Occorre rinnovarsi, non ci si oppone allo scorrere del tempo. E dunque anche la nostra Rivista trimestrale si rinnova: sia nella veste, non più cartacea ma informatica, sia nella composizione del Comitato di redazione, più ampio del precedente.
Si rinnova anche nella persona del direttore editoriale, e mi si perdonerà allora un accento personale – ma sono certo di esprimere il pensiero della redazione tutta – nel ringraziare Beniamino Deidda e Livio Pepino, che prima di me hanno svolto questo compito con passione ed intelligenza straordinarie, e nel rivolgere un pensiero commosso alla memoria di Pino Borré.
Ed è proprio pensando a Pino Borrè, allo spirito in cui egli concepì ed impostò la linea politico-culturale di Questione giustizia, riprendendo il testimone della più antica Quale giustizia, nel solco della tradizione di Magistratura democratica, che vorrei sottolineare come, pur nel necessario rinnovamento, la Rivista non debba perdere il legame con le proprie origini e con la propria storia, con l’impulso ideale che la ha fatta nascere e che la ha costantemente spinta ad interrogarsi intorno al grande tema della giustizia, nelle sue tante e mutevoli declinazioni.
Perché la parola “giustizia” evoca un concetto difficile da definire, e spesso financo terribile nella sua attuazione; né certo è senza significato che già nel nome di Quale giustizia fosse evidentemente sottintesa la possibilità di concepire ed attuare la giustizia in molti modi: donde la necessità d’interrogarsi su quale fosse l’idea di giustizia da privilegiare e su quali presupposti sociali e culturali essa dovesse basarsi.
Il nome che oggi reca la rivista – Questione giustizia – rende forse ancor più esplicito il carattere intrinsecamente problematico della giustizia: quanto la sua attuazione sia sempre gravida di difficili interrogativi e come perciò essa ponga inesauribili domande, che la mettono permanentemente in questione, sicché essa stessa è una questione. Una questione alla quale non credo si possano mai dare risposte definitive, valide in ogni luogo ed in ogni tempo, ma che si ripresenta continuamente, ed in forme sempre nuove, lungo i mutevoli tornanti della storia.
Ciò che vorremmo tuttavia non mutasse è l’atteggiamento critico ed al tempo stesso aperto della Rivista nell’affrontare i variegati temi della giustizia.
Atteggiamento che aspira ad esser critico verso chiunque dimentichi, tanto nelle aule giudiziarie quanto al di fuori di esse, che nell’ottica della nostra costituzione repubblicana non si dà mai vera giustizia senza il rispetto di quei principi di eguaglianza e solidarietà – nei rapporti individuali e nei rapporti sociali – che sono il fondamento del vivere in società ed ai quali lo Stato di diritto deve inderogabilmente conformare le proprie leggi e gli interpreti debbono ispirare la concreta ed effettiva applicazione di esse. Ma atteggiamento che al tempo stesso vuole essere aperto alle istanze culturali, intellettuali e politiche (nel senso nobile che tale parola ha, e dovrebbe sempre conservare) provenienti da ogni ambito della società: perché deriva dalla migliore e più radicata tradizione di Magistratura democratica la spinta a non restringere l’analisi dei temi giuridici ai profili meramente tecnici ed a rifuggire dall’ottica corporativa ed autoreferenziale che ha spesso rischiato d’impoverire la discussione dei magistrati in sede associativa. E si dovrà perciò soprattutto prestare attenzione a come i temi della giustizia e, più in generale, i temi etici, sociali ed economici che alla giustizia rimandano, vanno oggi evolvendo in campo sovranazionale – soprattutto, naturalmente, in ambito europeo – giacché è sotto gli occhi di tutti che, ad onta del riaffacciarsi talvolta rumoroso di spinte nazionalistiche non scevre da pericolose istanze xenofobe, il fenomeno ormai noto col nome di “globalizzazione” ha determinato in molti campi un progressivo ritrarsi degli ordinamenti nazionali e delle relative istituzioni giudiziarie ed un progressivo espandersi di regole giuridiche di origine sovranazionale, la cui interpretazione ed applicazione chiama sempre più spesso in causa corti anch’esse sovranazionali. La scena giudiziaria sulla quale si svolge il dramma della giustizia si è fatta insomma più larga, forse per ciò stesso talvolta meno facilmente decifrabile, ma proprio per questo è al fondo di essa che occorre maggiormente sforzarsi di scrutare.
Non è dunque casuale che il primo numero di Questione giustizia di quest’anno sia in parte dedicato a temi, quale quello dei diritti umani e dell’immunità giurisdizionale degli Stati, che ci proiettano in uno scenario sovranazionale e ci interrogano sul modo in cui l’operare delle corti sovranazionali si rapporta al nostro ordinamento interno.
Ma questo, ben s’intende, non vuol dire certo disinteressarsi dei tanti e complessi problemi che la giustizia e la sua faticosa amministrazione pongono in ambito nazionale: del tormentato rincorrersi di riforme spesso più propagandate che realizzate, ma talvolta pregne di significati anche simbolici, come nel caso del cosiddetto jobs act, recentemente approvato tra vivacissime polemiche, e della nuova legge elettorale in gestazione (di cui in questo numero, infatti, ci si occupa); degli affanni di una giustizia penale che la riluttanza dei titolari del potere politico è andata snaturando sino al punto da rendere il processo un ginepraio di cavilli, che lo trasformano in una lotta col tempo per evitare o per conseguire, a seconda dei punti di vista, la paventata o agognata prescrizione, e che per ciò stesso ne hanno fatto un terreno in cui più che mai fa differenza la possibilità di avvalersi del costoso ausilio di abili professionisti legali; della drammatica situazione delle carceri, nonché del significato stesso della pena (ed in specie di quella detentiva) in società che pretendono ancora di ispirarsi al pensiero di Cesare Beccaria; dell’eterno tema dell’inefficienza della giustizia civile, alla cui profonda crisi si è cercato da ultimo di porre rimedio, ma forse alquanto maldestramente, con strumenti alternativi di non sicura efficacia (di cui pure in questo numero già ci si occupa); del progressivo ampliamento dei settori d’intervento della giustizia amministrativa, che da un lato ha acuito l’annoso problema dell’unità della giurisdizione, complicandone non poco il riparto e facendo ancor più risaltare l’incongruenza di un sistema che nel medesimo ambito o in ambiti giuridici contigui rischia di dar vita ad un diritto vivente schizofrenico, ispirato ad orientamenti giurisprudenziali non coordinati, e, dall’altro lato, pone seri interrogativi in ordine ai limiti dell’intervento giurisdizionale nella sfera di azione della pubblica amministrazione e del ruolo che in quegli interventi può o deve assumere la considerazione del pubblico interesse.
L’elenco dei temi sui quali l’esigenza di giustizia ci interroga potrebbe continuare a lungo, e basta d’altronde gettare uno sguardo alle molteplici questioni che già da tempo sono quotidianamente affrontate sulla Rivista on line per rendersene conto; questioni molte delle quali meritano quel maggiore approfondimento proprio in vista del quale la Rivista trimestrale continua ad esistere, pur se anch’essa ormai in forma digitale. Non mancheremo di occuparcene.
Tra i temi che occorrerà esaminare non potrà ovviamente mancare neppure quello, che è stato in questi giorni al centro dell’attenzione non solo dei diretti interessati ma anche dell’intera opinione pubblica, della riforma della responsabilità civile dei magistrati. Questione giustizia vi ha dedicato un apposito Obiettivo nel n. 5 dell’anno 2013 (pagg. 23 e ss,) e varrà certo la pena di tornarvi in uno dei prossimi numeri della Rivista trimestrale per riflettere a mente fredda sulla valenza e sugli effetti della nuova normativa. Sin d’ora, però, sembra possibile fare alcune brevissime considerazioni.
È innegabile che la nuova normativa, al di là di quanto possa dipendere dall’impulso datole dalla nota sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 24 novembre 2011, in causa C-379/10, ha inteso ampliare l’area della responsabilità civile in cui possono incorrere i magistrati nell’esercizio delle loro funzioni e rendere più agevole l’esperimento dell’azione da parte di chi si pretenda danneggiato. L’enfasi mediatica con la quale, almeno ad opera del Presidente del consiglio, si è accompagnato il varo della nuova legge con il facile slogan «finalmente chi sbaglia paga» non mi pare lasci dubbi a questo riguardo. Non entrerò qui nel merito delle disposizioni che sono state introdotte per realizzare quell’obiettivo. Sarà meglio – ripeto – farlo in uno dei prossimi numeri della Rivista con più approfondimento ed a mente fredda.
Due cose però immediatamente colpiscono.
In primo luogo la scarsa consapevolezza di come la previsione di responsabilità anche per «travisamento del fatto e delle prove» rischi di facilmente di tracimare in responsabilità del giudice per l’interpretazione che dei fatti e delle prove egli abbia dato. La parte che con quell’interpretazione non sia d’accordo sarà tentata di scorgervi un travisamento, e chiunque nell’attuale contesto italiano abbia una anche minima esperienza dei motivi d’impugnazione avverso provvedimenti giudiziari sa bene quanto facilmente e quanto spesso il dissenso sull’interpretazione delle risultanze processuali operata dal giudice venga prospettato dall’impugnante proprio in termini di travisamento di quelle medesime risultanze. Donde l’impressione che il legislatore abbia qui finito per abbracciare una concezione a dir poco ingenua dell’esercizio della giurisdizione: quasi si trattasse di un’operazione combinatoria di dati normativi e fattuali di per sé incontrovertibili, e non invece della faticosa e sempre problematica ricerca di una corretta interpretazione degli uni e degli altri, il cui esito dovrebbe esser valutato soprattutto in termini di persuasività della motivazione ma raramente si presta alla secca alternativa tra vero e falso.
Si obietterà che, dopo tutto, anche la fondatezza delle azioni di responsabilità intentate nei confronti di magistrati è destinata ad esser valutata da altri magistrati, e che dunque starà a loro evitare il rischio di un’applicazione troppo estesa dei criteri di responsabilità che sfoci in un indebito sindacato sulla valutazione e sull’interpretazione delle risultanze istruttorie. Qui si colloca la seconda breve osservazione che intendevo fare: la quale si lega soprattutto all’eliminazione del filtro di ammissibilità preventiva dell’azione di responsabilità – con un implicito quanto evidente incoraggiamento ad esercitarla – ed alla possibilità che ciò avvenga anche prima che sia giunto a compimento il giudizio che vi avrebbe dato causa e nel corso del quale si sarebbe prodotto il danno (a seguito, per esempio, di un provvedimento cautelare). In questa situazione – e con il sovraccarico di enfasi mediatica che, come detto, ha accompagnato il varo della nuova legge sulla responsabilità dei magistrati – il maggior pericolo non è probabilmente quello di una pioggia di condanne (se e quando dovessero esser pronunciate), bensì di un proliferare di azioni (magari anche solo strumentalmente intraprese), destinate comunque nell’immediato a rendere più difficile l’esercizio della giurisdizione e, quel che è peggio, a spingere i magistrati meno sicuri di sé verso soluzioni che non li espongano al rischio dell’azione di responsabilità. Ci vorrà insomma più coraggio per assumere decisioni sfavorevoli alla parte forte del processo.
È questo che soprattutto lascia un sapore amaro. La constatazione che, in un Paese nel quale il tasso d’illegalità è tra i più alti ed in cui solo per effetto dell’opera della magistratura (pur con tutti gli errori e le manchevolezze che le si possono rimproverare) nei decenni scorsi è stato posto un qualche argine (ben fragile, ahimè) al dilagare della corruzione, non solo nella classe politica ma nella classe dirigente in generale, il legislatore adotti misure volte più a condizionare l’opera della magistratura medesima – fosse pur solo simbolicamente – che a rafforzarne il ruolo di contrasto all’illegalità.