“Nel 1996 David Irving accusò di diffamazione la scrittrice Deborah Lipstadt per averlo definito negazionista dell’Olocausto. Ebbe così inizio il processo che dimostrò la verità della Storia”.
Questa presentazione dell’intenso film “Denial” (“La verità negata”) del regista britannico Mick Jackson, sovrascritta sullo schermo, all’inizio del trailer in italiano, sembra troppo impegnativa, a prima lettura.
La storia del film, però - realmente accaduta e dipanata su una sceneggiatura molto profonda - ne spiega infine tutto il significato.
“La verità negata” non è soltanto un film sull’Olocausto. Eppure, dai primi agli ultimi fotogrammi incombe sullo spettatore l’evocazione efficace dell’orrore e del dolore: nelle troppe numerose scarpe senza lacci ammassate nelle bacheche di Auschwitz, nelle scale grigie del crematorio su cui si ferma la camera, quando soltanto per un istante si intravedono i troppo numerosi prigionieri che scendono verso la morte con l’immagine sfumata come il fumo che diverranno, nell’apparire fugace dei volti straziati e nei rumori che non si sentono dietro il buco rotondo delle porte delle camere a gas, nella distanza a cui il bravissimo barrister assiste al canto di preghiera della professoressa e della guida ebrei e, poi, in quel cadere della neve sempre uguale, inesorabile, sulle provocate rovine degli stabilimenti di morte di Auschwitz.
“La verità negata” è, per i critici esperti di cinema, un legal drama dal ritmo non particolarmente serrato e senza colpi di scena.
Ma, forse, il film non colpisce per questo, almeno non chi di mestiere ha fatto il giudice civile perché rassicurato dal fatto che è la verità processuale a contare, per rendersi conto poi, con gli anni, che il dubbio che esista un’altra verità dei fatti, quando si appone la data sulla sentenza, prima della firma, continua a restare ingombrante sulla scrivania.
Il film rimane nello spettatore, quando si riaccendono le luci, perché racconta, attraverso la distanza che separa la professoressa imputata dai suoi legali, tutto il dramma della ricerca della verità da parte del giudice e dei difensori: per provare in giudizio una verità della Storia, i difensori devono offrire prove e scelgono di escludere l’esperienza soggettiva di chi ha vissuto la paura e l’annientamento, perché alla verità del processo occorrono fatti.
Così, tra la professoressa Lipstadt e i suoi legali sembra scavarsi un solco profondo di incomunicabilità: come si può scegliere, per strategia processuale, di tenere fuori dall’aula il dolore e l’orrore dei sopravvissuti?
Prima di ritirarsi, il giudice chiede alla difesa dell’imputato se la genuinità di una persona negazionista e antisemita non possa essere condizione necessaria e sufficiente per credere che quella verità negata sia comunque una “sua” verità: di nuovo, allora, la professoressa - che non sa di diritto - non può comprendere il senso profondo di questa domanda e di questa dinamica processuale (chiede, infatti: “cosa sta succedendo?”).
Poi, nella chiusa, il film offre ancora un altro spunto, il difficile confine alla libertà di manifestazione del pensiero. La professoressa rivendica (nella traduzione italiana): “La terra è rotonda, le calotte polari si sciolgono ed Elvis non è vivo. Io non attacco la libertà di parola, difendo solo il diritto di lottare contro chi vuole sovvertire la verità”. E questo, detto da una studiosa di storia, in conferenza stampa e alla presenza del suo editore, ha il senso di rimarcare che occorre, più che mai in tempi di web e di comunicazione di massa, restare vigili di fronte a ciò che si ascolta, si vede, si legge, perché soltanto dal confronto e dallo studio libero e indipendente ci si accosta alla verità dei fatti.
Infine, tutto il film ci fa pensare al senso della Storia, come ha saputo dirlo Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.