Magistratura democratica
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Quale condanna per i negazionisti? Alcune riflessioni sul recente ddl in materia di "negazionismo"

di Antonello Ciervo
Professore a contratto Universita' di Perugia
Libertà di opinione, offensività della condotta, verità di Stato e dovere di conoscenza
Quale condanna per i negazionisti? Alcune riflessioni sul recente ddl in materia di  "negazionismo"

Sia consentita una breve premessa personale, prima di affrontare il tema oggetto di questo lavoro: chi scrive ritiene che negare eventi come l’Olocausto sia deprecabile, soprattutto se coloro che fanno pubblicamente simili dichiarazioni, si definiscono “storici” di professione, ovvero personaggi pubblici che inneggiano a ideologie xenofobe e razziste, ormai superate dalla storia. In questa ottica, la condanna di chi scrive nei confronti dei negazionisti è netta ed assoluta. Tuttavia la mia è una condanna culturale, una condanna che, come si cercherà di dimostrare, non può concretizzarsi in una sanzione penale.

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Nel corso del mese di ottobre 2012, è stato presentato il disegno di legge A. S. n. 3511, intitolato “Modifica all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale”. Il d.d.l. aveva come obiettivo quello di modificare l’articolo 3 della legge n. 654 del 1975, al fine di contrastare, così come si poteva leggere nella relazione introduttiva al d.d.l. medesimo, tutte “… quelle forme di «negazionismo», cioè negazione o minimizzazione, del fenomeno del genocidio degli Ebrei e di altre minoranze etniche, che costituiscono uno degli aspetti più odiosi delle pratiche razziste”.

Il d.d.l. si ispirava esplicitamente alla decisione-quadro 2008/913/GAI del Consiglio europeo e, in questo modo, si proponeva di aggiungere all’articolo 3, comma 1, lettera b) della legge n. 654 del 1975 – a sua volta già modificata dalla c.d. “legge Mancino” –, la lettera b-bis) che prevedeva la reclusione fino a tre anni di “chiunque, con comportamenti idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232, e dei crimini definiti dall’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945 [il Tribunale di Norimberga], ovvero nega la realtà, la dimensione o il carattere genocida degli stessi”.

Conclusasi in maniera repentina la XVI legislatura, il d.d.l. in questione è stato ripreso nel corso dell’attuale e il 22 ottobre 2013 la relatrice, On. Capacchione, chiedeva di discutere un nuovo d.d.l., che si andava a sostituire al vecchio A. S. n. 3511, e che aveva come obiettivo – questa volta – di emendare l’articolo 414 del codice penale, in particolare: a) il terzo comma, inserendo le seguenti modificazioni: “La pena di cui al primo comma, numero 1) [la reclusione da 1 a 5 anni], si applica a chiunque nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità o di guerra”; b) l’ultimo comma, che verrebbe così sostituito dal seguente testo: “Fuori dei casi di cui all’articolo 302, se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo, crimini di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, la pena è aumentata della metà”.

Come evidenziato dalla relatrice, nella seduta in commissione del 24 ottobre 2013, il d.d.l. nasce alla luce di recentissimi fatti di cronaca: il video-testamento di Priebke e la rivolta dei cittadini di Albano che si sono opposti alla celebrazione delle sue esequie in una Chiesa locale, le svastiche apparse sui muri di Roma alla vigilia del settantesimo anniversario del rastrellamento del ghetto capitolino, fino ad arrivare alla minaccia all’ordine pubblico rappresentata da “nuove” formazioni politiche xenofobe e razziste, come “Alba Dorata” in Grecia. L’obiettivo del d.d.l., in sintesi, è quello di punire con la reclusione, da uno a cinque anni di carcere, chiunque neghi l’esistenza di crimini di genocidio, contro l’umanità o di guerra, oltre alla previsione di una circostanza aggravante, all’ultimo comma dell’art. 414 c. p., nei casi di istigazione o apologia dei suddetti delitti.

Ora, sembra assai difficile che ad oggi, nel nostro Paese, si possano verificare concretamente i fatti previsti dall’aggravante dell’ultimo comma dell’art. 414 c. p., così come modificato dal d.d.l. in commento: lo dico perché, come ricordato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 65/1970, l’istigazione (e l’apologia) punibile ai sensi della suddetta disposizione è quella che, per le sue modalità, integri concretamente un comportamento idoneo a provocare la commissione dei delitti tassativamente elencati dal legislatore. Quindi, affinché si applichi questa disposizione, è necessario che qualcuno faccia l’apologia di eventi delittuosi che concretamente si siano già verificati, ovvero che si verificheranno proprio in ragione delle dichiarazioni apologetiche e/o istigatrici incriminate.

Risulta chiaro, ad un osservatore ragionevole, che una simile disposizione, qualora dovesse entrare in vigore, resterebbe inapplicata. Essa, quindi, svolgerebbe una mera funzione simbolica, non certo sanzionatoria e repressiva: del resto, un paese che sta vivendo il dramma di un genocidio o di una guerra in corso, avrebbe forse istituzioni giudiziarie in grado di esercitare l’azione penale nei confronti di coloro che commettono un simile reato? Ma soprattutto, sarebbe in grado, un simile paese di esercitare l’azione penale nei confronti di un così ampio numero di cittadini che, appoggiando la guerra o il genocidio in atto, di fatto giustificano simili avvenimenti e dunque ne fanno apologia (o, peggio ancora, istigano i loro concittadini a commettere simili atrocità) ?

Più interessante, risulta la modifica all’art. 414 c. p. per quanto concerne la formalizzazione del reato di negazionismo. Anche qui le perplessità non mancano, innanzitutto con riferimento alla sedes materiae: negare pubblicamente un evento storico non significa istigare qualcuno a delinquere, significa semplicemente esprimere un’opinione, discutibile quanto si vuole, ma pur sempre un’opinione riconducibile nell’alveo dell’articolo 21 della Costituzione.

In verità, dalla formulazione della norma, non si riesce neppure a desumere, in termini di stretta legalità, la condotta incriminatrice oggetto del reato: ad esempio, sebbene non sia mai stato istituito un Tribunale internazionale che abbia dichiarato che l’esplosione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki siano da considerarsi un crimine contro l’umanità, certo non si potrà negare l’esistenza dell’evento storico “Hiroshima”. Tuttavia, se io negassi pubblicamente l’evento storico “Hiroshima”, dubito fortemente che qualche mio concittadino, affascinato da questa mia tesi, si organizzi per sganciare una bomba al plutonio su qualche metropoli italiana.

Siccome però, come si ricordava in precedenza, la Corte costituzionale con la sentenza n. 65/1970, ha affermato che l’apologia (e l’istigazione), punibile ai sensi del’art. 414 c. p., è quella che per le sue modalità integri concretamente un comportamento idoneo a provocare la commissione dei delitti elencati, incluso a questo punto anche il caso del negazionismo, risulta evidente che, anche in termini di prevenzione astratta del bene giuridico tutelato, una simile conseguenza alle mie dichiarazioni sarebbe assolutamente irrealizzabile. In termini rigorosamente penalistici, insomma, la condotta incriminata (ossia la mia dichiarazione negazionista) è ontologicamente priva di offensività giuridica.

A ciò si aggiunga, inoltre, che nessuno oggi considera un crimine contro l’umanità gli eventi storici legati alla distruzione di Hiroshima e Nagasaki e neppure, ad esempio, al bombardamento di Dresda da parte delle forze anglo-americane. Le valutazioni degli eventi storici, infatti, dipendono anche dal punto di vista del vincitore: per i nazisti, i partigiani erano dei banditi, dei fuori-legge, e tali sarebbero stati considerati, se le truppe alleate non ci avessero liberato dalla morsa dei regimi totalitari che, democraticamente, erano saliti al potere in Europa tra le due guerre mondiali. Allo stesso modo, nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso, Nelson Mandela – futuro presidente del Sudafrica post-apartheid e padre di una delle Costituzioni contemporanee più democratiche del mondo – veniva considerato come un pericoloso terrorista, oltre ad essere il criminale più ricercato del Commonwealth britannico.

In realtà, si potrebbe controbattere a questo mio ragionamento che la ratio della norma è chiara: nell’attuale momento storico, in tutta Europa stanno riprendendo piede movimenti politici razzisti e xenofobi che utilizzano le tesi negazioniste per creare consenso nell’opinione pubblica e per giustificare determinati comportamenti violenti. Per arginare questi fenomeni criminali – si pensi,come sottolineato proprio dalla relatrice del d.d.l. in analisi, al fenomeno “Alba Dorata” in Grecia–, è allora necessario che le istituzioni democratiche diano un segnale, anche in termini giuridici, prevedendo sanzioni penali finalizzate a reprimere questi comportamenti. Ora, fermo restando che invece di reprimere certi fenomeni forse bisognerebbe riflettere sulle cause che li producono, ma davvero possiamo pensare che l’obiettivo di normative, come quella che si sta qui analizzando, sia quello di reprimere sul nascere nuove forme di intolleranza razziale che, facendosi scudo della libera manifestazione del pensiero, rischiano di ritornare egemoni nel dibattito culturale e politico, con il pericolo poi di riprodurre a loro volta – su piccola o larga scala che sia – gli effetti nefasti del totalitarismo novecentesco ?

Consideriamo l’evento storico dell’Olocausto, con riferimento al triste destino del popolo ebraico: in tale ottica, la tragicità di quegli eventi non poteva non spingere il legislatore italiano ad inserire il reato di “negazionismo” nel nostro ordinamento giuridico, proprio al fine di tutelare le minoranze ebraiche dalle dichiarazioni di coloro che, con il pretesto di negare o minimizzare l’evento storico dell’Olocausto, in realtà avevano come obiettivo soltanto quello di rinnovare l’odio razzista e xenofobo nei confronti di un popolo che è stato vittima delle peggiori discriminazioni della storia occidentale.

Tuttavia, non si può dimenticare che tra le vittime dell’Olocausto non si annoverano soltanto gli ebrei, ma anche un’articolata pluralità di gruppi o di minoranze sociali e politiche: si pensi soltanto all’Olocausto dei rom e dei sinti, al c. d. “Omocausto” degli omosessuali e delle lesbiche, senza dimenticare lo sterminio dei dissidenti politici del regime hitleriano uccisi nei lager nazisti. Non c’erano soltanto le stelle di David ad Auschwitz, quindi, ma anche i triangoli rosa e neri degli omosessuali, i triangoli viola dei Testimoni di Geova, quelli marroni degli zingari, quelli blu dei migranti e quelli rossi degli oppositori del totalitarismo.

Non è certo questa la sede per approfondire la storia dello sterminio pianificato di tutti questi gruppi all’interno della galassia concentrazionaria nazista: tuttavia, utilizzando lo stesso ragionamento impiegato per giustificare l’introduzione del reato di negazionismo nel nostro ordinamento giuridico, si potrebbe affermare che non c’è neppure bisogno di citare le fonti storiche per sapere che tra le milioni di vittime dell’Olocausto c’erano anche altre minoranze e gruppi perseguitati dal nazismo. Di più, si potrebbe anche affermare che la ricostruzione storica di questi eventi risulta talmente acclarata da non dover neppure essere messa in discussione.

Eppure, negli ordinamenti europei contemporanei, incluso quello italiano, non si discute di introdurre il reato di “negazionismo” dell’Olocausto omosessuale e lesbico, né di quello dei rom e dei sinti, né di quello dei Testimoni di Geova, né – più in generale – di coloro che si sono opposti politicamente al totalitarismo nazista. Perché ? E’ questa forse la domanda, insieme a quella sulle cause del ritorno di fenomeni diffusi di xenofobia e violenza politica, a cui una società democratica dovrebbe cercare di dare una risposta.

A ben vedere, quella della criminalizzazione delle opinioni negazioniste, potrebbe essere considerata una questione di laicità delle istituzioni democratiche: come non esiste ormai più una “religione di Stato”, allo stesso modo non può esistere una “verità di Stato” su determinati eventi storici, una “verità” cioè che faccia da filtro tra le opinioni dei singoli che sono da considerarsi lecite e quelle che, invece, non lo sono. Del resto, erano proprio i regimi totalitari – di cui si paventa il ritorno attraverso le opinioni negazioniste –, a sanzionare penalmente tutti coloro che rifiutavano o non riconoscevano le ideologie poste a fondamento di una determinata tipologia di Stato, non a caso definito “etico” dai filosofi di regime.

Il concetto di democrazia, invece, è sempre legato all’idea di pluralismo: uno Stato è tanto più democratico, quanto più consente il manifestarsi di opinione differenti e discordanti tra loro, quanto più stimola il dibattito pubblico e invita i propri cittadini a discutere sulle ragioni del loro vivere insieme. Uno Stato che si definisce davvero democratico, quindi, non può introdurre nel proprio ordinamento giuridico una norma che sanziona penalmente tutte le opinioni “non ortodosse” che si discostano dalla ricostruzione “ufficiale” di un determinato evento storico. Al contrario, invece di sancire delle “verità di Stato” che, se negate pubblicamente, conducono direttamente al carcere, sarebbe forse auspicabile che gli appartenenti ad una comunità politica si facessero carico di un vero e proprio “dovere di conoscenza” del proprio passato, inteso quest’ultimo come dovere civico, nell’accezione più letterale del termine.

Le verità di fatto che attengono agli eventi storici, infatti, sono sempre opinabili e questo perché l’evidenza fattuale è stabilita mediante la narrazione dei testimoni oculari, degli archivi e dei documenti, la cui veridicità può essere sempre rimessa in discussione. Esse risultano continuamente “vulnerabili” da parte di coloro che cercano di negarle, ma – questo è il punto – la capacità di negare la verità dei fatti storici è paradossalmente uno dei pochi chiari e dimostrabili dati che confermano l’esistenza della libertà in uno Stato costituzionale democratico. Come ebbe modo di affermare John Stuart Mill, nel suo celebre libello On the Liberty: “Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate”.

18/12/2013
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