, l’art. 5, co. 6, che non può essere abrogata se si considera non solo il monito del Presidente della Repubblica in occasione della conversione in legge del D.L. n. 113/2018, ma anche perché quella norma e l’art. 19, commi 1 e 1.2 TU 286/98 sono dalla dottrina e dalla giurisprudenza ritenuti attuazione dell’art. 10, co. 3 della Costituzione, completamento della disciplina sull’asilo che si aggiunge e integra la normativa sulla protezione internazionale di derivazione eurounitaria[12].
Si può non concordare del tutto sul fatto che l’art. 19 TU immigrazione introdotto dal D.L. 130/2020 (che comprende anche l’art. 5, co. 6) rappresenti compiuta attuazione della norma costituzionale, non fosse altro per la sua incompleta e per certi versi confusa disciplina (si pensi alla relazione tra art. 6, co. 1-bis TU 286/98e art. 32, co. 3 d.lgs 25/2008) e per la radicale differenza del contenuto del titolo di soggiorno rispetto a quelli di protezione internazionale (durata del permesso, accesso ai diritti sociali, unità familiare, ecc.).
Tuttavia, è indubbio che l’introduzione nell’art. 19 dell’art. 5, co. 6 e il ripristino quasi completo dello stesso art. 5, co. 6 quale norma di chiusura dell’intero sistema regolatorio del TU d.lgs 286/98 possono essere ritenuti attuazione, pur incompleta, del precetto costituzionale, giacché tra gli obblighi costituzionali c’è, indubbiamente e innanzitutto, anche l’art. 10, co. 3 della Costituzione che, è bene ricordare, offre protezione a qualsiasi persona straniera alla quale nel suo Paese siano effettivamente impedite le libertà costituzionali previste dalla nostra Carta fondativa e fondamentale. Norma costituzionale che, è noto, è immediatamente precettiva (Cass. SU n 4674/97 e SU n. 907/99 ) ma che necessità di una disciplina che individui il trattamento di chi è titolare del diritto (quale tipo di permesso? quale durata? quali diritti esercitabili? ecc.), e in questo senso va letto l’inciso dell’art. 10, co. 3 Cost. secondo cui il diritto d’asilo si esercita “secondo le condizioni stabilite dalla legge”. E’ il contenuto del diritto che il legislatore deve disciplinare, non il suo presupposto che è già individuato dalla stessa norma costituzionale.
Ma l’art. 5, co. 6 è, nel contempo, attuazione anche delle previsioni costituzionali di cui all’art. 10, commi 1 e 2 della Costituzione a mente dei quali «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali». Norme e trattati internazionali che comprendono un catalogo ampio di diritti riconoscibili alle persone straniere.
Questo significa che attraverso l’art. 5, co. 6 TU 286/98 possono e devono essere accertati tutti gli obblighi costituzionali o internazionali, tra i quali il diritto d’asilo costituzionale, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e tutti i diritti fondamentali previsti dagli strumenti giuridici internazionali così come dall’ampia gamma di diritti fondamentali previsti per chiunque dalla Carta costituzionale. Tra essi il diritto alla dignità ex art. 2 Cost. nel cui novero entra ogni diritto che contribuisca a vivere una vita libera e dignitosa, tra i quali anche il lavoro, strumento imprescindibile per la sicurezza personale.
Pertanto, con l’art. 19, commi 1 e 1.1. TU 286/98, che contiene anche l’art. 5, co. 6, si è data attuazione a precisi precetti costituzionali ed è a questa necessità che ha dato risposta il legislatore del 2020 e per converso a essa non può oggi derogarsi abrogando l’art. 5, co. 6 TU, sia in sé che, soprattutto, nella parte dell’art. 19, co. 1.1 in cui è inserito (come vorrebbero fare i disegni di legge presentati da partiti dell’attuale maggioranza di governo).
Una volta, infatti, che il legislatore abbia dato attuazione a un precetto costituzionale, la norma ha una “copertura costituzionale” o meglio esprime una “forza passiva” alla sua abrogazione perché questa lascerebbe un vuoto che il legislatore ordinario aveva riempito in attuazione di norme costituzionali, facendo tornare la persona a una condizione di incertezza tale da rendere ineffettivo lo stesso precetto costituzionale. In questo senso va richiamata la pronuncia n. 16/1978 della Corte costituzionale, opportunamente evocata dal prof. Zaccaria nell’audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali del Senato nell’ambito della procedura di conversione in legge del D.L. n. 20/2023.
Certo, come ben affermato dal Presidente della Repubblica nel 2018, gli obblighi costituzionali e internazionali non sparirebbero con l’abrogazione di una norma ordinaria esplicita ma la differenza rispetto al 2018 è che nel frattempo il legislatore ha disciplinato la condizione del/della titolare del diritto corrispondente a un obbligo costituzionale o internazionale e, pertanto, eliminarla esporrebbe la persona al rischio di non vedersi riconosciuto uno dei diritti ad essi corrispondenti perché inesistente o incerta la procedura di riconoscimento (fermo restando che sarebbe comunque sempre accertabile dall’Autorità giudiziaria) ma soprattutto il contenuto del diritto. Rispetto a quest’ultimo aspetto, va considerato che non potrebbe applicarsi il trattamento in analogia a quello di altri statuti giuridici, stante la riserva di legge di cui all’art. 10, co. 2 della Costituzione ed è pertanto incontestabile che il vuoto che deriverebbe dall’abrogazione degli artt. 5, co. 6 e 19, commi 1, 1.1 e 1.2 TU 286/98 sarebbe costituzionalmente illegittimo.
Se il legislatore attuale dovesse abrogare l’art. 5, co. 6 e/o la protezione speciale come delineata dal D.L. n. 130/2020, il Presidente della Repubblica non potrebbe promulgare la legge di conversione per manifesta incostituzionalità.
4. Ulteriori criticità dell’art. 7 D.L. n. 20/2023
Il D.L. n. 20/2023 ha modificato anche la disciplina del permesso per protezione speciale per coloro che l’hanno già conseguito in relazione al diritto al rispetto della vita privata e familiare, prevedendo la rinnovabilità per una sola volta e con durata annuale e l’eventuale conversione in permesso per lavoro. La fretta (e la furia) dell’immissione dell’art. 7 nel D.L. n. 20 ha creato, però, un’indubbia confusione che determinerà non poco contenzioso. Infatti, per effetto di esso il permesso per protezione speciale, di durata biennale, già rilasciato alla data di entrata in vigore del decreto legge potrà essere rinnovato una sola volta e con validità annuale e sarà convertibile in lavoro se sussistenti i requisiti di legge.
Ma quando sarà convertibile? Alla prima scadenza o anche dopo il rinnovo?
Inoltre, poiché la norma si riferisce ai soli permessi per protezione speciale afferenti al diritto al rispetto della vita privata e familiare, quella loro specifica disciplina li differenzia da quelli rilasciati sulla base degli altri tre ambiti applicativi dell’art. 19, in relazione ai quali continuerà ad applicarsi la disciplina prevista dall’art. 32, co. 3 d.lgs 25/2008, non intaccato dal D.L n. 20 e dunque i permessi avranno validità biennale, rinnovabili e convertibili.
Lo scenario futuro è, pertanto, il seguente:
- permessi rilasciati prima o dopo l’entrata in vigore del D.L. n. 20/2023 per rischio persecutorio, rischio tortura o trattamenti inumani e degradanti e per violazione obblighi costituzionali o internazionali (tra i quali anche l’art. 8 CEDU): validità biennale, rinnovabilità e convertibilità
- permessi rilasciati prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 20/2023 per rispetto della vita privata e familiare: validità biennale, rinnovabile solo una volta e con durata annuale, eventualmente convertibile in lavoro.
È indubbia la discriminazione che si determinerà tra coloro che, a fronte del medesimo diritto al rispetto della vita privata e familiare, avranno conseguito il permesso prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 20/2023 e coloro che lo otterranno successivamente in applicazione dell’art. 8 CEDU. Senza considerare che se è vero, come è vero, che l’art. 8 CEDU fa parte dell’art. 5, co. 6 TU immigrazione, non intaccato dal D.L. n. 20/2023, il permesso rilasciato per “integrazione sociale” non potrà differenziarsi rispetto a quelli rilasciati sulla base di altri presupposti. Evidente è la confusione che la riforma recherà con sé e l’inevitabile aumento di contenzioso giudiziale.
Ulteriore problematica riguarda il diritto intertemporale, poiché l’art. 7, co. 2 D.L. n. 20/2023 stabilisce che «Per le istanze presentate fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto l'invito alla presentazione dell'istanza da parte della Questura competente, continua ad applicarsi la disciplina previgente.».
Previsione di dubbia legittimità, non tanto per la legittima salvaguardia di quelle centinaia o migliaia di domande per la cui formalizzazione ci sono attese di svariati mesi, quanto per tutte quelle per le quali non è stato nemmeno possibile chiedere l’appuntamento per la formalizzazione, nemmeno attraverso le PEC inoltrare da avvocati/e. Domande invisibili che sono il frutto della ricordata ostilità mostrata fin dai primi mesi dal Ministero dell’interno e che hanno costretto alla permanenza in un condizione di irregolarità moltissime persone.
A ciò si aggiunga che questo strano diritto intertemporale previsto dall’art. 7, co. 2 D.L. n. 20/2023 non chiarisce se la disciplina previgente si applica anche ai procedimenti giudiziari in corso o che si proporranno per le domande per le quali le istanze siano state presentate o le questure abbiano dato appuntamento per la formalizzazione.
Al riguardo, non può che richiamarsi quanto già affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, sentenza n. 29459/2020, in occasione dell’entrata in vigore del D.L. n. 113/2018: «In tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell'ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito con I. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dall'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell'entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l'accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, convertito nella I. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per "casi speciali" previsto dall'art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge».
5. Conclusione a prima vista
Il D.L. n. 20/2023 è provvedimento irrazionale, inutile e dannoso per un buon governo del fenomeno migratorio, non solo per le complessive previsioni che contiene ma, nello specifico della protezione speciale, anche per il tentativo di comprimere uno dei più efficaci strumenti normativi introdotti in quasi 40 anni di legislazione, in attuazione (finalmente) di precetti costituzionali.
Tentativo che non può dirsi raggiunto né raggiungibile, per le considerazioni sopra svolte, ma non può tacersi che il decreto legge creerà ulteriore incertezza della condizione giuridica di molte persone straniere le quali vivono già nelle comunità territoriali italiane, esponendole a irregolarità, discriminazioni e ricattabilità sociale e lavorativa, e inevitabilmente aumenterà il contenzioso giudiziale che impatterà negativamente sul sistema giustizia.
C’era davvero «urgenza e necessità» di portare avanti questo tentativo?
O, invece, non era più urgente emanare norme che consentissero alle persone straniere bisognose di protezione il rilascio di visti d’ingresso per asilo politico, ex art. 10, co. 3 Cost., o per motivi umanitari, ex art. 25 Regol. 810/2009, in tal modo dando completa attuazione al precetto costituzionale e sottraendo quelle persone alle mani insanguinate dei trafficanti di esseri umani e salvandole dalle centinaia di morti alle quali stiamo assistendo? E non era più urgente introdurre una legge che consentisse il rilascio di visti d’ingresso per ricerca lavoro, eliminando quella storica ipocrisia normativa degli inadeguati, a tutto voler concedere, decreti flussi?
La risposta di chi ha a cuore i diritti e la Costituzione non può che rinvenire in queste assenze la vera urgenza, non quella del D.L. n. 20/2023 inopinatamente emanato a Cutro, davanti alle decine di morti di uno dei tanti naufragi nelle acque del Mediterraneo.
[1] http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/quaderno_statistico_per_gli_anni_1990_2020.pdf
[2] Si veda, in proposito M. Giovannetti, I perimetri incerti della tutela: la protezione internazionale nei procedimenti amministrativi e giudiziari, in Questione giustizia, aprile 2021; https://www.questionegiustizia.it/data/doc/2883/giovannetti-su-dati-protezione-internazionale-30-04-2021.pdf
[3] https://altreconomia.it/chi-ha-ostacolato-la-protezione-speciale/
[4] https://altreconomia.it/lasilo-negato-in-questura-ecco-le-prove-degli-ostacoli-alla-procedura/
[5] artt. 10, co. 2, lett. b), e 16, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 251/2007 (determinati reati commessi fuori dal territorio nazionale. La giurisprudenza ha esaminato l’art. 19, comma 1, prevalentemente all’interno del sistema di protezione internazionale, in presenza di cause ostative ex artt. 10 e16 d.lgs. 251/2007 (Cassazione nn. 25073/2017 - 26604/2020 - 11668/2020 - 17554/2021). P. Papa, Esclusione, non respingimento, protezione umanitaria: brevi note a margine di Cassazione n.11668 del 2020, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/esclusione-non-respingimento-protezione-umanitaria-brevi-note-a-margine-di-cassazione-n-11668-del-2020
[6] Orientamento sessuale e identità di genere aggiunti in sede di conversione in legge n. 173/2020 del D.L. 130/2020.
[7] I motivi di divieto sono più ampi di quelli del rifugio politico (razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica) perché in più ci sono: sesso, orientamento sessuale, identità di genere, lingua, cittadinanza, condizioni personali o sociali. In parte possono entrare nel gruppo sociale il sesso, l’orientamento sessuale, l’identità di genere ma non la lingua, la cittadinanza e le condizioni personali e sociali.
[8] Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti firmata A New York nel 1984 (ratif. in Italia con L. 498/88) - Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (ratif. in Italia con legge 7/89). Legge n. 110/2017 ha introdotto il reato di tortura: art. 613-bis c.p.
[9] Si pensi, ad esempio, agli obblighi della Convenzione di Istanbul di tutela contro la violenza basata sul genere, alla Convenzione di Varsavia contro la tratta degli esseri umani, ai divieti inderogabili previsti negli artt. 2 (Diritto alla vita), 4 § 1 (Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù) e 7 (Nulla poena sine lege) della Convenzione europea diritti umani, in forza di quanto disposto dall’art. 15§ 2 CEDU (La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 § 1 e 7.), ecc.
[10] Art. 8 CEDU comprende tra le eccezioni anche «benessere economico del paese, …. protezione della morale, ….protezione dei diritti e delle libertà altrui»: in genere viene interpretato come potere di regolamentazione flussi migratori e dunque elemento da bilanciare.
[11] Sulla questione si veda M. Ferri, La tutela della vita privata quale limite all’allontanamento: ’attuazione (e l’ampliamento) degli obblighi sovranazionali attraverso la nuova protezione speciale per integrazione sociale, in Diritto, immigrazione e cittadinanza n. 1/2021: https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/saggi/fascicolo-n-2-2021-1/762-la-tutela-della-vita-privata-quale-limite-all-allontanamento-l-attuazione-e-l-ampliamento-degli-obblighi-sovranazionali-attraverso-la-nuova-protezione-speciale-per-integrazione-sociale
[12] D.lgs 251/2007, d.lgs 25/2008, d.lgs 142/2015 e d.lgs 21/2015 attuativi della Direttiva qualifiche 2004/83/CE (poi rifusa nella Direttiva 2011/95/UE), della Direttiva procedure 2005/85/CE (poi rifusa nella Direttiva 2013/32/UE) e della Direttiva accoglienza 2003/9/CE (poi rifusa nella Direttiva 2013/33/UE.