Magistratura democratica
Magistratura e società

Qualche pensiero su «Strappare lungo i bordi»

di Sara Cocchi
avvocata in Firenze, consulente UE e OCSE

Rigorosamente senza pretendere di farne una recensione. Anche perché non è facile trovare qualcosa che non sia già stato detto, su questa serie uscita per Netflix il 17 novembre scorso

Sei episodi, un paio d’ore in tutto, che scorrono via a rotta di collo scandite dalla voce narrante del suo autore, Michele Rech, classe 1983. Raccontano di tre amici, Zerocalcare, Secco e Sarah, e di un viaggio in treno da Roma a Biella, a seguito di un evento che ha appena fatto irruzione nelle loro vite di quasi quarantenni un po’ misfits (con varie sfumature) e ancora molto “in cerca”. 

Fin dalle peripezie che precedono l’arrivo in stazione, ad ogni tappa del viaggio, di fronte allo spettatore si aprono sovrapposte una, due, venti finestre, che si stratificano, si completano, sembrano distrarre come inutili deviazioni dalla trama principale, per poi andare magicamente al loro posto in una sorta di puzzle a più dimensioni, in cui ogni pezzo ha una sua funzione propria e una sua specifica profondità. Mangiandosi le parole con la fretta di chi ha molto da dire e non sa da dove cominciare perché tutto è importante, il protagonista ci trascina in un gomitolo di divagazioni e riferimenti, personali, sociali, politici, pop, solo apparentemente sconclusionati, in realtà essenziali non solo per alleggerire, dove necessario, la trama della serie, ma anche, e soprattutto, per capire qualcosa di più del suo autore e di quello che gli urge comunicare.

Così, i flashback risalenti alla scuola media o superiore mostrano senza sconti, ma anche con una certa tenerezza, chi era Zerocalcare prima di Zerocalcare, chi era prima di oggi e chi è oggi proprio perché prima è stato ciò che è stato. Il dodicenne tutto centrato in se stesso, che inizia ad affrontare il tema della responsabilità, del quale per inesperienza e inconsapevole autocompiacimento, amplia a dismisura i contorni prima che Sarah lo metta di fronte alla nuda (quasi evangelica: Mt, 6:28-31), verità: «Ma 'n te rendi conto de quanto è bello? Che non porti er peso der mondo su 'e spalle, che sei soltanto un filo d'erba in un prato. Nun te senti più leggero?». Poi l’adolescente “assoluto”, che non esita ad immolarsi e «farsi carico del dolore collettivo» per quanto accaduto a Genova nel 2001, ma che al tempo stesso arrossisce fino alle orecchie quando Alice inizia a «battergli i pezzi» invitandolo fuori a fumare una sigaretta o scrivendogli “faccine” su Messenger. Infine, il giovane adulto, che in fondo conosce chi vuole essere, ma si barcamena senza il minimo entusiasmo fra tragicomiche ripetizioni ad una pittoresca fauna di studenti svogliati e spasmodici invii di cv già oggetto di un solido maquillage, nella segreta speranza di non essere comunque chiamato da nessun potenziale datore di lavoro, perché poi si deve scegliere, perché ogni scelta sembra tagliar via irrimediabilmente ogni altra opzione sul tavolo, perché si ha paura di dover metter fine a quel limbo lattiginoso in cui ci si trova un attimo prima di capire che si è “grandi” davvero. 

E poi c’è il “Calcare” di oggi, quello che, anche se non vuole, anche quando non vuole, fa i conti con chi è, con chi era e con chi è diventato, sotto lo sguardo protettivo ma impietoso dell’Amico Armadillo, che fin dalla più tenera età lo accompagna senza risparmiargli, neppure per un giorno (o quasi; ma non faccio spoiler) taglienti prediche a mezza bocca e consigli non richiesti. 

Eccolo, allora, questo adulto-anche-se-non-sembra, o che tale non vuol sembrare, o che, in fondo in fondo, del tutto adulto non ci si sente. Quello che dopo aver tentato in ogni modo di sfuggirgli, di metterlo sotto un tappeto di ricordi, storie, tic e fissazioni, si trova a fare i conti con il dolore, con l’assenza di risposte, con l’irrazionalità della vita o solo di alcuni suoi - enormi - episodi, con il fatto che sentirsi responsabili (e persino volersi sentire responsabili) di ciò che accade non basta a spiegarlo, questo dolore, tantomeno a mettersene al riparo. Lo vede bene Armadillo, che in treno, nell’episodio 4 “sgama” Zero in un attimo. Non basta seppellire tutto sotto tonnellate di digressioni, dinosauri giocattolo, film culto, aneddoti, discussioni pretestuose, videogiochi degli anni ’90, serie tv, accumulati davanti allo spettatore come gli oggetti derelitti sul tavolo «Approdo superfluo». 

Non basta neppure intestardirsi a «strappare lungo i bordi» della vita che pensavamo si sarebbe srotolata placida di fronte a noi, come non è sufficiente tornare ciclicamente a convincersi che tutto dipenda da noi, che tutte le responsabilità sono nostre, se poi al momento di assumersi quelle due o tre davvero decisive, da quel bordo tratteggiato con cura, non deviamo neanche per un istante. «Bravo. Sei un grande. Sei cintura nera de come se schiva la vita. Quinto dan», affonda Armadillo in uno dei momenti più intimi e solitari della serie. 

Che poi, questi bordi, chi li disegna? Siamo sicuri che sia “la Società”, a farlo? Quest’essere misterioso, Colpevole Ultimo, che alla fin fine nessuno ha mai visto ma di cui tutti facciamo parte credendo però di esserne al tempo stesso distinti, separati, altro... O siamo piuttosto noi stessi, che ce li disegniamo attorno belli spessi, ben visibili, per rassicurarci e proteggerci, quando pescheremo una carta - buona o cattiva che sia - dal mazzo degli imprevisti? 

A tanto solipsismo, a tanta sconfitta apparentemente senza redenzione, l’autore offre sul finale un appiglio di speranza. Un armistizio che vada al di là dell’individuo e dei suoi bordi, che implica accogliere – non con rassegnazione, ma con comprensione - le «forme frastagliate» di cui siamo fatti, accettando di essere tutti un po’ «ciancicati». Un po’ sprecisi, ecco. La “forma” artificiale di cartoncino è pronta per finire nel fuoco, e noi che ci raccogliamo intorno ad esso siamo pronti per farcene scaldare. Insieme ad altri come noi. Saremo anche stropicciati, e allora? E’ il calore, a rassicurarci, adesso, in quell’esercizio perpetuo «mica facile» che è il «tenere insieme i pezzi della propria identità» mentre si cammina sulle uova (L’elenco telefonico degli accolli, 2015); non più i bordi perfetti lungo i quali credevamo di dover strappare. 

Perché quando poi ne esci, da quei bordi, lo vedi da te che sì, certo, rassicurano, ma alla fine ti separano: da chi sei veramente; dagli altri; dal conforto di ritrovarti insieme con loro a scaldarti attorno al fuoco. 

 

photo credits: Michele Rech/Netflix

11/12/2021
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