Magistratura democratica
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Qualche riflessione in tema di negazionismo

di Vartan Giacomelli
Sostituto Procuratore della Repubblica di Padova
Reato di negazionismo e concetto di genocidio
Qualche riflessione in tema di negazionismo

Le iniziative di legge aventi ad oggetto la previsione di sanzioni penali per chi nega crimini di genocidio hanno sollecitato riflessioni e dibattiti, in particolare sulla possibilità di contrastare il negazionismo con lo strumento dell’intervento penale.

Il disegno di legge n. 54, presentato al Senato, introduceva modifiche all’art. 3 della L. 654/1975 prevedendo, tra l’altro, una sanzione “fino a 3 anni di reclusione e fino a € 10.000,00 di multa colui che pone in essere attività di apologia, negazione, minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra come definiti dalla L. 232/1999”. Trattasi di disegno di legge che esprimeva il chiaro intento di ampliare la portata degli impegni originariamente assunti dallo Stato Italiano in sede di ratifica ed esecuzione della convenzione di New York del 7.03.1966 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, individuando nuovi reati per fronteggiare il fenomeno del “negazionismo” in tutte le sue forme di manifestazione. La formula normativa presentava, tuttavia, alcune evidenti criticità: in particolare, la mancanza di ogni riferimento al carattere pubblico (e come tale pericoloso) della condotta di negazionismo, il carattere indefinito della condotta di minimizzazione e la previsione di una stessa sanzione per tutte le condotte previste dal “nuovo” art. 3 della L. 654/1975 pur caratterizzate da diverso disvalore sociale (apologia e negazione di genocidio, istigazione all’odio razziale).

Con un emendamento approvato in commissione Giustizia del Senato, si è spostata la prospettiva passando da una modifica della L. 654/1975 ad un intervento sul codice penale. La nuova norma modifica l'articolo 414 del codice penale, prevedendo che "fuori dei casi di cui all'articolo 302, se l'istigazione o l'apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo, crimini di genocidio, crimini contro l'umanità o crimini di guerra, la pena è aumentata della metà. La stessa pena si applica a chi nega l'esistenza di crimini di genocidio o contro l'umanità". Vengono, così, superate alcune delle criticità sopra evidenziate, residuando peraltro un profilo di mancato coordinamento normativo con la previsione già esistente del reato di apologia del delitto di genocidio di cui all’art. 8 della legge 9 ottobre 1967 n. 962 (“prevenzione e repressione del delitto di genocidio”) ove si punisce da 3 a 12 anni di reclusione “chi pubblicamente istiga a commettere il delitto di genocidio o chi pubblicamente fa apologia di tale delitto”.

Al di là dei rilievi tecnici sulla normativa all’esame del Parlamento, il dibattito sul negazionismo si è, in realtà, sviluppato attorno alla questione sollevata da coloro che ritengono inammissibile in radice la possibilità di sanzionare giuridicamente questo tipo di condotte. Tale asserzione viene posta a partire dalla condivisibile affermazione per cui le verità storiche non si impongono a colpi di norme e anche la più sbagliata delle opinioni (negare un genocidio indubbiamente rientra tra queste) non può essere combattuta con l’arma della sanzione penale, ma solo attraverso la ricerca storica e la sensibilizzazione etica e culturale.

E’ mia opinione che, tuttavia, quando si parla di negazionismo di genocidi, quella premessa, così limpida ed incontestabile, debba fare i conti con le urgenze e le complessità che il tema impone, a partire dall’analisi concettuale della nozione di genocidio e di negazionismo.

Con il termine genocidio non si esprime un concetto naturale ma una nozione frutto di un’elaborazione teorica maturata nella prima metà del ‘900, che ha avuto una sua definizione giuridica controversa; il concetto di genocidio, termine coniato nel 1944 dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin, risponde alla necessità di definire la distruzione di un gruppo nazionale o di un gruppo etnico “in quanto tale”. Nella sua opera “Axis Rule In Occupied Europe”, dedicata all'Europa sotto la dominazione delle forze dell'Asse, Lemkin vedeva la necessità di un nuovo termine per descrivere la tragedia della Shoà e fece anche riferimenti al Genocidio Armeno. La sua intuizione fu quella di cogliere in questi eventi del ‘900 un elemento di drammatica novità rispetto al passato; in particolare, il fatto che l’annientamento di un popolo era stato, in quei casi, pianificato sulla base di un’ideologia fanatica in grado di sostenere la volontà di un gruppo dominante di distruggere non solo la presenza fisica di una minoranza, ma anche la sua identità storica e culturale, negando ad essa semplicemente il diritto di esistere.

La cristallizzazione normativa del concetto di genocidio è stato il frutto di un compromesso: l'11 dicembre 1946, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite riconobbe il crimine di genocidio con la risoluzione n. 96 come "una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte". Il riferimento a "gruppi politici", un'aggiunta rispetto alla proposta di Lemkin, non era gradito all'Unione Sovietica, che fece pressioni per una formulazione di compromesso. Il 9 dicembre 1948 fu adottata, con la risoluzione 260 A (III), la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che, all'articolo II, definisce il genocidio come “Uno dei seguenti atti effettuato con l'intento di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale”. In questa definizione, ripreso anche nella definizione di “atti di genocidio” contenuta nell’art. 1  L. 962/1967, sono indicate le caratteristiche proprie di un genocidio: distruzione di gruppi omogenei di individui, annientamento come fine e non come mezzo, intenzionalità dell’azione, vittima scelta solo per l’appartenenza ad un gruppo.

In questa prospettiva, si può cogliere la specificità di ciò che possiamo definire genocidio e la rilevanza dei valori di umanità che con esso vengono messi in gioco: al di là dei tanti e concreti rischi di strumentalizzare questa definizione (in un’epoca, come quella attuale, in cui la definizione di genocidio ricorre spesso e per gli eventi più diversi) o di entrare in atteggiamenti culturali stereotipati (assai insidioso può essere un uso pubblico e retorico della memoria), è indubbio che sono pochi i temi che come questo richiedono un continuo investimento culturale e morale, volto a prendere coscienza di quali implicazioni comporta il riconoscimento di questi eventi: la lezione della Storia (Cambogia, Bosnia, Rwanda, Darfur) ci aiuta a capire come ad ogni deficit di memoria e responsabilità è sempre corrisposta un’inerzia e una rimozione che ha posto le condizioni del verificarsi di questi eventi e del loro ripetersi.

Ragionare di negazionismo significa capire che connesso alla dinamica con cui si pianifica ed esegue un genocidio è il meccanismo della sua negazione: il negazionismo si manifesta in molti modi, ma nella sua natura più vera non costituisce un accidente, bensì rappresenta il frutto maligno delle ideologie che generano i genocidi: il vero negazionista, diventa attore di queste dinamiche di rimozione, assumendo su di sé quella che, con brutta ma efficace espressione, viene definita la cultura genocidiaria.

Emblematico è il caso del Genocidio Armeno, ove la politica negazionista coltivata dallo Stato Turco dopo la nascita della Repubblica nel 1923 fino a giorni nostri, rappresenta un’evidente manifestazione di questa dinamica: l’annientamento del popolo armeno nel 1915, da verità storica che necessitava un’elaborazione nella memoria identitaria della Nazione ove il crimine si era consumato (come accadde nella Germania del secondo dopoguerra), è divenuta un tabù, un fatto da rimuovere dalla coscienza nazionale: un tale atteggiamento negazionista, a quasi cento anni di distanza dal fatto, potrebbe apparire incomprensibile se non si cogliesse l’intima connessione tra quella politica negazionista e l’ideologia nazionalista che, nella sua forma estrema e fanatica, generò il piano genocidiario.    

Riflettere sulla possibilità di contrastare, anche con la norma giuridica, il negazionismo quando questo diventa strumento di pubblica propaganda (non certo, quindi, ad una qualunque opinione critica, per quanto infondata o provocatoria che sia) significa accettare la possibilità che tali atteggiamenti si possano verificare anche all’interno di società democratiche, ove il tessuto di coscienza collettiva di certi valori a volte si presenta fragile ed esposto a rigurgiti di ogni tipo.

La condotta negazionista porta, quindi, con sé la potenzialità di incidere sui valori fondanti la nostra convivenza e l’esigenza di porre limiti alla diffusione di tali idee non può essere liquidata come aberrazione da Stato etico o come aggressione alla libertà di opinione o di ricerca dello storico: a riguardo, si può, anzi, affermare che tanto più sereno sarà lo sguardo di quest’ultimo, quanto più gli sarà permesso di approfondire le complessità e i nodi problematici di un genocidio, nello spazio di verità che il riconoscimento dell’evento in quanto tale gli garantisce.

In buona sostanza, un conto è accettare l’esistenza di diversi livelli di consapevolezza e di piani di ricerca, altro è sottrarsi alla responsabilità di tutelare un’autentica memoria di quegli eventi con tutti gli strumenti di cui disponiamo (culturali ma anche giuridici) ed eludere il rischio di vedere nuovamente messi in discussione quei diritti e principi che i genocidi hanno cercato di distruggere.

La sfida vera è quella di comprendere che la norma può costituire valido presidio di quelle libertà e non strumento di verità ufficiali da imporre solo se chi la applica è consapevole della complessità e delicatezza dell’intervento giudiziale su questi temi: ipotizzare condotte penalmente rilevanti, ove non venga esplicitato il carattere pericoloso di una propaganda negazionista, può rimandare a formula vuote e rischiose, ma certo non dobbiamo temere, come uomini e a maggior ragione come operatori del diritto, di incamminarci nell’impervia strada della conoscenza dei fatti e della ricerca, ove necessario, di vere responsabilità.  

25/11/2013
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