Con la sua seconda serie animata, uscita su Netflix il 9 giugno scorso, Zerocalcare ci porta a “Tor Sta Ceppa”, una periferia romana inventata, in realtà una fusione fra più periferie romane reali nelle quali si sono verificati negli ultimi anni fatti analoghi a quelli raccontati nella serie[1].
La storia di un vecchio amico di gioventù tornato in quartiere dopo anni bui si intreccia con quella di un gruppo di migranti ricollocati da un municipio all’altro fino a capitare per caso, nella lotteria dei rimbalzi, proprio a Tor Sta Ceppa. Si avvia così una giostra di ostilità, bieco populismo, opportunismo politico, tragicommedia, sciacallaggio televisivo e resistenza urbana dalla quale Zerocalcare, Secco e Sarah saranno inevitabilmente coinvolti e travolti e a causa della quale finiranno per mettere in discussione le proprie convinzioni più profonde e i propri pluridecennali rapporti di amicizia.
A bordo di questa giostra, si affrontano dilemmi, primo fra tutti come sopravvivere al successo, o anche solo a un’inattesa svolta in una vita che si credeva fino a quel momento fallimentare, senza tradire i propri principi politici e morali[2], ma anzi, magari sfruttando la notorietà per fare qualcosa di “giusto”. Si tranciano giudizi, ad esempio nei confronti dell’amica da sempre eletta a “faro morale”, ritti sulle barricate dei principi. Ci si dibatte fra la delusione e il senso di colpa, rosi comunque da un tarlo che dice “forse non hai fatto abbastanza”. Si finisce poi per essere bersaglio di questi stessi avvitamenti. Si fanno gli scontri, in tutti i sensi.
Ad accogliere e sorvegliare il dipanarsi degli eventi della serie, nel presente e nei numerosi flashback che lo integrano, “La Periferia”: essere mitologico di infinite scienze sociali, per Zerocalcare è un luogo dell’anima e un luogo concretissimo, che sempre partecipa alle vicende che l’autore racconta, sia costituendone lo sfondo, sia prendendo parte all’azione come una sorta di personaggio collettivo, simbolico e materiale, refrattario ai tentativi di definizione. Un luogo ordinario, un posto fra i tanti, in cui ognuno ha “gli impicci suoi” e cerca di far star tutto in equilibrio proprio come si fa al supermercato con una torre di vasetti di yogurt e confezioni di merendine, un posto che non si osserva al microscopio, ma si vive come la vita, che a volte te la fa “prendere bene”, e a volte no.
Alzi la mano chi non è mai stato in periferia.
C’è infatti un’altra periferia, che Zerocalcare racconta, sottotraccia, meno appariscente, anzi, la più invisibile fra le invisibili. E’ la periferia esistenziale, l’esperienza dolorosa e straniante di non essere, o almeno di non sentirsi, al posto giusto, là dove “avvengono le cose”, quelle che contano davvero. E’ la periferia adolescenziale, percepita rispetto a praticamente qualunque altro gruppo di coetanei; oppure quella dell’età adulta, delle scelte laterali, che talvolta generano incomprensione; oppure ancora, una periferia lavorativa e di realizzazione delle proprie aspirazioni, governata da funesto e implacabile mors tua, vita mea al quale le circostanze (davvero, poi?) ci hanno costretto: quella periferia che Sarah cerca indefessamente di abbandonare, forse anche a costo delle proprie convinzioni politiche; la periferia delle reti sociali, quella della madre di Cesare, che per vergogna si isola sempre di più anche da coloro che in buona fede vorrebbero mostrarle la loro vicinanza. Una periferia anche geografica e politica è poi quella degli “indesiderabili”, i migranti chiusi nel centro di accoglienza di quartiere che tutti vogliono sgomberato, e al più presto. Una ineluttabile periferia della vita, che per alcuni, come il Cesare co-protagonista della serie, rappresenta una sorta di somma di tutte le periferie precedenti e coesistenti. Sono periferie che si sovrappongono.
Ecco allora un altro tema profilarsi all’orizzonte: quello delle macerie che ognuno lascia – e tutti collettivamente lasciamo - dietro di sé quando non considera queste periferie esistenziali, quando si muove sulla scacchiera della propria vita come se esse non ci fossero. Così, anche solo per quell’attimo prima che il gallo canti, non si esita a rinnegare tutto ciò in cui si è creduto pur di mettere al riparo un traguardo tanto inseguito, o a rimpallarsi da una parte all’altra della città un gruppo di migranti che da “persone” diventano un “problema”. Magari non si riesce a gioire del tutto per le conquiste altrui perché sotto sotto c’è qualcosa che “ci fa rosicare”, o perdiamo di vista l’amico in difficoltà, non per cattiva volontà o per trascuratezza, ma solo perché le strade a un certo punto si dividono. E intanto, dalle macerie che ognuno lascia dietro di sé, nascono muri. Nessuno è risparmiato dal produrle né dal finirne circondato, e neppure dal grande ed inevitabile rischio di giudicare gli altri dall’altro della propria – pur periferica – torre d’avorio fatta di diffidenze, silenzi, ostilità. E le macerie crescono e si autoalimentano. Già a queste stesse macerie l’autore aveva dedicato ben due volumi (2017), nei quali aveva esplorato i rapporti con i coetanei, gli amici ritrovati in occasione del matrimonio di un amico, tutti a fare bilanci più o meno sinceri e spietati sulla propria condizione e sulla direzione delle proprie vite, in un confronto per forza di cose diseguale perché diseguali sono le premesse sulle quali ciascuno dei personaggi (e ciascuno di noi) lo affronta. Nella seconda serie animata, le macerie sono non più solo o prevalentemente personali, ma si rivelano anche inevitabilmente collettive e sociali, relazionali, nell’interazione fra se stessi e tutti gli “altri” con i quali le vite di ciascuno di noi si intrecciano.
Immerso – ma, grazie all’autoironia, mai completamente schiacciato – in tali pensieri, Zerocalcare rivela la complicata fatica necessaria per perseguire un difficilissimo equilibrio: cercare di comprendere e sostenere le “periferie” che ci circondano, senza pretendere di salvarle. “Accoglierle”, nella consapevolezza che quella inevitabile porzione di incomunicabilità che ci separa gli uni dagli altri non può impedire la vicinanza, la prossimità (già uno dei temi centrali di Strappare lungo i bordi), tantomeno fungere da alibi quando non riusciamo a farci “prossimi” altrui. E’ un processo costante, sempre incompiuto, che si applica tanto alla dimensione “micro” della nostra ristretta cerchia di conoscenze quanto alla scala “macro”, sia essa il quartiere o il resto-del-mondo.
Certo che gli standard etico-morali rischiano di farsi altissimi, e alcuni dialoghi con il cinico Armadillo lo testimoniano, ma tant’è: è una lotta, quella di Zerocalcare e di chi guarda al mondo con una prospettiva simile alla sua, un confronto costante che occupa buona parte dei processi decisionali privati di chiunque si interroghi sui riflessi “pubblici” o comunque collettivi delle proprie azioni, sul contributo che ognuno può dare. Solo in questo modo, sembra dirci l’autore, è possibile evitare il rischio che riflettere su tutto questo si traduca in una sterile e compiaciuta contemplazione del proprio ombelico. E’ proprio da questi rovelli, e dai tentativi pur imperfetti di trasformarli in pratica, che nasce la speranza di oltrepassare le macerie che ci circondano e magari di ricostruirci qualcosa, per piccolo che possa essere e per quanto alto sia il rischio di fallire e di dover magari ricominciare da capo. Ciascuno per conto proprio, è vero, ma mai completamente da soli.
photo credits: Zerocalcare/Netflix Italia
[1] Zerocalcare: «Non servono maestrini per giudicare la periferia e le sue contraddizioni», in il Manifesto, 9 giugno 2023, https://ilmanifesto.it/zerocalcare-non-servono-maestrini-per-giudicare-la-periferia-e-le-sue-contraddizioni
[2] Argomento peraltro più volte sviscerato con ironia e sincero spaesamento dall’autore, da ultimo anche nella storia Il castello di cartone, inclusa nel volume Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia, Bao Publishing, 2021.